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Georg Simmel, i paradossi della vita tra Metafisica della morte e Tragedia della cultura

Georg Simmel
Georg Simmel

Il filosofo francese Gilles Gaston Granger ha elaborato una originale “filosofia dello stile”, che indaga il rapporto inscindibile che lega l’opera di un filosofo allo stile in cui l’autore l’ha composta.

Pochi autori nella storia del pensiero hanno realizzato così chiaramente questo legame tra stile e contenuto quanto il filosofo e sociologo tedesco Georg Simmel.

Poco apprezzato nella sua epoca ma influente e stimato presso molti intellettuali di spicco dell’epoca, Simmel è un autore il cui pensiero si sposa perfettamente con la forma-saggio a livello stilistico.

Frammentario, asistematico, denso e immaginifico, il saggio simmeliano è emblema di un rifiuto della trattazione articolata, monolitica e sistematica tipica della filosofia sistematica.

Simmel non mira all’Assoluto, alla sintesi grandiosa o all’approfondimento: come ben ricorda Marco Vozza, Simmel rifiuta il pathos della profondità in nome di una analisi “superficiale” ma capace di restituire la complessità delle cose concrete nelle loro relazioni.

Esempio finissimo dello stile di Simmel è la raccolta di saggi che tratteremo in questa recensione, intitolata Metafisica della morte ed altri scritti.

L’opera in realtà si presenta come un insieme di due saggi brevi e frammenti del Diario dell’autore.

Entrambi i saggi, solo in apparenza diversi per tema, ruotano intorno ad uno dei cardini del pensiero simmeliano, ovvero il rapporto tra vita e cultura.

La morte e le forme della cultura sono unite da una sottilissima rete di interazioni, che Simmel coglie in saggi densi e brevissimi.

Ma per accostarci al contenuto di questi saggi è opportuno introdurre alcuni aspetti fondamentali della riflessione simmeliana.

Centrale nel pensiero del filosofo tedesco è la teoria darwiniana dell’evoluzione per selezione naturale.

Ma a differenza dei darwinisti sociali come Herbert Spencer, il filosofo berlinese non è interessato agli aspetti politico-sociali della teoria, ma ne approfitta per sviluppare una originale filosofia della cultura.

In tale dottrina ha ampio ruolo la distinzione tra vita (in senso biologico, ovvero come soddisfacimento dei bisogni vitali) e forma (ovvero canoni, dottrine e sistemi artistici, sociali, religiosi, politici, scientifici e filosofici).

La vita induce l’uomo, come ogni essere vivente, a soddisfare i suoi bisogni, e per farlo genera delle soluzioni culturali ai problemi umani. Così, però, la vita genera qualcosa che fuoriesce da essa, che non obbedisce più alle logiche della vita biologica.

La cultura obbedisce a leggi e principi suoi propri, è Più-che-vita (Mehr-Leben) ed alla vita non può essere ricondotta.

La vita infatti continua a scorrere e le forme culturali diventano inutili ad essa, così che esse vengono abbandonate e sostituite con altre più efficaci oppure sopravvivono in forma sclerotizzata.

Una religione nasce per rispondere al bisogno di senso umano, ma se si cristallizza in dottrine rigide e non viene più riconosciuta nella sua relazione con la vita essa perde di senso e perde potenza.

Così per le istituzioni familiari, quelle politiche e sociali e per i sistemi filosofici.

L’uomo è dunque sempre sospeso tra la temporalità impellente della vita e la pretesa assoluta, eterna e atemporale della cultura, che vuole irregimentare la vita.

La storia vede tramontare i sistemi culturali perché nessuno di essi può ambire all’assolutezza ed alla validità incondizionata.

Vedremo in che modo questa dialettica tra vita e cultura sarà rilevante nel discorso sulla morte, ed anche perché essa è, in un qualche senso, “tragica”.

La morte per Simmel è innanzitutto una componente fondamentale della vita e non la sua fine: l’autore rifiuta la diffusa immagine della Parca che recide il filo della vita, che prima del subitaneo e improvviso taglio scorreva indifferente all’evento della morte.

