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Fine pena mai

Inelegante ultima misura per giustiziare una giustizia malata
Ballerine, Edgar Degas (1884-1885), museo d'Orsay, Parigi
Ballerine, Edgar Degas (1884-1885), museo d'Orsay, Parigi

Il mio intervento riflette il pensiero e la visione di un normale giurista, peraltro lontano anni luce dal mondo giuspenalistico, ma convinto assertore della necessità che si debba, sempre ed in ogni caso, da parte del Parlamento, legiferare in pefetta assonanza e coerenza con le regole proprie dello Stato di diritto ed in controtendenza con il pensiero unico di gente senza patria che sta avvilendo la libertà di espressione propria del mondo giuridico immiserendo e destabilizzando il ruolo dello stesso che non si presenta più quale ambito privilegiato del confronto delle idee, bensì espressione di tendenze intellettuali non certo felici, nonché di poche, distorcenti e confuse idee di parte guidate da metagiuridici interessi frutto avvelenato di tempi non proprio specchiati, sia sotto il profilo tecnico che della moralità di costumi, cui è sottesa una cultura priva di paradigmi di riferimento e per ciò stesso sempre di più  abborracciata ed insufficiente.

In un sistema in verità avviluppato nelle maglie della pletoricità e della farraginosità di una legislazione che genera ex se il problema, peraltro obiettivamente annoso, di ingolfare una giurisdizione, quella penale, ormai al collasso, l’introduzione della certamente non sufficientemente riflessa riforma c.d. Bonafede della prescrizione non fa altro che produrre una ulteriore e purulenta piaga nel già martoriato ed immunodepresso tessuto connettivo del sistema penale italiano, viepiù che l’intervento normativo de quo prescinde, ictu oculi, da quelle tre esigenze paradigmatiche che costituiscono il cuore e la ratio dell’istituto.

La prima è quella di razionalizzare in termini di efficienza l’uso delle risorse, essendo del tutto evidente che un processo infinito costa al cittadino italiano contribuente un onere sensibilmente più rilevante del danno arrecato dal reato.

La seconda, il reale disinteresse dello Stato alla punizione trascorso un certo periodo di tempo viepiù che a distanza di molti anni spesso è comunque cambiata la personalità del presunto colpevole con la conseguenza che la pena stessa rischia di non  assolvere in alcun modo e misura alla funzione rieducatrice postulata dalla Carta costituzionale (articoli 4 e 13).

Infine la terza, ma non meno rilevante, che con l’abolizione dell’istituto in parola viene meno sino scomparire l’imprescindibile principio di libertà e di garanzia che non consente all’imputato di essere sottoposto in aeternum ad indagine giudiziaria, viepiù in un complesso strutturale tenacemente incentrato sulla obbligatorietà dell’azione penale rispetto al quale la prescrizione funge da concreto strumento di contrappeso in quanto momento effettivo di selezione dei processi che devono proseguire, il solo ed unico bastione all’insopportabile dipanarsi nel tempo dei processi, ampiamente redarguita e sanzionata in sede sovranazionale.

Bisogna, infatti, rifuggire dall’idea oggi tristemente predominante secondo la quale le ingiustizie sociali possono trovare soluzione solo ed esclusivamente nel perimetro di interesse proprio del diritto penale e che il processo non sia più fecondo terreno di ricerca di cause e di responsabilità, bensì momento e luogo di distribuzione di pene esemplari, perché ciò è pura follia.

In un contesto, quello della giustizia italiana, in cui a ben riflettere il vero punto dolens è rappresentato dal non intelligente panpenalismo che continua, indefesso a permeare di sé l’attuale purtroppo non felice, non equilibrato e fortemente ideologizzato momento sociale che non può di certo essere ricomposto mediante l’abborracciato ed altrettanto ideologizzato tentativo di risoluzione del problema prospettato dal progetto Bonafede; tentativo che, in verità, non fa che delineare surrettiziamente interventi assolutamente asistematici per giungere ad una ipotesi di processo penale in cui le garanzie del cittadino vengono considerate quasi una sine cura, una sostanziale perdita di tempo visto e considerato che la normativa in esame allontana e disperde la fisiologica finalità dell’obiettivo del raggiungimento del necessario punto di equilibrio tra la riforma medesima e la giusta durata dei processi, viepiù considerato che giammai, in ogni caso, la tutela di tutti i diritti, sia quelli dell’imputato che quelli delle parti offese, si realizza abolendo il grado di appello, ovvero sostenendo il propagandistico mantra della eliminazione del principio del divieto di reformatio in peius.

