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Gandhara

Gandhara
Gandhara

Le corriere private pachistane sono una esplosione di colori. Non è concepibile un mezzo non personalizzato e dipinto fino nei più piccoli dettagli. Alle fermate frotte di giovanissimi venditori salgono a bordo proponendo ai passeggeri frutta ed ogni sorta di mercanzia. A volte entrano mendicanti che cercano di impietosire.

Questa linea, con un viaggio che costa 3 rupie e dura una ora e mezza, conduce da Peshawar a Landi Kotal, nei pressi del famoso Khyber Pass, dove è situata la frontiera con l’Afghanistan.

Al tempo del Grande Gioco il passo era presidiato dai fucilieri britannici in funzione antirussa.

Le montagne presentano pochissima vegetazione e il marrone delle rocce permane come colore dominante. Si scorgono cimiteri con rozze lapidi, forse a commemorazione dei caduti nei sollevamenti contro gli inglesi. Le case sono in mattoni di terra e paiono fortezze.

Queste zone beneficiano di una ampia autonomia e sono controllate da gruppi tribali che affidano l’autorità al consiglio degli anziani. In giro non si vedono poliziotti, lo Stato si tiene alla larga. Sulle bancarelle del mercato sono disposte armi di ogni genere, che qui abili artigiani sanno riprodurre con maestria, pani di oppio, hashish. Per non attirare l’attenzione evito di fare domande o di esibire il mio stupore.

Tornato a Peshawar, mi dirigo verso la valle dello Swat, dove nel quarto secolo a.C. giunsero le armate di Alessandro il Grande. Fra quei soldati c’era gente di ogni tipo ed anche artisti. Le statue che essi avevano insegnato a scolpire agli artisti locali offrirono al buddhismo, che all’epoca era qui diffuso, i canoni estetici per la rappresentazione della figura umana, prima di allora non effigiata. Le sculture buddhiste assunsero pertanto sembianze di divinità greche e nacque una nuova cultura, il Gandhara.

Lungo la strada per Mingora, qui chiamata anche Saidu Sharif, ammiro resti di stupa buddhisti, paesini, coltivazioni di riso e mais. Da lì continuo con un wagon, un vecchio Ford Transit, fino a Bahrain, percorrendo una vallata sempre più bella lungo la quale si snoda il fiume color turchese.

Affascinato dal luogo, decido di andare il più avanti possibile. La valle in certi punti si stringe in una gola verde, sul fondo della quale procedono affiancati fiume e strada. Quest’ultima prende ormai l’aspetto di una pista di terra e sassi, stretta al punto che due vetture in senso opposto avrebbero difficoltà ad incrociarsi. Sopraggiunge la sera e con essa il paesino di Kalam.

Il piccolo albergo locale non dispone di elettricità e la luce è fornita da lampade a petrolio. Fa freddo, ma le coperte di panno sono bene imbottite. In cielo splende una luna piena e il sonno è cullato dal suono dell’acqua del fiume. Prima di addormentarmi penso che nessuno della mia famiglia sa che sono qui.

La mattina successiva vado a fare un giro fra le case di legno. I montanari girano armati di fucile, ma mi offrono noci in segno di ospitalità. Il paesaggio, con le sue montagne coperte di abeti e neve, richiama alla mente la Svizzera.

Non riesco a credere ai miei occhi quando dalle alture vedo scendere una carovana di cammelli, unici animali che, provvisti di zampa larga, non affondano nella neve.