La morte non solo delimita temporalmente l’esistenza dell’uomo, ma la forma costitutivamente, obbligando l’uomo a prendere coscienza della sua limitatezza temporale e della sua finitezza.

La morte crea non solo la vita, ma anche il Più-che-vita.

Con una riflessione che influenzerà il giovane Heidegger, Simmel mette in relazione vita, morte e più-che-vita.

Il procedimento è dialettico, in senso hegeliano: la vita è la tesi, il cui negativo è la morte, che come abbiamo visto spinge l’uomo a considerare la sua finitezza.

La cultura, però, si sottrae alla limitatezza temporale dell’individuo, anzi per di più la sua validità aspira ad andare oltre la vita individuale per trascendere l’esistenza del singolo.

La morte dunque dà forma alla vita e inoltre crea le attività umane che vanno oltre, eccedono la vita.

Tramite le forme culturali ci rendiamo conto che pur essendo creature temporali e finite la nostra esistenza si inserisce in una dimensione più vasta, in una condizione umana che si mantiene nel tempo. Siamo quindi strappati ad un’esistenza meramente vitale, animale.

Perché l’uomo ricerca nella cultura l’antidoto alla morte?

Ciò dipende dal modo che si sceglie per “eternarsi”.

L’immortalità di tipo religioso è volta a superare la morte e la finitezza con la promessa della vita eterna, ma ciò genera un paradosso: la vita terrena è al contempo svalutata (in quanto la vera vita non è essa) ma anche caricata di eternità, poiché ogni azione di questa vita avrà conseguenze sulla prossima.

La vita terrena diventa così simultaneamente finita ed infinita allo stesso tempo: finita perché diventerà altro ma infinita perché mai scollegata dalle conseguenze nella vita successiva.

Diversa è l’immortalità del filosofo: egli vuole “compiere la soluzione dalla casualità dei singoli contenuti completamente”. I singoli contenuti, quelli casuali, sono quelli legati alla propria esistenza contingente: trascenderli completamente vuol dire essere eterno in quanto divenuto parte di una cultura oggettiva che trascende ogni soggettività, divenendo dunque “un puro appartenere-a-sè-stesso, una pura autodeterminazione”.

“Il soggetto vive infinite tragedie nel profondo contrasto formale tra la vita soggettiva che scorre inquieta, ma temporalmente finita, e i suoi contenuti che, una volta creati, sono fissi, ma atemporalmente validi."

In questo breve passo sta già tutto il nucleo del saggio simmeliano intitolato Concetto e tragedia della cultura.

In esso l'autore riflette su cosa sia la cultura e su che relazione essa abbia con la concreta vita.

Per capire il perché tale tema catturi l’attenzione del filosofo, bisogna pensare che egli scrive nel tempo in cui la società tedesca aveva consacrato tutta sé stessa alla "Cultura", ovvero all'hegeliano spirito oggettivo, ritenuto ormai indipendente dalle vite dei singoli.

Anche un pensatore spagnolo “adottato” dalla cultura tedesca, Ortega y Gasset, pensando proprio alla teoria simmeliana, ricorda nel suo Il tema del nostro tempo, come il secolo XIX in Germania avesse quasi prescritto di “vivere per la cultura”.

Come Simmel, anche il pensatore spagnolo si rende conto del fatto che tale cultura asettica è sclerotizzata, venerata ma mai veramente sentita nel suo valore vitale è inutile.

Proprio su ciò riflette anche Simmel, e lo fa nelle primissime battute del saggio, tramite un esempio.

Cultura, si sa, significa etimologicamente "coltivazione", ovvero ciò che rende un frutto naturalmente acerbo immaturo e duro un frutto diverso, morbido, rigoglioso e commestibile.

Il frutto coltivato è naturale ma ha sviluppato in potenza ciò che altrimenti non avrebbe potuto sviluppare.
Dallo stesso albero che ci dà i frutti si può ricavare anche il pennone di una nave, ma non si può dire che il pennone è stato coltivato a partire dall'albero.