La filosofia di fondo che, invece, deve presiedere alla determinazione di una vera svolta in subiecta materia risiede nella necessità ormai non più procrastinabile della prefigurazione di una società più libera e più sicura nella quale si determini un corretto riequilibrio tra i principi di offensività, pericolosità sociale e l’esigenza della punizione.

Elementi processuali propedeutici al raggiungimento di tale finalità sono l’eliminazione della norma costituzionale (articolo 112) che prevede l’obbligo, per il P.M. dell’esercizio dell’azione penale e la espunzione normativa della figura del giudice delle indagini preliminari (che oggi appare come “Caron dimonio con occhi di bragia …”, nocchiero di alighierana memoria, atteso che lo stesso, il più delle volte, non fa altro che mandare a dibattimento fatti di incerto o non dimostrabile rilievo penale e per di più senza lo stigma del necessario vaglio delle possibili alternative probatorie di segno favorevole all’accusato) in uno con il trasferimento sia sul piano amministrativo che civile (risarcimento del danno privato) di quelle che oggi sono considerate molteplici ipotesi di reato (depenalizzazione) perché, come è di tutta evidenza, la declinazione normativa di un numero minore di reati farebbe indiscutibilmente diminuire la cifra quantitativa dei processi.

Posto dunque che il vero problema della Giustizia e il suo obiettivamente non rigoglioso stato di  salute – stanti i numerosi problemi che ne affliggono il corpo – appare riduttivo, come, invece, fa il Ministro della Giustizia in uno con il Governo nel suo complesso, appuntare demagogicamente, quasi che fosse un fatto dirimente in assoluto, l’attenzione sull’istituto della prescrizione, senza rendersi conto che è l’intero asset della Giustizia ad essere irreversibilmente affetto da patologie esiziali.

Anzi, quello che il dr. Nordio – di recente in una intervista ad Italia Oggi – ha, a più riprese e con assoluta ragione, definito una “mostruosità istituzionale”, forse, tutto sommato – anche se probabilmente ciò non è mai stato nelle corde e nelle intenzioni di chi l’istituto nella attuale formulazione ha irrazionalmente proposto – ha avuto ed ha non soltanto il merito di mettere in risalto l’assurdità della proposta della eliminazione della prescrizione, ma è anche stata l’occasione concreta di fare emergere in tutta la loro gravità i c.d. problemi altri che affliggono l’esangue corpo della Giustizia italiana nel suo complesso, ormai tragicamente avviato a dissolversi  per marasma.

È stato, infatti, lo stesso primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione ad evidenziare l’evidente paradosso che l’eliminazione (blocco) della prescrizione così come proposta comporterebbe la determinazione di un significativo incremento del carico penale (che egli  ha stimato intorno al 50%), sicché, per evitare tale sciagura, egli ritiene auspicabile proporre di studiare “le più opportune soluzioni” per scongiurare il derivante denunciato incremento.

In buona sostanza le parole del primo Presidente suggeriscono – e ciò è un paradosso – di sollecitare una ulteriore normazione che funga da rimedio ai danni cagionati dalla eliminazione della prescrizione viepiù in assenza di auspicabili e più che necessarie misure atte a rendere più snello, rapido ed efficiente il processo penale, atteso che è il processo penale, nel suo complesso, a costituire il reale problema e non già l’eliminazione  dell’istituto della prescrizione vagheggiato dal ministro Bonafede.

