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Etica della cura: una proposta per l’universo della pena

Ethics of care and punishment: an impossible marriage?
Independence Day, l'astratto a fuoco
Ph. Giacomo Porro / Independence Day, l'astratto a fuoco

Articolo pubblicato nella sezione L’universo della pena del numero 1/2020 della Rivista "Percorsi penali".

 

Abstract

In questo articolo mi propongo di difendere l’idea che uno dei doveri fondamentali dello stato nei confronti di coloro che subiscono una sanzione penale sia l’obbligo di cura. A partire da recenti lavori nell’ambito dell’etica della cura, in questo lavoro enucleo la giustificazione di questo dovere dello stato e discuto il modo in cui questo debba essere concepito e messo in pratica.

In this paper, I argue that one of the core obligations of the state towards those who undergo criminal punishment is a duty of care. Drawing on recent works in the ethics of care, I discuss the reasons why the state should be regarded as having this duty and how this duty should be understood and implemented.

 

Sommario

1. Introduzione

2. L’etica della cura e il suo ruolo nella sfera politica

2. 1 Origine e caratteristiche fondamentali

2. 2 Per una politica della cura

3. Il principio della cura e la pena: la giustificazione dei doveri dello stato

3.1 Rispetto dell’individuo e i bisogni fondamentali

3.2 Le vittime dimenticate della pena: le famiglie e i bambini

3.3 Il ruolo rieducativo della cura

3.4 La speciale responsabilità dello stato

4. Praticare la cura durante la pena: realtà o utopia?

4.1 È possibile immaginare un sistema penale che si prende cura?

4.2 Carcere e cura: alcune proposte pratiche

5. Conclusione

 

Summary

1. Introduction

2. The ethics of care and its role in politics

2.1 For a different morality

2.2 Towards a politics of care

3. Care and punishment: the duty of care of the state

3.1 Respect and basic needs

3.2 The hidden victims of punishment: children and families

3.3 The rehabilitative role of care

3.4 The state special care responsibility

4. Caring while punishing

4.1 Is a caring criminal justice system possible?

4.2 Prison and care: some proposals

5. Conclusion

 

 

1. Introduzione

L’etica della cura costituisce uno dei più rilevanti e influenti approcci all’etica degli ultimi cinquant’anni. Nata nell’ambito del pensiero femminista e di studi empirici che identificano un differente approccio delle donne ai problemi e ai conflitti morali[1], l’etica della cura si propone di mettere in risalto concetti e criteri largamente ignorati dalle teorie morali tradizionali. Centrale è in questa il prendersi cura dell’altro. Invece di organizzarsi intorno a principi astratti e assoluti e all’imperativo dell’imparzialità, tipici dell’etica tradizionale, questo approccio guarda agli individui, alle loro vulnerabilità, ai loro bisogni particolari e alle responsabilità reciproche, a motivo delle relazioni che tra noi intercorrono.[2] Questa teoria, originariamente sviluppata nell’ambito della filosofia morale e delle relazioni interpersonali della sfera privata, è stata proposta in anni più recenti come approccio rilevante anche nella sfera politica.[3] Ne discende che il principio della cura dovrebbe modellare anche le decisioni dello stato e la relazione tra i cittadini in virtù della nostra comune natura, spesso ignorata dal pensiero liberale, di individui vulnerabili, dipendenti e bisognosi di cura.

In questo articolo, mi propongo di rispondere alla domanda se il principio della cura possa e debba essere pensato anche come criterio guida della relazione tra lo Stato e una particolare categoria di cittadini, coloro che subiscono una sanzione penale. Pensare alla cura nel contesto della pena potrà sembrare a molti paradossale, soprattutto se consideriamo la prospettiva retributiva e punitiva prevalente nel dibattito pubblico e nelle scelte politiche. Il carcere, luogo paradigmatico della pena, è agito e inteso, con rarissime eccezioni, come antitesi della cura. In questo articolo, mi propongo di argomentare perché è importante affermare il principio secondo il quale se lo Stato ha il compito di rispondere ai bisogni fondamentali dei suoi cittadini, tali bisogni e la responsabilità dello stato di curarsi di essi non vengono cancellati in presenza di un reato.[4]

Il secondo obiettivo di questo articolo è identificare alcune linee guida riguardo ai modi in cui il principio della cura può essere applicato all’universo della pena, a partire da alcune proposte elaborate nel Regno Unito.[5] Il nucleo centrale di questa analisi è la condizione dei detenuti, in ragione del fatto che tutti gli aspetti della loro vita, inclusa la tutela e la risposta ai loro bisogni primari, sono riposti nelle mani dello Stato. Ciò rende urgente un ripensamento del carcere in quanto istituzione totale come possibile luogo di cura degli individui che vi sono ristretti.

 

2. L’etica della cura e il suo ruolo nella sfera politica

2.1 Origine e caratteristiche fondamentali

L’etica della cura ha origine nella tradizione del pensiero femminista e in particolare negli studi della psicologia statunitense Carol Gilligan, che nel 1982 pubblica il suo “In a Different Voice[6]. In questo testo, la Gilligan mette in discussione uno dei modello tradizionali della psicologia morale, difeso e sviluppato dal suo maestro Lawrence Kohlberg, secondo il quale il pieno sviluppo morale viene raggiunto dall’individuo quando questo diviene in grado di formulare e seguire principi morali universali e astratti, indipendenti dalle norme sociali interiorizzate e dall’appartenenza al gruppo.

Questo stadio, secondo Kohlberg, viene di rado raggiunto dalle donne che si fermano ad uno stadio ritenuto meno compiuto e caratterizzato dall’attenzione agli altri e dal concentrarsi sulle relazioni. Questo approccio alla morale non a caso è anche quello prevalente nella filosofia morale e nel pensiero liberale moderno e contemporaneo.

Gilligan nota come questa teoria dello sviluppo morale sia modellata sull’esperienza morale maschile. Il modo in cui i bambini e i giovani maschi vengono socializzati li porta ad una maggiore separazione e astrazione dal contesto e ad una maggiore sensibilità per la  propria autonomia. Al contrario, le bambine e le giovani donne vengono socializzate in un modo che favorisce l’attenzione all’altro con cui sono in relazione e sviluppano un senso della morale in linea con queste aspettative e valori.

In ragione di questo, secondo Gilligan, non si può parlare di un approccio alla morale, quello maschile, che Gillian chiama etica dei diritti, superiore, ma si dovrebbe parlare di due differenti, e incommensurabili, modi di intendere la natura delle ragioni e delle scelte morali. Quello femminile, più contestuale, relazionale e attento ai bisogni, viene denominato da Gilligan etica della cura.

Nei decenni successivi, l’etica della cura è stata oggetto di moltissime indagini e riflessioni, molto è cambiato dai primi lavori sull’etica della cura[7], che non è più concepita come un modo per descrivere l’esperienza femminile della morale, ma è ora formulata come una teoria morale alternative a quelle tradizionali, che articola alcuni dei valori più significativi.

Sebbene diverse autrici declinino l’etica della cura in maniera diversa, si possono identificare alcuni aspetti centrali di questo approccio, che ci è utile passare in rassegna.

