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Dipendenti, offese via social e chat aziendale. Quando il datore di lavoro può licenziare?

Monument Valley
Ph. Antonio Capodieci / Monument Valley

Recentemente la Corte di Cassazione ha pubblicato due sentenze che, pur avendo ad oggetto casi abbastanza analoghi, hanno condotto a due conclusioni molto diverse.

Le due vicende hanno riguardato il licenziamento di altrettanti dipendenti da parte dei rispettivi datori di lavoro per aver scoperto contenuti offensivi rivolti ai propri superiori gerarchici, in un caso oggetto di un post pubblicato su Facebook mentre secondo fatti circolare sulla chat aziendale.

Sebbene gli orientamenti espressi dalla Corte di Cassazione con le pronunce in commento non presentino elementi di particolare novità, la loro analisi fa emergere ancora una volta l’importanza degli obblighi privacy richiamati dall’articolo 4 dello Statuto dei Lavorativi sul controllo a distanza dei dipendenti.

 

Prima pronuncia: l’offesa via chat aziendale

La prima pronuncia che ci interessa commentare è la sentenza 22 settembre 2021, n. 25731 della Cassazione Civile.

In breve, il caso riguardava il licenziamento di un dipendente che aveva inviato un messaggio dal contenuto offensivo sulla chat aziendale rivolto a propri superiori gerarchici, scoperto dalla società-datore di lavoro in occasione di un intervento informatico di manutenzione sulla chat.

Nei due gradi di giudizio di merito, sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano statuito circa l’illegittimità del licenziamento principalmente sulla base di tre ragioni:

  1. Il messaggio non presentava un intento denigratorio, essendo qualificabile come un semplice “sfogo” del dipendente, lecito ed ascrivibile all’esercizio del diritto di libera manifestazione di pensiero del dipendente;
  2. Dato che il messaggio era stato scambiato su una chat aziendale che ne permetteva la lettura al solo destinatario, ed il cui accesso poteva avvenire solo tramite credenziali personali, esso doveva considerarsi “coperto” dall’articolo 15 della Costituzione, disciplinante la segretezza della corrispondenza. In altre parole, nessun estraneo (datore di lavoro incluso) poteva considerarsi legittimato ad accedere al contenuto;
  3. La società-datore di lavoro aveva omesso di informare i dipendenti del controllo, in violazione di quanto impone l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori.

Respingendo tutti i motivi di ricorso del datore di lavoro, la Cassazione ha in particolare sottolineato l’inammissibilità della doglianza sollevata dal datore di lavoro riguardante la natura di controllo difensivo dell’attività effettuata, perché non avanzata nei gradi di giudizio di merito.

È interessante notare come, secondo il recente orientamento proprio della stessa Corte di Cassazione (sentenza n.25732 del 22 settembre 2021), anche se il controllo fosse stato qualificabile come “controllo difensivo”, gli unici dati trattabili ai fini dell’adozione del provvedimento disciplinare sarebbero stati, seguendo il ragionamento degli Ermellini, esclusivamente quelli successivi al controllo stesso, essendo quest’ultimo il momento in cui può dirsi esistente il fondato sospetto che giustifica il trattamento.

 

Seconda pronuncia: l’offesa su post Facebook

La seconda pronuncia, con risultati contrari rispetto alla prima, è rappresentata invece dalla sentenza n. 27939 del 13 ottobre 2021.

Analogamente alle vicende della prima pronuncia, anche in questo caso la controversia riguardava il licenziamento di un dipendente che aveva espresso contenuti offensivi verso un proprio superiore gerarchico, qui però non via chat aziendale bensì tramite la pubblicazione di un post sulla propria bacheca Facebook.

Il licenziamento veniva ritenuto legittimo nei due gradi di giudizio di merito perché, premesso il carattere denigratorio dei contenuti offensivi, non poteva ritenersi che anche per la bacheca Facebook valessero le garanzie previste dall’articolo 15 della Costituzione.

Sul punto, rigettando il motivo di ricorso del dipendente licenziato, la Corte di Cassazione ha ritenuto ineccepibile la conclusione dei giudici di merito.

A differenza della chat aziendale, così come di qualsiasi altro canale di comunicazione privato, la bacheca Facebook comporta una circolazione diffusa del messaggio, non limitata ad un gruppo determinato di persone. Pertanto, non trovano applicazione le garanzie di segretezza della corrispondenza previste dall’articolo 15.

A riguardo, sarebbe stato interessante sapere se le conclusioni della Cassazione sarebbero state le stesse se la bacheca Facebook del dipendente fosse stata “privata”, ovverosia visibile esclusivamente a coloro accettati come amici e non già a qualsiasi utente del social. Sarebbe cambiato qualcosa in questo caso? Presumibilmente no.

 

Gli insegnamenti privacy

Le due pronunce brevemente commentate, insieme alla citata giurisprudenza recente sui controlli a distanza limitati ai soli dati raccolti successivamente all’atto di controllo compiuto dal datore di lavoro, ci permette di ricordarci qualche insegnamento privacy che, per quanto noti, tendono ancora ad essere facilmente dimenticati.

Il primo è sempre lo stesso. Trasparenza e informazione verso gli interessati, siano essi dipendenti, clienti, fornitori o qualsiasi altra persona fisica i cui dati vengano trattati dal titolare.

Secondo: fondamentale un regolamento sull’utilizzo degli strumenti aziendali, inclusi canali comunicativi quali chat aziendali e mail che, secondo l’articolo 4 dello Statuto di Lavoro, sono strumenti di lavoro a tutti gli effetti.

Terzo ed ultimo, anche se bisognerà vedere se la Cassazione confermerà il suo recente orientamento nel futuro, i controlli difensivi hanno dei forti e non sono l’ancora di salvezza a cui aggrapparsi in ogni caso.