Non è inutile ricordare che anche il PG della Suprema Corte si è posto e si pone nella medesima ottica del succitato primo Presidente allorquando ha sostenuto la necessità di intervenire (cosa che la  legge c.d. Bonafede non fa) “non soltanto nella parte del processo successiva al primo grado (situazione del tutto strumentalmente mitigata dalla bizzarra posticipazione dello stop in caso di doppia condanna ovvero di assoluzione in secondo grado,  attraverso gli altrettanto incostituzionali distinguo postulati del c.d. lodo Conte-bis), ora non più coperta dalla prescrizione”, ma soprattutto laddove si determinano le più imponenti criticità, ossia nella fase delle indagini e della udienza preliminare, perché è lì che in massima parte si concretizza lo sciupio del tempo che porta alla prescrizione (addirittura nel 70% dei casi) senza, peraltro, sottacere l’evidenza del fatto che la responsabilità di tale drammatica evenienza è talvolta da addebitare in putroppo non isolati casi, proprio alla non commendevole inerzia dei magistrati i quali, però, in talune loro componenti, presumono e pretendono di non potere giammai essere evocati come compartecipi dell’attuale stato comatoso del sistema giustizia, riluttanti come sono ad accettare confronto alcuno su una realtà obiettivamente inequivocabile e sulla quale non è più possibile, nell’interesse di tutti, menare il can per l’aia.

È in tale non esaltante tessuto connettivo che si innestano le gravi, ancorché corrette prese di posizione degli odierni vertici della magistratura requirente e giudicante, giustamente interessati ad evitare il definitivo tracollo del sistema giustizia italiano ad opera di una infantile e dilettantesca riforma quale quella della sostanziale eliminazione della prescrizione di cui oggi si discute e che, se non adeguatamente contrastata, contribuirà ad intonare il forse definitivo de profundis su quella che il Cepej etichetta come la maglia nera della giustizia europea.

Bisogna dare rilievo ed avere grande rispetto per le coraggiose denunce tanto del PG che del primo Presidente della Cassazione, che finalmente hanno posto in rilievo e portato all’attenzione di tutto il mondo giuridico e no, due dati paradigmatici: il primo è che il sistema giustizia in Italia è irrimediabilmente compromesso ed il secondo è che la riforma della prescrizione non fa altro che aggravare lo stato comatoso del sistema medesimo.

A questo va ulteriormente aggiunto che il PG di Milano, in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario, ha bollato, addirittura davanti al Presidente della Consulta, come del tutto incostituzionale la riforma “Bonafede” perché confligge, in termini di tutta evidenza, con  l’articolo 111 della Carta, sicché il quadro che ne viene fuori non lascia adito a dubbio alcuno sulla inconsistenza funzionale della riforma medesima.

In buona sostanza i vertici della magistratura hanno senza possibilità di equivoci o di ermeneusi di segno contrario, a chiare note, evidenziato che il processo non può essere considerato come campo di agone in cui alla corretta e tradizionale dicotomia colpevole o innocente, si sostituisce l’equazione binomica puro ed impuro, frutto di rozzo moralismo, bensì esso deve essere ed apparire niente altro che uno strumento di garanzia.

E che comunque i problemi della giustizia non possono e non debbono essere individuati nella sospensione della prescrizione che anzi, così come impropriamente delineata, si pone quale virulenta circostanza e patologica aggravante per un sistema ormai macilento e di per sé del tutto iniquo, visto e considerato, fra l’altro, il non insignificante dettaglio che non consente di far rispondere dei propri errori – al pari di ogni altra categoria – i magistrati che sbagliano.

Le evidenze sulle quali occorre senza indugio intervenire e non cincischiare come sinora si è fatto, sono:

quella di porre finalmente fine, con norma costituzionale, al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, al correntismo togato che spesso non premia i migliori nelle nomine per gli incarichi direttivi,

di rendere effettiva la parità giuridica tra accusa e difesa e di garantire l’effettiva terzietà dell’organo giudicante,

di ricomporre il quadro investigativo non limitandolo alle sole intercettazioni come di fatto sta avvenendo,

di generare un concreto, e non già di maniera, controllo sulla produttività degli Uffici giudiziari e dei singoli magistrati,

di limitare, infine, allo stretto necessario il ricorso alla carcerazione preventiva di guisa che quest’ultima non costituisca come allo stato la regola, bensì l’extrema ratio, affinché il numero di innocenti in attesa di giudizio o dopo il primo giudizio di merito si riduca in limiti fisiologici.