In primo luogo, l’etica della cura è caratterizzata da una concezione dell’essere umano che si allontana in maniera significativa da quella delle teorie morali tradizionali e del pensiero liberale. Mentre queste ultime concepiscono il soggetto come separato dagli altri, autonomo nel senso di autosufficiente, e razionale, il cui principale obiettivo è perseguire il proprio interesse, il soggetto dell’etica della cura è dipendente e bisognoso di cura e allo stesso tempo capace di curarsi degli altri.[8] La nostra dipendenza è generata dal nostro essere corpi e dalla necessità dell’altro per soddisfare i nostri bisogni primari.[9] Oltre alla dipendenza per la soddisfazione dei nostri bisogni fisici che viene esperita in maniera più pressanti in alcune fasi della nostra vita, siamo costantemente dipendenti dagli altri per soddisfare i nostri bisogni psicologici ed emotivi. Gli effetti dell’assenza di relazione interpersonali e di relazioni di cura sul nostro benessere e stabilità psicologica sono deleteri.[10]

La nostra natura relazionale è anche riscontrata nel fatto che la nostra identità di individui, il come concepiamo noi stessi, è profondamente influenzata dal nostro rapporto con gli altri e dalla realtà che ci circonda. Formiamo la nostra identità a partire dai contesti culturali, sociali e politici di cui siamo parte.[11]

Inoltre, se il far parte di relazione di amore e cura con i nostri affetti più stretti e di rispetto e riconoscimento con gli altri membri della nostra comunità ci permette di sviluppare una positiva relazione con noi stessi e il rispetto di noi stessi, l'assenza di tali rapporti, l’abbandono, la mancanza di cura e di riconoscimento sociale tende a portare ad una mancanza di rispetto di sé che spesso ha conseguenze drammatiche sul benessere dell’individuo. La nostra dipendenza, in quanto comune a tutti gli esseri umani, è in realtà una forma di interdipendenza: una forma di reciproca necessità di affidarsi agli altri. Esistiamo quindi in una rete di rapporti di cura reciproca.

Un secondo rilevante aspetto dell’etica della cura è, proprio a partire da questa concezione della persona, un’attenzione ai bisogni e alle necessità di coloro con cui ci troviamo in relazione e di cui siamo responsabili.[12] L’idea centrale, che si distacca in maniera significativa dal principio di imparzialità che caratterizza molta della morale tradizionale, è che i bisogni di coloro che ci sono vicini abbiano una rilevanza morale particolare per noi in ragione del fatto che questi individui, in quanto dipendenti non solo in assoluto, ma da noi in particolare, hanno bisogno della nostra cura.

In terzo luogo, l’etica della cura rifiuta l’idea che il ragionamento morale debba essere condotto necessariamente nella maniera più astratta possibile, per evitare arbitrarietà e favorire l’imparzialità.[13] I principi universali e astratti, suggeriscono i teorici della cura, non sempre rappresentano la migliore guida nelle deliberazioni morali e in alcuni ambiti quali quello delle relazioni intime è opportuno che sia preferita l’attenzione all’altro particolare.

Il conflitto tra universale e particolare non è concepito, come in parte della tradizione, come conflitto tra egoismo e i dettami della morale, come lotta tra desideri e interessi egoistici dell’individuo e la necessità di riconoscere e obbedire ai principi universali della morale.

È invece pensato come scontro tra due facce della morale, quella universale e quella particolare, che origina dalle nostre responsabilità di cura verso gli altri con cui siamo in relazione. In conseguenza di questi aspetti l’etica della cura pone l’attenzione della filosofia morale sulle relazioni, spesso involontarie, tra persone dipendenti, interconnesse e a volte ineguali, lontane dal modello del contratto sociale stipulato tra individui autosufficienti e indipendenti che scelgono razionalmente di relazionarsi per promuovere i propri interessi. 

Infine, l’etica della cura valorizza il ruolo delle emozioni come guida nelle nostre scelte morali.[14] L’etica tradizionale, soprattutto di matrice Kantiana, è eminentemente razionalista e afferma che solo il ragionamento razionale può portarci a comprendere la natura dei nostri obblighi morali e, secondariamente, che la ragione è l’unica fonte appropriata della motivazione ad agire secondo i dettami della morale. Al contrario per l’etica della cura emozioni come empatia e sensibilità sono da coltivare per aiutarci a riconoscere e seguire le nostre responsabilità morali. Queste emozioni non sono però da accettare e seguire ciecamente, ma da valutare e esaminare criticamente.

Nonostante in questa letteratura non si possa trovare una definizione univoca di cura, e forse tale definizione non sia necessaria, è importante fare alcune precisazioni su cosa si intenda per cura all’interno di un’etica della cura.

Prima di tutto per cura si intende non solo una disposizione d’animo, non solo l’idea di avere a cuore l’altro, ma un’attività, o una serie di attività, un attivo prendersi cura dell’altro.[15] Prendersi cura necessariamente richiede attenzione e sensibilità nel comprendere e rispondere ai bisogni dell’altro; tuttavia, queste disposizioni non hanno necessariamente luogo all’interno di relazioni di amore.

Mentre il modello dell’amore materno rimane centrale per l’etica della cura, la cura è agita in vari contesti e da diversi soggetti: nelle scuole, negli ospedali e nelle case da parte di infermieri/e, maestri/e, collaboratori e collaboratrici domestici, amici e familiari.[16]

In alcuni di questi contesti, ci troviamo di fronte a relazioni d’amore e di cura, in altri a relazioni di cura. Cura è anche lavoro, in alcuni casi retribuito ed in altri gratuito.[17] Anche nei casi, come quello della cura dei figli da parte dei genitori, in cui la cura non è professionalizzata, definire la cura anche lavoro è importante perché sottolinea l’elemento di fatica e sforzo che la cura necessariamente richiede.

Infine, come sottolinea Virginia Held, all’interno di una corretta definizione di cura deve trovare spazio anche una dimensione valutativa.[18] L’attenzione all’altro particolare, la presa di responsabilità dei propri obblighi relazionali, la sensibilità e la prontezza nel rispondere ai bisogni dell’altro sono i valori centrali della cura e di un’etica della cura.[19] Singole pratiche di cura debbono essere valutate in relazione alla loro capacità di realizzare questi valori.

In ragione di questo, un’etica della cura non deve accettare cecamente tutti i modi in cui la cura è praticata, inclusi quelli che si discostano dai valori che la cura dovrebbe incarnare. Anzi, l’etica della cura deve essere usata come strumento critico per valutare le pratiche di cura esistenti.

 

2.2 Per una politica della cura

Varie sono le obiezioni che sono state mosse all’etica della cura: dalla preoccupazione che essenzializzi il femminile al rischio della trappola della cura, ovvero che queste teorie non forniscano strumenti di critica dell’oppressione che spesso caratterizza l’esistenza delle donne proprio in ragione delle responsabilità della cura.[20]

Mentre queste critiche appaiono centrate nei confronti di alcune delle prime elaborazioni dell’etica della cura[21], teorie più recenti, come quella elaborata da Eva Kittay, hanno portato avanti una critica puntuale e acuta dei modi in cui la cura può diventare fonte e ragione di oppressione.[22] Inoltre, l’etica della cura non è volta tanto a descrivere e legittimare l’esperienza femminile della morale, ma a difenderla come teorie morale alternativa a quelle tradizionali di derivazione Kantiana e utilitarista.

