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Diffamazione - Cassazione Penale: l’indirizzo IP incastra il colpevole

In caso di diffamazione via internet, l’indirizzo IP dell’utenza telefonica è una prova idonea a determinare la paternità del commento incriminato. Ha così statuito la Corte di Cassazione pronunciandosi in relazione ad una controversia sorta tra il segretario e il direttore artistico del teatro di Catania.

La vicenda è nata da un commento sul blog di un quotidiano locale in cui l’imputato, non favorevole alla nomina del neo direttore artistico, si sarebbe rivolto a quest’ultimo descrivendolo con epiteti offensivi e infamanti. A seguito della querela, la corte territoriale si era espressa condannando l’imputato per il reato di diffamazione di cui all’articolo 595 del codice penale, in cui la giurisprudenza pacificamente ricomprende anche la diffamazione per mezzo di internet.

Le corti di primo e secondo grado fondavano le sentenze di condanna innanzitutto sull’indirizzo IP, riconducibile all’abitazione dell’imputato, e sul  movente del noto rapporto di conflittualità e rivalità esistente tra i due ed emerso chiaramente durante il processo.

Il reo si è rivolto così in Cassazione adducendo, quali motivi di ricorso, l’inattendibilità del movente e, soprattutto, paventando l’eventualità che un terzo, non identificato, possa aver usufruito della sua rete wireless per scrivere il commento diffamatorio e colpire, così, entrambi i soggetti. Pertanto, sostiene il ricorrente, le condanne non vanno al di là di ogni ragionevole dubbio e sono, per questo, ingiuste.

La Suprema Corte ritiene però non plausibile e inverosimile la possibilità, peraltro del tutto ipotetica e supportata solo da dichiarazioni “assertive e irrilevanti”, del “furto di identità” che scagionerebbe il reo. Pertanto la Corte, assegnando al tema del movente un ruolo di mero rafforzamento della prospettazione accusatoria, e definendo l’argomento dell’indirizzo IP collegato all’abitazione dell’imputato come decisivo e idoneo a imputare il reato, dichiara inammissibile il ricorso e conferma la condanna.

(Corte di Cassazione - Sezione Quinta Penale, Sentenza 29 ottobre 2015 - 29 febbraio 2016, n. 8275)

In caso di diffamazione via internet, l’indirizzo IP dell’utenza telefonica è una prova idonea a determinare la paternità del commento incriminato. Ha così statuito la Corte di Cassazione pronunciandosi in relazione ad una controversia sorta tra il segretario e il direttore artistico del teatro di Catania.

La vicenda è nata da un commento sul blog di un quotidiano locale in cui l’imputato, non favorevole alla nomina del neo direttore artistico, si sarebbe rivolto a quest’ultimo descrivendolo con epiteti offensivi e infamanti. A seguito della querela, la corte territoriale si era espressa condannando l’imputato per il reato di diffamazione di cui all’articolo 595 del codice penale, in cui la giurisprudenza pacificamente ricomprende anche la diffamazione per mezzo di internet.

Le corti di primo e secondo grado fondavano le sentenze di condanna innanzitutto sull’indirizzo IP, riconducibile all’abitazione dell’imputato, e sul  movente del noto rapporto di conflittualità e rivalità esistente tra i due ed emerso chiaramente durante il processo.

Il reo si è rivolto così in Cassazione adducendo, quali motivi di ricorso, l’inattendibilità del movente e, soprattutto, paventando l’eventualità che un terzo, non identificato, possa aver usufruito della sua rete wireless per scrivere il commento diffamatorio e colpire, così, entrambi i soggetti. Pertanto, sostiene il ricorrente, le condanne non vanno al di là di ogni ragionevole dubbio e sono, per questo, ingiuste.

La Suprema Corte ritiene però non plausibile e inverosimile la possibilità, peraltro del tutto ipotetica e supportata solo da dichiarazioni “assertive e irrilevanti”, del “furto di identità” che scagionerebbe il reo. Pertanto la Corte, assegnando al tema del movente un ruolo di mero rafforzamento della prospettazione accusatoria, e definendo l’argomento dell’indirizzo IP collegato all’abitazione dell’imputato come decisivo e idoneo a imputare il reato, dichiara inammissibile il ricorso e conferma la condanna.

(Corte di Cassazione - Sezione Quinta Penale, Sentenza 29 ottobre 2015 - 29 febbraio 2016, n. 8275)