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Gas in rubli: la geopolitica valutaria e i calcoli della guerra

Gas in rubli
Gas in rubli

Gas in rubli: la geopolitica valutaria e i calcoli della guerra

La partita a scacchi dell'energia tra Russia e Occidente: da una parte la volontà di "apprezzare" il rublo, dall'altra il rischio di effetto boomerang per Mosca

Vladimir Putin
Vladimir Putin

Se non ci si è cimentati nel gioco degli scacchi, difficilmente si potrà percepire come alcune mosse e contromosse degli Stati industrializzati, rispetto al momento bellico della guerra scoppiata in Ucraina, erano intuibili.

Perché? Si parta da due questioni di fondo. La mossa di Putin nel chiedere ai Paesi “dichiarati ostili” il pagamento del gas in rubli sta a significare che gli acquirenti dovranno comprare prima di tutto moneta russa per scambiare la stessa con il bene energetico. Non è teoria dei vasi comunicanti. Sarebbe un po’ l’arte del mescolamento in tre carte. L’effetto, immediatamente immaginabile, è che i Paesi a moneta forte contribuiranno al c.d. “apprezzamento valutario” del rublo russo. Questa, in un certo senso, era l’anticamera delle cose da conoscere per comprendere quanto sta avvenendo in fase bellica.

Tre mosse ipotizzate: attacco fisico e psichico, crisi diplomatica su vasta scala con i filo-occidentali, somministrazione energetica a valuta di pagamento invertita in caso di avvento sanzioni. Da tener presente, ancor più sullo sfondo della questione, che l’Unione Europea importa dalla Russia circa il 40% di tutto il fabbisogno (nel 2020, secondo i dati Eurostat, il gas importato in tutta l’Unione Europea per il 38,1 % proveniva dalla Russia) e tra i paesi più dipendenti ci sono Germania e Italia.

Ma è su questo filo conduttore che si collega la seconda questione di fondo che è ad alta aleatorietà, rischio e variabilità. È vero, comprare rubli per mantenere inalterate le forniture essenziali (in primis per famiglie e imprese), rispettando i termini di pagamento, implica uno sforzo complessivo non da poco per i singoli Paesi così come per le macro aree sistemico-economiche.

Si tengano a mente, su questo passaggio, le parole di Carlo Bagnasco (manager nel campo dell’energia ed ex Gazprom Export in Italia) del 24 marzo scorso su Formicheanche ammesso che si possa esigere il pagamento in rubli (sui contratti è sempre specificata ex ante la valuta, solitamente euro o dollari) e che questo non attivi clausole di rinegoziazione contrattuale che sarebbero particolarmente critiche in questo contesto, sappiamo tutti benissimo come la Russia non possa assolutamente fare a meno dei pagamenti europei per le sue forniture. Se la scommessa gli si ritorcesse contro, Putin perderebbe un assegno tra i 400 e i 500 milioni di euro al giorno… cioè l’unico introito stabile in un’economia che cola a picco sotto il peso delle sanzioni”.

Allora, citando una recente frase dell’economista Prof. Giulio Sapelli (intervista del 25 marzo su Il Giornale) in relazione al fatto che Mosca non accetterà più dollari od euro per le forniture del proprio gas, è così che “più che una punizione verso i Paesi ostili, si tratta di un clamoroso boomerang che si ritorcerà contro la Russia”.

Occorre unire a questa valutazione economico-finanziaria un dato ulteriore: se l’economia russa cola a picco non è detto che crolli, ma che si stabilizzi a circuito chiuso.

Ci si spiega meglio. Mentre la Cina per anni ha coltivato un programma di economia pianificata (ora un po’ più indirizzato al controllo debitorio verso gli Stati africani), la Russia sa benissimo che gli Stati occidentali, per mantenere le proprie strutture e virtuosità economiche, devono reinventare di punto in bianco la totalità della politica energetica: cioè passare dalla dipendenza all’emancipazione (che non è autosufficienza).

Traduzione plastica di come, ad ogni costo, le economie come ad esempio quella tedesca e italiana (sempre considerati i dati Eurostat al 2020), essendo dipendenti rispettivamente al 65,2% ed al 43,3 %, debbono fare i conti con l’oste prima di staccare definitivamente la spina.

Se questo aspetto risulta o risulterà attendibile c’è un bivio geopolitico: da una parte la Russia che, pur facendo apprezzare il rublo nel breve periodo, rischia di aumentare gli stoccaggi di gas nel lungo periodo (se tutti i Paesi ostili iniziano ad investire massicciamente nelle rinnovabili od altro che emancipi le complessità energetiche interne dei singoli Paesi filo-occidentali); dall’altra parte i Paesi europei più legati alla fornitura continua, ciclica ed a prezzo contrattualizzato che, per assurdo, ipotizzando una certa convenienza a pagare in rubli il gas (sempre Bagnasco di Gazprom Italia afferma che anche se gli europei capitolassero e pagassero le forniture in rubli, lo farebbero comunque secondo il tasso di cambio del giorno – con la valuta russa prossima ai minimi storici – senza quindi alcun effetto di variazione delle condizioni economiche di forniture) dovranno fronteggiare la questione del “riconoscimento valutario”. Quest’ultimo, cosa che forse sfugge, ha regole psico-umane slegate dal diritto internazionale privato tra fornitori di materia prima ed acquirenti con economia sviluppata.

Un chiaro esempio di quanto il principio del riconoscimento, anche se per altri versi, sia essenziale per la fermezza e certezza dello scambio commerciale è proprio l’art. 1 della Carta delle Nazioni Unite: lo scopo è “Mantenere la pace e la sicurezza internazionale”. Ebbene, senza pace o sicurezza non c’è diritto che tenga.

Non a caso il presidente di BlackRock, Larry Fink, ha parlato (dalle pagine del Corriere della Sera del 24 marzo) di “Trasformazione dell’ordine mondiale con l’attacco della Russia all’Ucraina… con crescita del ruolo delle criptovalute… ed aumento dei costi della transizione green”. In una sola parola: senza gas non si produce e non ci si riscalda, ma senza chi ne ha bisogno il gas rischia di non esser più funzionale; neppure per cambiare un presunto ordine mondiale.

La partita geopolitica è comunque tutta aperta. Apertissima. Sperando non costi vite umane.