Il problema più interessante dal nostro punto di vista è il rapporto tra giustizia e cura.

Come abbiamo osservato esiste una tensione tra etica della giustizia e dei diritti come concepita dal pensiero liberale ed etica della cura, in quanto questi due approcci concepiscono gli individui in maniera radicalmente diversa e mettono al centro aspetti diversi della nostra esperienza morale.

Alcune delle prime promotrici dell’etica della cura la concepivano come approccio morale indipendente e superiore a quello della giustizia.[23]

In anni più recenti, da molte parti è stato rimarcato che se la giustizia senza cura è problematica perché dimentica aspetti fondamentali della nostra natura, come il nostro essere dipendenti, e della nostra vita morale, come la nostra responsabilità verso le persone con cui abbiamo relazioni di cura, la cura senza giustizia è un approccio ugualmente parziale. Imparzialità, equità, eguaglianza e diritti sono valori fondamentali che devono essere incorporati nel nostro orizzonte morale e politico. Inoltre, molte filosofe femministe considerano i diritti, dai diritti riproduttivi ai diritti all’interno della famiglia, come centrali nel combattere l’oppressione delle donne.[24] Proprio per questo la maggior parte delle teoriche della cura contemporanee suggeriscono un’integrazione tra i valori della cura e della giustizia. Come questa integrazione debba avere luogo è oggetto di varie discussioni.

Un approccio comunemente considerato insoddisfacente è quello di considerare la cura come centrale nella dimensione del privato, della famiglia e delle relazioni private, e la giustizia come valore cardine della dimensione pubblica.[25]

L’etica della cura, come gran parte del pensiero femminista, è volta a scardinare la distinzione tra dominio privato, in cui lo stato non può e non deve intervenire, e dominio pubblico.

In primo luogo, riflettere sulla cura ha, tra gli altri, l’obiettivo di portare l’attenzione pubblica sulla sua iniqua distribuzione e sulle ingiustizie che ne derivano all’interno della sfera privata.

In secondo luogo, l’etica della cura ambisce a ripensare la dimensione pubblica e le politiche pubbliche. Abbandonare l’idea del soggetto autosufficiente e indipendente tipica del pensiero liberale in favore di un soggetto relazionale e dipendente ha come effetto un ripensamento della relazione tra stato e cittadini: l’obiettivo dello Stato non è più primariamente o esclusivamente proteggere i diritti negativi di una certa tradizione liberale, come la libertà individuale e la proprietà, ma attivamente rispondere ai bisogni originati dalla dipendenza dei propri cittadini.[26] Prendere sul serio la dipendenza vuole dire anche prendere atto del fatto che non solo la possibilità di soddisfare i nostri bisogni primari, ma anche lo sviluppo delle nostre capacità, incluse la capacità di compiere scelte morali in maniera autonoma, così centrale per il pensiero politico e morale tradizionale, dipende dall’aver ricevuto e dal ricevere cura.[27] Dobbiamo quindi immaginare istituzioni e politiche pubbliche che forniscano cura e facilitino e supportino le relazioni di cura esistenti nella società.[28] Questo cambio di paradigma nel concepire il soggetto della morale e della politica permette inoltre l’inclusione di certe categorie, come i bambini e i disabili, tradizionalmente esclusi dal contratto sociale in quanto adulti non autosufficienti.[29]

Un altro significativo cambio di paradigma risultante dal mettere la cura al centro della politica si riferisce non al nostro essere destinatari della cura, ma coloro che la cura la forniscono. Se pensiamo a noi stessi come individui perennemente inseriti in una rete di relazioni di cura, all’interno delle quali siamo attori di cura, possiamo immaginare il nostro rapporto con gli altri membri della comunità politica come intriso di cura reciproca.

Dal punto di vista dell’etica della cura, la questione, estremamente spinosa per il pensiero liberale del come motivare gli individui a mettere da parte i propri interessi egoistici per agire al servizio della collettività, diventa meno complessa. Inoltre, questo approccio prende atto dell’altra faccia dei nostri bisogni sociali fondamentali: il bisogno di contribuire alla comunità e di dare cura che, come descritto nei lavori di Kimberley Brownlee, se non soddisfatto ha un effetto estremamente negativo sul benessere individuale.[30]

Dare spazio alla cura nell’ambito pubblico non richiede il concepire la società come una famiglia, intesa come un’unità armonica priva di conflitti e diseguaglianze di classe o di potere e, allo stesso tempo, non ci forza a concepire i cittadini come i bambini di uno Stato “madre”, che devono essere guidati ed educati.

Questo è in ragione del fatto che non dobbiamo prendere a modello necessariamente la famiglia e la cura nel contesto delle relazioni familiari, e in particolare la relazione madre-figlio, come alcune delle prime teoriche della cura sostenevano.[31]

Sono invece i valori dell’attenzione agli altri, della sensibilità ai bisogni e della responsabilità nei confronti degli altri che sono centrali nelle relazioni di cura anche al di fuori dell’ambito del materno che devono giocare un ruolo centrale nel nostro ripensamento delle istituzioni e politiche pubbliche e delle relazioni tra i cittadini.

Inoltre, proprio in ragione del fatto che l’etica della cura, come concepita da molte delle sue promotrici, non si propone di sostituire l’etica della giustizia, ma di agire all’unisono con essa valori come il rispetto per la libertà, l’autonomia e i diritti individuali trovano comunque uno spazio significativo in questa visione di società.

 

3. Il principio della cura e la pena: la giustificazione dei doveri dello stato

Se concepire la cura come centrale in alcuni ambiti della politica, come nelle politiche di welfare o nella sanità non appare così estraneo nella misura in cui alcune di queste considerazioni sono già presenti nel modo in cui queste istituzioni e politiche sono immaginate e organizzate, meno intuitivo è pensare al principio della cura come rilevante nel contesto della pena e concepire, come mi propongo di fare in questo articolo, coloro che subiscono una sanzione penale come destinatari di cura.

Virginia Held, una delle principali sostenitrici della compatibilità e complementarietà tra l’etica della giustizia e etica della cura sostiene che sebbene entrambe debbano giocare un ruolo significativo in tutti gli ambiti della vita pubblica e privata, ci siano dei campi in cui considerazione derivanti da una o dall’altra debbano avere priorità.[32]

Come esempio, Held porta l’ambito della legge, all’interno del quale considerazioni di giustizia, legate all’imparzialità e al rispetto dei diritti, devono avere la precedenza. Pur tuttavia, anche in questo campo, a suo avviso, considerazioni della cura devono giocare un ruolo.