I frutti si coltivano, i pennoni no. Allo stesso modo, la cultura non è il mero contenuto oggettivo dei prodotti culturali, ma essa è piuttosto la penetrazione effettiva di tali contenuti nell'anima dell'individuo.
Egli la deve sentire come realizzazione di sé, deve percepire intimamente il valore.

Se la cultura non fa ciò, essa non rende affatto colto l'uomo.

La cultura è dunque un prodotto di una sintesi dello "spirito soggettivo" e dello "spirito oggettivo", e obbedisce a principi suoi propri.

Non è frutto di disposizioni soggettive: essa si fonda sulla sintesi della creatività individuale con contenuti indipendenti da essa, secondo criteri oggettivi etici, fattuali ed estetici.

Essa risponde dunque ad esigenze oggettive: la logica ci appare valida indipendentemente dai nostri propositi, la bellezza la avvertiamo come assoluta e non come soggettiva, la morale dentro di noi si impone alla nostra coscienza come dato di fatto.

Questi elementi sono quelli che, incontrando la creatività del soggetto, guidano la nascita di un prodotto culturale.

Ma essi hanno una paradossale natura, però: infatti in natura hanno bisogno di un soggetto che li percepisca per esistere.

Come dice Simmel, un'alba non è affatto sublime se non è il soggetto ad ammirarla come tale.

La cultura ha svincolato il prodotto da questo paradosso.

Nel quadro di un'alba noi vediamo rappresentata la bellezza dell'alba ed essa permane anche quando il momento ed il ricordo dell'alba non vivono in nessun soggetto.

La cultura, dunque, non trae valore da sé stessa, ma da un ulteriore valore oggettivo in essa adombrato: è l'esperienza del bello oggettivo a rendere apprezzabile la cultura.

Così, paradossalmente anche qui, può capitare che si ami la Cultura ma non si apprezzi alcun prodotto culturale, così come può capitare il contrario, qualora qualcuno fruisca di prodotti culturali vuoti e ormai incapaci di comunicare il loro valore.

D'altronde, il valore di un’opera culturale (come l'arte) non sempre la rende capace di avere un impatto trasformativo sul soggetto: non sempre quadri perfetti o statue bellissime aiutano lo sviluppo dell'anima umana, così come non sempre la perfezione classica parla all'uomo moderno.
Quindi, il valore estetico, religioso, scientifico di un prodotto culturale non equivale per forza al suo valore culturale.

Un’opera d’arte on eccezionale o una dottrina religiosa poco raffinata possono nondimeno far crescere l’animo umano più di capolavori d’arte classica o di sistemi dottrinali impeccabili, qualora il soggetto ne colga con forza e chiaramente il contenuto e lo faccia proprio nel suo animo.

In ogni caso la cultura ha, come detto, carattere di sintesi tra soggetto ed oggetto: di più, essa, dice Simmel, è in qualche maniera anche indipendente dalla volontà del soggetto che la crea, in quanto valori oggettivi culturali possono essere volti in un opera che non era stata concepita dall'autore in quell'ottica.

Anche qui il paragone con la natura aiuta, poiché è facile immaginare che il mare in tempesta, evocativo e simbolico, non contenga certo per sua volontà quei significati.

La cultura è in qualche misura come il mare in tempesta, poiché porta in sé valori di cui il soggetto non è consapevole. Ma c’è di più: essa può avere più autori o addirittura non averne alcuno.

In tal caso, essa nasce spontaneamente, dallo spirito di un'epoca o dalla divisione del lavoro (Simmel ricorda l'esempio delle orchestre in cui uno strumento ignora ciò che fanno gli altri ma crea armonia comunque perché diretto dal direttore).

Un prodotto culturale può dunque assumere significati imprevisti, avere significati diversi da quelli espliciti, o a volte, perdere di significato e dunque perdere la sua funzione.
Il "feticismo" del metodo nella produzione industriale così come nelle scienze, che abbraccia un procedimento come tale e lo erge a garanzia di bontà del prodotto scientifico e artistico insidia ad esempio la possibilità di ri-soggettivare la cultura, ovvero di fruire individualmente del prodotto oggettivo della cultura.

Ma a parte questa deviazione occasionale, la cultura ha una più intima e tragica contraddizione al suo interno.