Affrontare e risolvere positivamente questi non secondari oggetti significa avere l’opportunità di modulare un sistema giustizia in maniera effettivamente organica e strutturale e non soltanto ripiegare sempre e soltanto sui soliti stereotipi rappresentati dalla carenza degli organici e del personale di cancelleria perché se tale insufficienza è pur vera non è certo quest’ultima la vera ed unica causa della crisi della giustizia del paese Italia. 

Occorre quindi abbandonare il demenziale conformismo del pensiero politicamente corretto purtroppo ormai radicato, di una concezione del processo penale come strumento di vendetta e dell’altrettanto assurdo convincimento che il diritto (la norma) si plasmi soltanto nel processo come in buona sostanza oggi si fa e fanno i sostenitori di Bonafede e della sua incredibile proposta di eliminazione, ovvero di blocco della prescrizione.

È necessario recuperare, perché nei paesi civili non comandano i giudici, il liberalismo penale restituendo centralità alla c.d. riserva di legge il cui ruolo di garanzia è in re ipsa nonché a ripudiare il fondamentalismo punitivo che rende indifferente il limite tra illecito penale e giudizio morale. In terzo luogo, seguendo l’indicazione del Prof. Giunta, rifuggire “da ogni forma di surrettizia responsabilità penale oggettiva che annacqui il requisito del dolo e della colpa individuale” [Giunta F. “Ghiribizzi penalistici per colpevoli”, ETS 2019].

In buona sostanza bisogna accantonare il metodo stesso con cui Bonafede o chi per esso si è approcciato alla riforma e che è profondamente sbagliato tant’è che si giunge all’assurdo di  indicare un identico step temporale per reati e processi assolutamente diversi. Per non sottacere, poi, l’obiettiva evidenza che non è lecito parlare di prescrizione omettendo di considerare tutto il resto, così come non è ammissibile la confusione che è stata fatta tra prescrizione e ragionevole durata dei processi. Ragionevole durata dei processi contemplata tanto dalla Carta che sancita dalla CEDU.

La norma Bonafede al contrario, peraltro senza alcun logico perché, propone nei confronti del cittadino indagato o imputato – che, fra l’altro ha, comunque, il sacrosanto diritto di essere difeso – l’aberrante condizione di un processo infinito che sottrae allo stesso anche il diritto all’uso del tempo della sua vita in palese violazione di consacrati ed ineludibili diritti costituzionali, con l’aggravante, in barba persino a meri principi di buon senso, che è lo stesso diritto (ordinamento) a non aver significato se non all’interno di una definita e definibile dimensione temporale.

Il progetto di riforma, infatti, non esprime in corpore alcuna coerenza ed è improntato – come peraltro evidenzia l’UCPI – ad un surreale efficientismo, teso astrattamente a giungere, in tempi – fra l’altro si fa per dire – celeri, alla decisione di primo grado senza le garanzie proprie di un giusto processo.

L’assurdità di tale costrutto resta dimostrata dal fatto che, con la cancellazione dell’istituto della prescrizione, un soggetto possa venire in primo grado condannato, ancorché innocente, ma che a causa della sua premorienza rispetto ad una possibile assoluzione successiva, resterà, comunque, marchiato, anche dopo morto, con l’infame appellativo di colpevole.                                      

Sospendere, infatti, l’arco temporale di accertamento del reato paradigmando lo stesso al tempo necessario che occorrerà per accertarlo e che può, come sopra ricordato, protrarsi sino alla morte dell’imputato si connota come frutto avvelenato di ideologia forcaiola a cui si aggiunge additivamente l’evidente ignoranza tecnica di chi tale assurdo pretende di generare.

La riforma Bonafede, infatti, sull’aberrante presupposto che sia da considerare fisiologica la possibilità della sussistenza di casi di innocenti in galera, non si perita di fare alcuna riflessione  sull’eventualità dell’errore giudiziario a cui è civile e doveroso non solo pensare ma anche prevedere di porre rimedio all’evenienza del suo accadimento, considerato che il rozzo principio del fine processo mai, oltre che violare il principio costituzionale della presunzione di innocenza, non è di certo segno di civiltà giuridica e sociale, perché lo Stato non può mai, in alcun caso, abusare della vita dei consociati senza un più che fondato motivo.