Nel caso del diritto e dell’esecuzione penale, la cura può apparire persino meno appropriata se prendiamo in considerazione quelli che sono tipicamente concepiti come la natura e gli obiettivi del sistema penale. Se guardiamo alla giustificazione della pena, da una parte abbiamo teorie che guardano alle conseguenze della pena, e che la giustificano in ragione della prevenzione di futuri reati, da parte dalla persona punita (prevenzione speciale) e dal resto dei cittadini (prevenzione generale).[33]

Dall’altra troviamo coloro che difendono teorie retributive della pena, secondo le quali la pena è la risposta appropriata al reato perché coloro che commettono reati si meritano di essere puniti.[34] Secondo varie versioni della teoria retributiva, la sofferenza di colui che vi è sottoposto è essenziale nella risposta al danno causato dall’atto criminale. In entrambi i casi, sia che la sofferenza sia fine in sé o mezzo per ottenere altri scopi, come la prevenzione, la pena è concepita come necessariamente afflittiva.

In questo quadro, in cui parte dello scopo e della natura della pena è causare sofferenza in colui che viene punito, può sembrare difficile immaginare che lo Stato che amministra questa sofferenza sia anche fornitore di cura.

Tuttavia, questo non è l’unico caso in cui una punizione viene amministrata in un contesto di cura: all’interno della famiglia, i genitori impartiscono punizioni nei confronti di loro figli, che spesso causano sofferenza o qualche tipo di privazione, in parte proprio perché motivati da responsabilità di cura.

Questa analogia tra i genitori e lo stato è stata recentemente usata da Scott Gelfand per difendere e sviluppare l’idea che la cura debba giocare un ruolo nella pena.[35] Ciò nonostante, come sottolineato prima, ci sono delle ottime ragioni per non usare la relazione genitoriale come modello per quella tra Stato e cittadino. Inoltre, semplicemente invocare l’analogia tra Stato e genitori non è sufficiente a spiegare le ragioni per cui si debba presumere che lo stato abbia degli obblighi di cura nei riguardi dei propri cittadini, considerate le significative differenze tra le responsabilità dello Stato verso i propri cittadini adulti e quella dei genitori verso i propri figli minori.

 

3.1 Rispetto dell’individuo e i bisogni fondamentali

Un’alternativa più promettente è quella elaborata da Helen Brown Coverdale che, partendo dall’analisi di Eva Kittay, difende l’idea che il rispetto per le persone consista anche nell’assicurarsi che ogni individuo, inclusi coloro che si sono resi responsabili di un reato, abbia la possibilità di essere parte di relazioni di cura, il che include ricevere cura, ma anche essere messo nelle condizioni di fornire cura.[36]

Questo approccio è usato per spiegare le ragioni per cui lo Stato ha un dovere di cura verso i propri cittadini sottoposti ad una sanzione penale. Sebbene molti ritengano che l’aver commesso un reato porti alla temporanea sospensione di alcuni diritti fondamentali, come quello alla libertà, la stragrande maggioranza dei teorici concorda che coloro che vengono sottoposti ad una sanzione penale mantengono alcuni diritti fondamentali.

Alcuni di questi come il diritto ad un giusto processo o la protezione contro il trattamento degradante e inumano sono diritti che sono rilevanti per coloro che sono perseguiti o puniti, ma coloro che hanno commesso reati conservano anche altri diritti fondamentali, come il diritto alla vita o quello alla salute.

Proprio in ragione di questi diritti, sebbene vengano spesso ignorati, ci sono limiti sostanziali ai modi in cui lo Stato può trattare coloro che si trovano sotto la sua custodia. Prendere in esame non solo l’ottica dei diritti, ma anche quella della cura ha come conseguenza la presa di coscienza del fatto che non solo la tutela di alcuni diritti fondamentali, ma anche l’essere parte di relazione di cura è tra le cose fondamentali che lo Stato deve garantire ai propri cittadini, inclusi coloro che si sono resi responsabili di un reato.

Questa presa di coscienza deriva dall’apprezzare il ruolo fondamentale della cura nella soddisfazione dei nostri bisogni primari, fisici, emotivi e psicologici, ma anche nello sviluppo e del mantenimento del rispetto e della stima di sé e della capacità di agire autonomamente e di seguire i dettami della morale. In ragione del suo carattere fondamentale l’essere parte di relazioni di cura non è qualcosa che può essere sottratto ai cittadini, anche qualora essi abbiano commesso un reato.

 

3.2 Le vittime dimenticate della pena: le famiglie e i bambini

Se la tutela dei bisogni fondamentali e il rispetto degli individui forniscono la giustificazione principale del dovere dello Stato di garantire e facilitare relazioni di cura, ci sono altre importanti ragioni per difendere questa posizione.

La prima considerazione riguarda l’effetto di queste politiche sulle famiglie di coloro che sono soggetti ad una sanzione penale, in particolar modo i familiari di coloro che si trovano in carcere.

Molti sono i modi in cui le famiglie sono danneggiate da una sanzione penale e in particolar modo della carcerazione: dallo stigma e l’esclusione derivanti da questa situazione, al trauma e la sofferenza psicologica risultante dall’assenza di un genitore o di un familiare, ai danni economici risultanti dalla perdita di una fonte di reddito, che, andando a colpire spesso situazioni di svantaggio socio-economico, possono facilmente sfociare in situazioni di povertà. Gli effetti sui familiari di coloro che sono esposti ad una sanzione penale sono, con qualche eccezione, in larga parte ignorati dai teorici della pena.[37]

Ciò è altamente problematico soprattutto in ragione del fatto che ci troviamo davanti a danni significativi inflitti dallo stato a individui, spesso minori, che non sono in alcun modo responsabili del reato commesso. Che cosa debba derivare dal prendere in considerazioni questi effetti della sanzione penale è una questione difficile da affrontare, che non sono nelle condizioni di trattare a fondo in questo articolo, ma alcune considerazioni relative al problema della cura possono essere fatte.

Come detto precedentemente ci sono due facce dell’obbligo dello Stato di garantire e facilitare le relazioni di cura: da una parte, lo Stato deve garantire che coloro che sono soggetti alla sanzione penale ricevano cura, il che include offrire loro cura; dall’altro che si trovino nelle condizioni di fornire cura.

Uno dei modi per realizzare questi obiettivi è favorire relazioni di cura già esistenti, che nel caso dei detenuti vuole dire in primo luogo consentire e facilitare un contatto più frequente e intimo con i propri familiari in spazi e tempi adeguati. Ciò potrebbe fornire essenziale cura e supporto psicologico non solo ai cittadini reclusi, ma anche ai loro familiari, e soprattutto ai bambini che hanno un genitore in carcere.

Se da una parte quello che è necessario garantire sono effettive opportunità a coloro che sono reclusi di dare cura, è anche importante, come sostenuto da alcune teoriche della cura, che lo Stato garantisca un certo livello di supporto sociale per permettere alle persone di prendersi al meglio cura degli altri.