Essa infatti può spesso perdere la sua funzione e il suo significato, degenerando, diventando sterile, sfuggendo al controllo di chi l’ha generata per ridursi a mero oggetto, incapace di parlare a un soggetto.

È questa la natura "tragica" della cultura.

Particolarmente evidente è tale processo in età moderna, dove l'uomo è oberato, accerchiato da forme culturali, presenti in abbondanza ma ormai impossibili da assimilare.

Egli trova ovunque si giri diverse proposte religiose, diversi canoni artistici, diverse morali, diversi campi scientifici in frenetico sviluppo.

Il pluralismo moderno d'altronde è proprio questo: la cultura svincolata da un unico canone di riferimento e senza una cornice unitaria.

Esso è causa dello smarrimento dell'uomo moderno, per citare il titolo di una interessante opera sul tema di Peter Berger e Thomas Luckmann.

La cultura ha bisogno di tempo e di fruizione per illuminare l'animo umano, ma se essa sovrabbonda gli uomini diventano per Simmel, omnes habentes nihil possidentes.

Essi possono fruire superficialmente di ogni prodotto culturale, ma senza mai introiettarne il senso, senza ri-soggettivare l'oggetto culturale.

La tragedia della cultura è dunque tutta qui: l’uomo non ne è del tutto padrone nell’atto creativo e ne fruisce come di qualcosa sempre sul punto di diventare opaco e sterile alla sua soggettività.

La storia, con il suo incedere impietoso cambia i contesti, i costumi e gli uomini.

Proprio la natura oggettiva e atemporale dei contenuti culturali pone in scacco la cultura stessa, perché essa nulla può comunicare agli uomini quando si spezza il legame spirituale che la rendeva interiorizzabile da essi.

La letteratura, l’arte, la musica, il teatro, la religione, la morale, anche scienza e tecnica del passato ci risultano magari ancora belli, veri o buoni, ma tali caratteri oggettivi della cultura non nutrono più il nostro animo.

In conclusione, l’opera simmeliana è un caposaldo di quella disciplina filosofica che va sotto il nome di “filosofia della cultura”, ma è anche un fulgido esempio dell’allora in voga Lebensphilosophie, ovvero di una filosofia della vita attenta al divenire, alla totalità immediata della vita ed all’unità dell’esperienza vitale al di là delle distinzioni concettuali.

La riflessione di Simmel grande impatto avrà sul pensiero di Ortega y Gasset, soprattutto per quanto riguarda la relazione vita-cultura, e di Vladimir Jankelevitch, per quanto concerne il tema della morte.

Mi piacerebbe accostare inoltre la riflessione del filosofo di Berlino ad una corrente distante nello spazio ma a lui contemporanea, purtroppo misconosciuta dall’autore, ovvero il pragmatismo americano.

Alcune eco della filosofia della cultura di Simmel si colgono, pur senza influenza diretta, nel fallibilismo di Dewey, che, come il filosofo tedesco, ben coglie la tensione tra oggettivazione concettuale-culturale e incessante avvicendarsi delle soluzioni ai problemi della vita.

Nella presa di coscienza della natura tragica della cultura, Simmel vede l’essenza della modernità: in quello che è il suo testamento spirituale, la conferenza Il conflitto della cultura moderna, Simmel non si dichiarerà contrario a priori alla possibilità di una soluzione di questo conflitto “tragico”, ma dichiarerà di non essere interessato a raggiungere tale soluzione a tutti i costi.

Per il Simmel “diagnostico dei tempi”, accettare la tragicità e l’impermanenza senza esserne sconvolti è, allo stato attuale, l’unica via praticabile.

Note:

Josè Ortega y Gasset, Il tema del nostro tempo, SugarCo Edizioni, 1985

Thomas Luckmann e Peter Berger, Lo smarrimento dell’uomo moderno, Il Mulino, 2010

Vladimir Jankelevitch, Georg Simmel filosofo della vita, Mimesis, 2013

Georg Simmel, Il conflitto della cultura moderna: una conferenza, Edizioni di Ar, 2001

John Dewey, Rifare la filosofia, Donzelli, 2008