Bisogna perciò dare ragione al Dr. Nordio quando definisce questa riforma sulla prescrizione “un mostro incostituzionale”. Una macroscopica aberrazione non soltanto di stampo giuridico ma a ben riflettere anche di natura etica in considerazione dell’obiettiva evidenza che la medesima dispone – senza dar vita ad alcuna preventiva adozione di modifiche radicali (depenalizzazione, riti alternativi, semplificazione delle procedure, disposizione di termini stringenti per il compimento delle indagini preliminari e per celebrare le udienze dinnanzi ai giudici in uno con la previsione, in caso di violazione, di concrete sanzioni disciplinari e processuali) al processo penale nonché all’altrettanto necessaria preventiva introduzione del principio di responsabilità civile dei magistrati – il blocco della prescrizione dopo la sentenza di condanna o di assoluzione in primo grado e di conseguenza la prescrizione del reato tanto in appello che in cassazione.

Con riferimento al profilo giuridico non v’è chi non colga come vengano palesemente violati gli ineludibili ed insopprimibili principi posti a fondamento dello Stato di diritto quali

la ragionevole durata dei processi (articolo 111 della Costituzione e articolo 6 della CEDU);

la presunzione di innocenza del cittadino fino a sentenza passata in giudicato (articolo 27 della Costituzione);

il diritto di difesa (articoli 24 e 111 della Costituzione);

la non logicità della violazione del principio di eguaglianza (articolo 3 della Costituzione) visto e considerato che non è neppure lontanamente prospettabile l’assurda previsione di avere un imputato un po’ più colpevole di un altro sol perché nei suoi confronti è intervenuta una sentenza di condanna in primo grado.

Sospendere la prescrizione, inoltre, dimostra non soltanto che lo Stato non è in condizione di abbreviare i processi, ma addirittura, ipotizza una surrettizia ed irrazionale dilatazione degli stessi nel tempo, con il risultato aberrante di riversare la propria inescusabile inefficienza sull’individuo modificando la sua condizione da prescritto a soggetto considerato fuori dalla normalità del consesso sociale.

Con l’improntitudine propria di chi non ha una eccellente dimestichezza con il diritto si scaricano sull’individuo, che già soggiace alla indicibile sofferenza del processo – che si ribadisce è, per la Costituzione, nello stato di presunto innocente, sino sentenza passata in giudicato – tutte le patologie proprie del sistema del giudizio e più volte sopra evidenziate.

Nel computo della patologica disfunzione del processo vanno altresì richiamati i tempi non dipendenti dal cittadino e precisamente quelli relativi alla prassi ormai consolidata dei rinvii ad opera delle Procure o dei Tribunali, le assenze del giudice o del PM sempre ritenute fisiologiche e mai commendevoli, gli errori nella citazione dei testimoni, quelli del cattivo funzionamento degli impianti di registrazione ed altri ancora.

Il fine processo mai, e questa non è riflessione di poco momento, investe anche un sostanziale profilo etico atteso che lo stesso non considera l’obiettiva evidenza che il tempo è indiscutibilmente un bene, fra i più preziosi se non il  più rilevante per la persona umana.

Esso bene, come si dice in filosofia, costituisce una esperienza emotiva di particolare rilievo specie con riguardo al momento decisorio (sentenza) che tanto è più lontano il suo sostanziarsi nel tempo, senza che l’individuo imputato possa obiettivamente opporre alcunché, tanto più l’individuo stesso diventa vulnerabile e fragile perché in attesa di quel fatidico momento al medesimo soggetto è negata ogni possibilità di fare scelte di vita con evidente irreparabile pregiudizio di un proprio diritto fondamentale irreparabilmente leso dal fine pena mai.

Va ancora inoltre soggiunto che il potere punitivo non è altro che un fenomeno normativo che come tale deve essere correlato ad una misura determinata nel tempo e non già ad una misura indeterminata come surrettiziamente si vuol far credere paradigmata all’intero arco di vita dell’imputato.