Eva Kittay difende questa posizione quando discute il fatto che coloro che hanno dei significativi obblighi di cura, come le madri nella famiglia nucleare tradizionale o le donne migranti che spesso svolgono la maggior parte del lavoro di cura nei paesi Occidentale, si trovano spesso in situazioni di vulnerabilità e dipendenza, causate anche se non primariamente dai loro obblighi di cura.[38]

Secondo Kittay, a questa categoria di persone debbono essere forniti i mezzi per non trovarsi in situazione di sfruttamento e vulnerabilità quando si curano degli altri, anche in ragione del fatto che ciò permetterebbe loro di svolgere il lavoro di cura il meglio possibile.

Questo ragionamento può essere esteso alla realtà della pena.

In primo luogo, in alcuni casi coloro che subiscono una sanzione penale sono anche coloro che hanno già responsabilità di cura primarie per alcuni membri della propria famiglia.

Questo è certamente il caso di molte donne e madri detenute, ma è anche il caso di alcuni uomini e padri, che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione detenuta.  Possiamo facilmente immaginare come i programmi terapeutici e di cura volti a migliorare la salute e la stabilità psicologica di coloro che sono puniti dallo stato abbiano, se efficaci, abbiano anche l’effetto di rendere questi cittadini più capaci di dare cura.

Questo acquisisce una particolare rilevanza se pensiamo al tasso di persone con disagi psicologici, problemi di salute mentale o di dipendenza che sono soggetti a sanzione penale e soprattutto detenute.[39]

Inoltre, come sostenuto da Brown Coverdale, possiamo presumere che, in ragione del fatto che la capacità di prendersi cura si acquisisce anche imparando dalle relazioni di cura, il fatto che lo Stato si prenda cura dei detenuti abbia il probabile effetto di insegnare loro la cura, rendendoli più attenti e capaci di dare cura.

La possibilità di renderli più attenti e imparare dalle relazioni di cura è ancora più importante nei casi in cui la persona in questione è cresciuta in un contesto di abuso o incuria e quindi non ha mai avuto l’opportunità di imparare la cura di sé e degli altri.[40]

Queste iniziative potrebbero avere risvolti positivi, anche in quei casi in cui la persona reclusa non svolga già un ruolo di cura attivo nel contesto familiare. Il supporto psicologico e l’imparare dalle relazioni di cura potrebbero avere l’effetto di rendere la persona esposta alla sanzione penale più incline ad assumere su di sé maggiori responsabilità di cura.

Questa possibilità fa eco all’idea di alcune teoriche della cura che una società e uno Stato improntato sui principi della cura renda i cittadini più capaci e più pronti a dare cura.[41]

Questo vale soprattutto per gli uomini e i giovani maschi, la cui socializzazione è di rado improntata su queste pratiche. Società in cui la cura gioca un ruolo centrale potrebbero dunque anche essere società dove i ruoli di genere divengono meno cristallizzati, almeno a questo riguardo, e la distribuzione degli obblighi di cura risulta meno iniqua.

Sebbene queste iniziative non siano sufficienti a risolvere le difficoltà delle famiglie di coloro che subiscono una sanzione penale, e soprattutto di coloro che sono in carcere, potrebbero alleviare alcune delle sofferenze psicologiche a cui sono esposte e in particolare permettere ai figli dei detenuti di avere più opportunità di ricevere la cura dei genitori, cosi centrale per il benessere psicologico e lo sviluppo emotivo.

 

3.3 Il ruolo rieducativo della cura

Un’altra ragione per difendere l’idea che il principio della cura sia uno dei criteri guida della relazione tra lo Stato e coloro che subiscono una sanzione penale è da riscontrare nel potenziale riabilitativo che la cura può avere.[42]

Questo appare ovvio se consideriamo che parte della cura che coloro che sono soggetti ad una sanzione penale devono ricevere si compone di programmi terapeutici e di sostegno psicologico, noti per avere effetti positivi sulla possibilità di commettere altri reati.

Inoltre, la possibilità di coltivare relazioni di cura gioca un ruolo fondamentale nella riabilitazione di coloro che subiscono una sanzione penale. Il supporto derivante da relazione solide con gli altri, soprattutto durante la detenzione carceraria, contribuisce alla stabilità psicologico-emotiva e alla capacità di mantenere o sviluppare un’identità positiva, non incentrata sull’atto commesso. Non soltanto il ricevere cura, ma anche il dare cura fornisce le risorse per sviluppare una nuova concezione del sé.

Inoltre l’essere parte di relazioni di cura e di supporto, è vista come una delle principali ragioni per le quali le persone, una volta terminata la pena, non si trovano a compiere nuovamente reati. In molti casi, purtroppo, la pena e soprattutto l’esperienza carceraria hanno invece l’effetto opposto su coloro che la attraversano.

Queste considerazioni derivate dal potenziale rieducativo della cura sono rilevanti se, come molti ritengono, uno degli obiettivi principali del sistema penale è ridurre il numero dei reati commessi. Sebbene il legame tra cura e un basso tasso di recidiva non possa essere assicurato in tutti i casi singoli, la sua probabilità statistica costituisce una ragione sufficiente in favore del principio della cura dal punto di vista dell’interesse collettivo.

Inoltre, a prescindere dai benefici per la collettività, offrire ai cittadini reclusi programmi di rieducazione è un modo per riconoscere la capacità degli individui di riscrivere la propria storia.

In conclusione, è però importante reiterare che sebbene l’introduzione del principio della cura durante la pena spesso abbia conseguenze positive in termini di promozione dell’interesse collettivo, la prima e principale ragione per difendere la sua introduzione nell’universo penale rimane il rispetto per coloro che subiscono una sanzione penale e le loro famiglie e la necessità di andare incontro ai loro bisogni fondamentali.

 

3.4 La speciale responsabilità dello Stato

Un’ultima considerazione da fare in supporto alla tesi che il principio della cura debba ispirare l’azione dello Stato in materia penale riguarda il rapporto tra lo Stato e i cittadini che dallo Stato vengono puniti.

Se il potere dello Stato nei confronti dei cittadini è già considerevole in condizioni ordinarie, si fa necessariamente ancora più significativo nei confronti di coloro che subiscono una sanzione penale. La relazione tra lo Stato ed i suoi rappresentanti e i cittadini puniti è quindi inevitabile, intima e costante.

Una componente centrale di questa relazione è che colui che subisce la pena è in un senso o nell’altro affidato e dipendente dallo Stato. Nel caso del carcere questo appare ovvio, dato che lo Stato è responsabile per l’intera vita del detenuto e la soddisfazione di tutti i bisogni, inclusi i bisogni fisici primari. Negli altri casi questa dipendenza è meno estrema, ma comunque cospicua.

Guardare questo problema dal punto di vista dell’etica della cura può farci comprendere appieno la rilevanza morale di questa dipendenza di coloro che sono soggetti a una sanzione penale.

Una delle idee centrali dell’etica della cura, come discusso nella prima parte di questo articolo, è l’importanza delle nostre responsabilità di cura nei confronti di coloro con i quali ci troviamo in relazione di dipendenza, coloro che sono particolarmente vulnerabili alle nostre azioni e dipendono da noi per soddisfare i loro bisogni.

Promotrici dell’etica della cura sostengono che ci siano dei limiti alle responsabilità che un individuo può avere nei confronti dei soggetti dipendenti, limiti derivanti dall’autonomia e dai bisogni di coloro che debbono fornire la cura.[43] Questi limiti servono a proteggere coloro che la cura la forniscono, soprattutto le donne, da situazioni in cui la cura può diventare fonte di oppressione e sfruttamento.

Ciò nonostante, rimane centrale l’idea che abbiamo una responsabilità speciale nei confronti di coloro che da noi dipendono.

Secondo alcuni, questa deriva dal fatto che coloro da cui gli altri dipendono sono anche coloro che si trovano nella condizione privilegiata per rispondere a questa dipendenza, coloro le cui azioni possono essere più efficaci nell'andare incontro nell’andare incontro a questi bisogni.[44]

Altri affermano che, anche a prescindere dalle conseguenze, il solo fatto di trovarsi in una relazione di dipendenza o di interdipendenza generi obblighi morali.[45]

Entrambe le ragioni forniscono a mio avviso una giustificazione del fatto che l’obbligo di fornire cura e rendere possibile la partecipazione in relazioni di cura a coloro che subiscono una sanzione penale è un dovere che in larghissima misura è nelle mani dello Stato.

È inoltre importante sottolineare come le responsabilità di cura dello Stato nei confronti dei suoi cittadini che subiscono una sanzione penale sia in molti casi resa ancora più cospicua in ragione del fatto che molti di coloro che vengono puniti dallo Stato provengono da situazioni di estremo svantaggio e marginalità economico-sociale.[46]

In molti di questi casi, questa situazione di deprivazione e di esclusione è, quantomeno in parte, il frutto dell’azione o del mancato intervento dello Stato, dell’assenza di politiche di inclusione e di welfare efficaci.

Alcuni teorici sostengono che in questi casi lo Stato non abbia il diritto di punire perché è in parte responsabile di situazioni di estremo svantaggio in cui le persone non hanno valide alternative all’atto criminale.

Altri affermano che il cittadino che commette l’azione criminale in mancanza di alternative valide non possa essere considerato pienamente responsabile di questa.[47]

Dal punto di vista dell’etica della cura, c’è un’altra considerazione da fare sul rapporto tra lo svantaggio socio-economico e la pena: in questi casi, le responsabilità dello Stato di prendersi cura della persona punita sono ancora maggiori in ragione del precedente fallimento dello Stato di adempiere i propri doveri di cura.

 

4. Praticare la cura durante la pena: realtà o utopia?

4.1 È possibile immaginare un sistema penale che si prende cura?

Una possibile reazione alla proposta di incorporare la cura nella pena, soprattutto la pena carceraria, è lo scetticismo riguardo alla possibilità di immaginare e realizzare un carcere che si prende cura.

La realtà del carcere appare spesso così lontana da una realtà di cura che sembra impossibile riformarla in questa direzione.[48]

La relazione tra coloro che sono puniti e lo Stato e i suoi rappresentati è spesso caratterizzata da odio, paura e violenza. Questo non fa che alienare ulteriormente le persone che sono recluse, che spesso già in partenza provengono da realtà di disagio ed esclusione sociale, dallo Stato e dalla comunità politica.

Inoltre, le opportunità di mantenere relazioni di affetto e cura con la famiglia sono spesso inadeguate.

Di conseguenza, invece di coltivare le capacità individuali e in particolare la capacità di cura di sé stessi e gli altri, le carceri, in Italia ma in molti altri Paesi del mondo, tendono a consumare e logorare queste risorse degli individui.[49]

Alcuni interpretano questa violenza e incuria come caratteristiche strutturali del carcere e per questo propongono la sua abolizione.[50] Il carcere, a loro avviso, non è riformabile.

Sebbene molte delle considerazioni sul carattere strutturale della violenza e dell’incuria del carcere siano condivisibili, è importante fare alcune considerazioni sulla possibilità di riforme in linea con il principio della cura.

In primo luogo, in risposta a questo scetticismo è importante sottolineare, come riscontrato da varie fonti, che alcune pratiche di cura sono già presenti nelle realtà carcerarie.[51]

Andare incontro ai bisogni primari dei detenuti è una delle attività che il carcere svolge. Sebbene, le pratiche di cura nelle carceri siano generalmente insufficienti e spesso non incarnino i valori che secondo l’etica della cura dovrebbero esservi centrali[52], l’azione degli agenti carcerari è in alcuni casi ispirata da questo principio e percepita come tale dai detenuti.[53]

In secondo luogo, esistono realtà carcerarie in cui la violenza e l’incuria sono significativamente meno presenti.

L’esempio spesso invocato è quello delle carceri nei Paesi del Nord Europa, dove uno dei principi fondamentali è quello di rendere l’esperienza carceraria più simile possibile alla vita civile.[54] Nelle carceri danesi e norvegesi, esiste un obbligo legale di fornire programmi di educazione e di supporto psicologico e le opportunità di interagire con i propri cari sono molto più adeguate. Questo non elimina il carattere afflittivo della pena, che rimane una privazione di libertà fondamentale, ma sembra avvicinarsi ad un modello di carcere come luogo (anche) di cura.

In terzo luogo sostenere che il principio della cura debba giocare un ruolo importante nel rapporto tra lo Stato e i cittadini che subiscono una sanzione penale non è necessariamente in contraddizione con il progetto abolizionista.

Da una parte, il principio della cura potrebbe contribuire alla realizzazione di un sistema penale più umano e giusto anche al di là dell’istituzione del carcere. Incorporare il principio della cura appare importante se pensiamo ad altre pene, altre misure di sicurezza, come la libertà vigilata,[55] e altri aspetti del sistema penale[56]. Dall’altra parte, come sottolineato da Brown Coverdale, anche se l’obiettivo ultimo è l’abolizione del carcere, dato che questo processo sarebbe graduale e probabilmente impossibile da realizzare nel breve-medio periodo, il principio della cura potrebbe fornire utili linee guida per costruire nel periodo di transizioni carceri più attente ai bisogni individuali.[57]

Infine, il principio della cura potrebbe anche offrire degli spunti per immaginare alternative alla pena carceraria.

 

4.2 Carcere e cura: alcune proposte pratiche

Sebbene abbia già fornito alcune indicazioni a riguardo nella sezione precedenti, è importante trattare più sistematicamente il problema di come si possa praticamente incorporare il principio della cura nella pena. In questa sezione, mi concentrerò sul carcere, in ragione della sua rilevanza particolare per il problema qui trattato.

Per realizzare la cura in carcere è, in primo luogo, necessario che lo Stato si impegni del soddisfare adeguatamente i bisogni primari dei detenuti, un obiettivo che, seppur piuttosto minimo, spesso non viene raggiunto da carceri sovraffollate e con servizi insufficienti.

Inoltre, come già menzionato più volte, parte della cura dello Stato è fornire programmi di supporto, inclusi programmi terapeutici per problemi di salute mentale e di dipendenza, volti a sviluppare le capacità di prendersi cura di sé e degli altri.