E, poi – stante l’indefettibile presupposto che le vittime hanno il diritto non soltanto di essere  tempestivamente e congruamente risarcite sul piano civile, ma anche, e lo sancisce la CEDU, il diritto di vedere punito il loro incauto giustizieresarà mai possibile delineare e definire gli effetti prodotti su un individuo durante l’attesa della sentenza di un giudice? E se ciò fosse in qualche modo possibile, come proporre, quantificare e misurare una ipotesi di risarcibilità del danno e, di grazia, sotto quale profilo (biologico, familiare, professionale, economico e sociale) qualificarlo?

Sono tutti questi elementi da considerare e non da glissare nell’ambito di un sistema fisiologicamente correlato alla temporalità perché non appare revocabile in dubbio che un intervento giustiziale a tempo scaduto equivale, pleno titulo, a giustizia denegata.

La stessa Avvocatura – al contrario di quanto sostiene una non elegante vulgata – per bocca del Presidente delle Camere Penali, ha, a più riprese, ricordato come la stessa si sostanzi quale irrinunciabile presidio non soltanto a difesa degli imputati, ma anche delle vittime e delle parti offese, e come la prescrizione costituisca il frutto ponderato del migliore pensiero giuridico, a far tempo da Beccaria, che pone concreto rimedio alla patologia intollerabilmente autoritaria di far rimanere – un cittadino presunto innocente sino a sentenza passata in giudicato – imputato a vita.

La giustizia, infatti,  deve, in ogni circostanza, porre un serio fronte di garanzie, che non sono da considerarsi mere ubbie degli avvocati, bensì qualificate espressioni di scienza e civiltà proprie dello Stato di diritto, e per l’effetto presentarsi con il volto umano delineato dalla Costituzione e in condizione di bilanciare le esigenze di tutti, in considerazione, altresì, del fatto che non bisogna mai dimenticare che, comunque, i processi troppo lunghi rappresentano un’anticipazione della pena anche se l’imputato non si trova in carcere.

E se è vero che l’accertamento della verità spetta al giudice, è altrettanto vero che lo stesso tale finalità deve poterla perseguire con gli strumenti di legge e con i limiti propri dell’ordinamento giuridico.

In ragione di ciò la prescrizione non può mai essere identificata come un ostacolo all’accertamento della verità, ma il corretto ed ineludibile discrimine tra verità e colpevolezza.

Lo Stato ha il dovere, in conformità al dettato costituzionale postulato dall’articolo 111, di fermarsi quando va oltre un limite ragionevole di tempo, perché abbracciare l’idea opposta, ossia quella di presunzione di colpevolezza, a ben riflettere, costituisce la prova provata che si versa in ipotesi di commendevole incapacità per lo Stato di dimostrare detta presunta colpevolezza.

Inoltre, al di là del fatto che la riforma Bonafede appare una evidente offesa al diritto ed al buon senso, v’è da aggiungere che la sostanziale eliminazione della prescrizione (definita impropriamente sospensione) va contro l’interesse reale dello Stato, atteso che è proprio la presenza di tale istituto a consentire la gestione di un carico di processi che altrimenti travolgerebbe, senza filtro, il macilento sistema della giustizia italiano, che non si decide di espungere dal corpus juris l’ipocrita simulacro dell’obbligatorietà della azione penale.

Viviamo purtroppo in un presente in cui i fisiologici principi di civiltà giuridica vengono sottoposti a rozzi attacchi che oltraggiano il cuore pulsante delle libertà civili e democratiche con argomentazioni il più delle volte apodittiche e “d’onor vuote e nude” anche nel modo di affermarle.

E se è vero, per dirla con Cicerone, che in questo momento storico mala tempora currunt  occorre almeno impedire che peiora parantur, perché non è possibile non sperare che, in un sussulto di orgoglio, la ragione ed ogni altro sano sentire civile possano finalmente prevalere sull’oscurantismo becero e medievale di politiche legislative fatte in questi anni da sprovveduti manichei senza arte né parte.

La difesa dei valori liberali dello Stato di diritto deve costituire la stella polare, il principio cardine di riferimento su cui rinsaldare e fare evolvere la civiltà giuridica di questa nostra Italia in termini di assoluta ed auspicabile modernità perché il pensiero unico, quello, per intederci privo di buon senso, non potrà mai, anche a livello di semplice astratta pretesa, spianare la storia.