Nel perseguire questi scopi, un aspetto dell’etica della cura che deve essere incarnato nell’azione dello Stato è l’idea che la cura debba essere disegnata sui bisogni e le caratteristiche particolari del singolo. L’ascolto e il coinvolgimento del detenuto nell’immaginare come organizzare questa cura sono quindi fondamentale, e contribuiscono ad evitare il rischio del che la cura dello Stato sia caratterizzata da un tasso eccessivo di paternalismo. Immaginare una pena, e all’interno della pena una cura, più individualizzata appare dunque centrale.

Per assicurarsi che il detenuto sia destinatario di cura è inoltre centrale fare in modo che sia in grado di avere costanti e significativi rapporti con i propri familiari.

Assicurare questa possibilità non richiede solo un aumento del numero di visite e di occasioni di contatto con i familiari, ma anche immaginare tempi e luoghi dove questo rapporto di cura possa effettivamente avere luogo, prendendo, per esempio, a modello le prigioni scandinave. D’altra parte, come discusso precedentemente, è fondamentale per lo Stato assicurarsi che i detenuti siano messi nelle condizioni di dare cura. Il dare cuora ha luogo nelle relazioni con i familiari, ma può anche avvenire nel contesto delle relazioni tra detenuti.

La creazione di programmi di supporto tra pari, esistenti in alcuni istituti, è significativa in quando questi possono svolgere un ruolo importante nel fare in modo che i detenuti ricevano e allo stesso tempo forniscano cura.

Inoltre, tali programmi possono contribuire a rendere i rapporti all’interno del carcere, non solo con gli agenti di polizia, ma anche tra i detenuti, relazioni ispirati dal principio della cura, fornendo ai detenuti ulteriori possibilità di sviluppare la propria capacità di cura di sé e degli altri.

Alcune di queste proposte di riforma sono state più volte avanzate in passato da attivisti e teorici della pena. Inoltre, vari documenti giuridici, a partire dalla nostra Costituzione, difendono principi, come l’esistenza i diritti inviolabili della persona (articolo 2) o il carattere rieducativo della pena (articolo 27), che possono facilmente essere invocati per difendere alcune di queste proposte di riforma.  

Ciò nonostante, mentre altri principi, come quello del rispetto della dignità degli individui, sono spesso invocati dai teorici della pena e nei documenti giuridici, il principio della cura è raramente menzionato.

A mio avviso, ci sono svariati vantaggi nel concepire queste riforme come espressione dell’obbligo di cura dello Stato nei confronti di coloro che subiscono una sanzione penale.

In primo luogo, il principio della cura ci permette di giustificare diversi tipi di riforme come espressione dello stesso principio, senza invocare concetti suggestivi, ma piuttosto indefiniti, come quello della dignità individuale, ma fornendo una spiegazione chiara del perché la cura è un bisogno fondamentale degli individui in virtù della nostra natura di essere dipendenti e relazionali. Inoltre, il principio della cura non giustifica queste proposte solo in ragione dei benefici che esse portano alla collettività, in ragione della loro funzione rieducativa, come spesso fatto da teorie rieducative della pena. Al contrario, se, in linea con l’etica della cura, pensiamo l’essere parte di relazioni di cura come un bisogno fondamentale degli individui, possiamo interpretare queste riforme come espressione del rispetto che lo Stato deve mostrare nei confronti dei propri cittadini.

In secondo luogo, questo principio ci permette di apprezzare l’importanza non solo del bisogno di ricevere cura, data la nostra natura di individui dipendenti, ma anche del nostro bisogno di dare cura. Questo secondo aspetto è largamente ignorato da vari approcci tradizionali che si concentrano sui diritti dei cittadini detenuti a determinati tipi di beni e servizi, invece che soffermarsi sul bisogno di ognuno di noi di contribuire alla comunità e vedere il proprio contributo riconosciuto. Riflettere sul nostro bisogno di dare cura è fondamentale per cogliere appieno la nostra natura di animali sociali e relazionali. Così facendo, diviene inoltre possibile soffermarci sui bisogni delle famiglie di coloro che subiscono una sanzione penale, e in particolare dei figli di ricevere cura dai genitori detenuti.

Infine, cogliere appieno la nostra natura di individui dipendenti e vulnerabili, così centrale nell’etica della cura, ci fa comprendere il nostro bisogno di far parte di relazioni di cura per acquisire e mantenere molte delle nostre capacità, inclusa la capacità di prendersi cura di sé e degli altri.

 

5. Conclusione

In questo articolo, mi sono proposta di articolare e sostenere la tesi secondo la quale il principio della cura debba essere uno dei principi guida dell’azione dello Stato nei confronti di coloro che subiscono una sanzione penale.

In primo luogo, ho descritto le caratteristiche principali dell’etica della cura e fornito una giustificazione dell’idea che, in ragione della nostra natura di essere dipendenti e relazionali, la cura debba giocare un ruolo fondamentale nella sfera politica e figurare tra i doveri fondamentali dello Stato nei confronti dei propri cittadini.

Esaminando poi la relazione tra lo stato e i cittadini che subiscono una sanzione penale, ho difeso l’idea che dato il suo carattere fondamentale è essenziale che lo Stato garantisca a tutti i cittadini, inclusi coloro che sono stati giudicati colpevoli di un reato penale, l’opportunità di essere parte di relazioni di cura. Ho sostenuto che questo preveda, da una parte, che lo Stato fornisca direttamente cura a coloro che subiscono una sanzione penale, considerato anche il fatto che questi si trovano in una condizione di particolare dipendenza nei suoi confronti.

La cura dello Stato consiste nel soddisfare i bisogni primari delle persone e nel fornire programmi terapeutici, di supporto e di inclusione.  

D’altra parte, ho difeso la tesi che lo stato debba fornire le opportunità e il supporto per permettere a coloro che subiscono una sanzione penale di essere parte di altre relazioni di cura. Nel caso della pena carceraria, lo Stato deve rendere possibile e favorire la relazione con i familiari e quando possibile incentivare altre relazioni di cura, come quelle tra i detenuti. Sebbene la ragione principale per sostenere queste iniziative sia a mio avviso il rispetto per le persone e i loro bisogni, politiche e iniziative ispirate dal principio della cura hanno anche il vantaggio di permettere i familiari dei detenuti, i cui interessi e bisogni sono molto spesso ignorati dai teorici della pena, di mantenere una relazione di cura con la persona reclusa. Infine, questo tipo di iniziative ispirate dal principio della cura spesso hanno anche una funzione rieducativa.

In ragione delle molteplici considerazioni avanzate in questo lavoro, ritengo che il principio della cura debba giocare un ruolo centrale nel nostro (ri)pensare l’universo della pena.

 

[1] Carol, G., In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development, Cambridge, 2003.

[2] Held, V., The Ethics of Care: Personal, Political, and Global, Oxford, New York, 2006; Kittay, E. F., Love’s Labor: Essays on Women, Equality, and Dependency, New York, 1999.

[3] Tronto, J. C., Moral Boundaries: A Political Argument for an Ethic of Care, New York, 1993.

[4] Brown Coverdale, H., Punishment and Welfare: Defending Offender’s Inclusion as Subjects of State Care, in Ethics and Social Welfare 12, no. 2 , 2018; Gelfand, S. D., The Ethics of Care and (Capital?) Punishment, in Law and Philosophy 23, no. 6, 2004; Canton, R., and Dominey, J., Punishment and Care Reappraised, in Gelsthorpe, L., Mody, P.  and Sloan B., (a cura di), Spaces of Care, London, 2020.

[5] Brown Coverdale, H., Caring and the Prison in Philosophy, Policy and Practice: Under Lock and Key, in Journal of Applied Philosophy, 2020; Canton, R., and Dominey, J., op. cit.

[6] Gilligan, C., op. cit.

[7] Gilligan, C., op. cit.; Noddings, N., Caring: A Feminine Approach to Ethics & Moral Education, Berkeley, 2003.

[8] Held, V., op. cit., cap. 1; Kittay, E. F., op. cit.

[9] Fineman, M., The Vulnerable Subject: Anchoring Equality in the Human Condition, in Yale Journal of Law & Feminism, 2008.

[10] Brownlee, K., I—The Lonely Heart Breaks: On the Right to Be a Social Contributor, in Aristotelian Society Supplementary Volume 90, no. 1, 2016.

[11] Taylor, C., The Dialogical Self, in Rethinking Knowledge: Reflection Across the Disciplines, Goodman, R. F., (a cura di), New York, 1995.

[12] Held, V., op. cit., cap. 1.

[13] Held, V., op. cit., cap. 1-2-4–5.

[14] Held, V., op. cit., cap. 2.

[15] Tronto, J. C., op. cit., cap 4–5.

[16] Held, V., op. cit., cap. 3.

[17] L’utilizzo del termine lavoro qui non è volto a suggerire che il lavoro di cura sia necessariamente da concepire in linea con il lavoro in senso proprio, nel senso di professione, impiego pagato, né che richieda una compensazione, sebbene alcune teoriche femministe abbiano avanzato questa proposta.

[18] Held, V., op. cit., cap. 3.

[19] Tronto, J. C., op. cit., cap. 5.

[20] Okin, S. M., Justice, Gender, and the Family, New York, 1998.

[21] Noddings, N., op. cit.

[22] Kittay, E. F., op. cit.

[23] Noddings, N., op. cit.

[24] Held, V., op. cit., cap. 6.

[25] Held, V., op. cit., cap. 4.

[26] Fineman, M., op. cit.

[27] Mackenzie, C., The Importance of Relational Autonomy and Capabilities for an Ethics of Vulnerability, in Vulnerability: New Essays in Ethics and Feminist Philosophy, Mackenzie, C., Rogers W., and Dodds, S., (a cura di), New York, 2014.

[28] Tronto, J. C., op. cit.

[29] Nussbaum, M., Frontiers of Justice: Disability, Nationality, Species Membership in Cambridge, Massachusetts; London, 2007.

[30] Brownlee, K., op. cit.

[31] Held, V., op. cit., cap. 4.

[32] Held, V., op. cit., cap. 4.

[33] L’esempio classico di questo approccio si trova negli scritti di Bentham. Bentham, J., An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, 1789.

[34] L’esempio classico di questo approccio è la posizione di Hegel. Hegel, G. W. F., Scritti Di Filosofia Del Diritto, Bari, 1961.

[35] Gelfand, S. D., op. cit.

[36] Brown Coverdale, H., Punishment and Welfare, op. cit.

[37] Per una trattazione di questo problema si veda Bülow, W.,The Harms Beyond Imprisonment: Do We Have Special Moral Obligations Towards the Families and Children of Prisoners?, in Ethical Theory and Moral Practice 17, 2014; Manning, R., Punishing the Innocent: Children of Incarcerated and Detained Parents, in Criminal Justice Ethics 30, no. 3, p. 201.

[38] Kittay, E. F., op. cit.

[39] Al 31 dicembre 2017 i detenuti tossicodipendenti erano 14.706 su una popolazione ristretta complessiva di 57.608, rappresentando il 25,53% del totale. Fonte: XV rapporto sulle condizioni di detenzione, Associazione Antigone (http://www.antigone.it/quindicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/droghe-e-dipendenze/). L’incidenza del disagio psicologico e dei disturbi psichiatrici è similmente molto elevata nelle carceri.

[40] Brown Coverdale, H., Punishment and Welfare, op. cit.

[41] Tronto, J. C., Care as the Work of Citizens, in Women and Citizenship, Friedman, M., Oxford, 2005.

[42] Brown Coverdale, H., Punishment and Welfare, op. cit.; Canton R. and Dominey J., op. cit.

[43] Kittay, E, F., op. cit.

[44] Goodin, R. E., Protecting the Vulnerable: A Reanalysis of Our Social Responsibilities, Chicago, 1985.

[45] Held, V., op. cit; Tronto, J. C., Moral Boundaries, op. cit.

[46] Per un’analisi del caso italiano si veda il XVI rapporto dell’Associazione Antigone sulle condizioni detentive, parte 1. https://www.antigone.it/news/antigone-news/3301-xvirapporto

[47] Per entrambi le tesi si veda Duff, R. A., Answering for Crime: Responsibility and Liability in the Criminal Law, Oxford, 2009; Duff, R. A., Blame, Moral Standing and the Legitmacy of the Criminal Trial, Ratio 23, no. 2, 2010.

[48] Per un’analisi della condizione di estrema difficoltà in cui versano le carceri in Italia, che sono ulteriormente peggiorate durante l’emergenza sanitaria causata da Covid-19, si veda veda il XVI rapporto dell’Associazione Antigone sulle condizioni detentive, parte 1. https://www.antigone.it/news/antigone-news/3301-xvirapporto.

[49] Carlen, P., Against Rehabilitation; for Reparative Justice, in Carrington, K., (a cura di), Crime, Justice and Social Democracy International Perspectives, Basingstoke, 2012.

[50] Tra le molte proposte per l’abolizione del carcere si veda Davis, A., Are Prisons Obsolete?, New York, 2011 e per una presentazione del dibattito tra riforma e abolizione Lippke, R. L., Rethinking Imprisonment, Oxford; New York, 2007, cap. 11; Per una proposta in ambito italiano si veda Manconi, L., (a cura di), Abolire Il Carcere, Milano, 2015.

[51] Canton, R., Dominey, J., op. cit; Brown Coverdale, H., Punishment and Welfare, op. cit.; Brown Coverdale, H, Caring and the Prison in Philosophy, Policy and Practice, op. cit.

[52] Canton, R., Dominey, J., op. cit.

[53] Brown Coverdale, Caring and the Prison in Philosophy, Policy and Practice, op. cit.

[54] Brown Coverdale, Caring and the Prison in Philosophy, Policy and Practice, op. cit.

[55] Canton, R., Dominey, J., op. cit.

[56] Per esempio, Canton and Dominey sostengono che l’adozione del principio della cura nel sistema penale ci fornisce ragioni per dare più spazio a pratiche di giustizia riparativa. Canton, R., Dominey, J., op. cit.

[57] Brown Coverdale, Caring and the Prison in Philosophy, Policy and Practice, op. cit.

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