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Giovanni Graziosi, il cantore della classicità

Giuseppe Graziosi, fontana
Giuseppe Graziosi, fontana

Giuseppe Graziosi, il cantore della classicità

Da quando anche il fatto arte è stato visto e organizzato come un business il filo della tradizione è stato interrotto, le Muse hanno tolto definitivamente le tende e i loro sacerdoti, quelli veri sono rimasti a spasso.                                                                                                                                                  
Voraci avvoltoi, organizzati in mafia internazionale sul modello di Cosa nostra, si sono infiltrati nei centri più importanti piazzando i loro uomini alla direzione di musei e gallerie, pubbliche e private, in ogni parte del mondo, per dare all’arte un preciso andazzo e averne una passiva rispondenza. Finito in mani giapponesi il controllo della finanza mondiale, non è mancato chi ha pensato di rifarsi nel campo della cultura, portando così anche nel pascolo austero e aristocratico dell’arte la spregiudicatezza che mira al profitto e quel sottile cinismo che non si fa scrupoli né conosce ostacoli. In questa visione commerciale e dissacrante dell’arte è ovvio che finisca per contare esclusivamente la quantità.                                                                                                                        

Per l’arte i problemi sono ormai di misura secolare e la sua sopravvivenza, almeno quella che segue la tradizione, venne messa in forse da quella rottura epocale che Hans Sedlmayr, definì acutamente come “la perdita del centro; ma è con l’inizio del ‘900 che vennero esasperate scelte e condanne e si ebbero successi effimeri e cadute rovinose. Un modo che si pensò vitalizzante, e l’unico per continuare a far cultura, in un tempo che sembrò ricco di nuove accensioni che altro non erano, in realtà, se non le schegge roventi e spesso impazzite risultanti dall’esplosione di un mondo e della civiltà che rappresentava.                                                                                                                         

Graziosi è artista di grande temperamento, lavora con impeto e destrezza innati, mode e modi del momento vengono da lui acquisiti naturalmente, filtrati e assimilati per quel tanto che possono servire al suo istinto di figlio della gleba nobilitato dal sigillo dell’arte. Figlio di contadini, sente la natura, in mezzo alla quale è nato, e la rende nei suoi quadri con la conoscenza ancestrale di chi sa gli umori della terra rimossa dalla vanga, l’odore acre del fieno reciso, quello del grano raccolto in biche dorate sotto il sole che magari scioglie il pur vitale disegno e squilibra la composizione.            

Giuseppe Graziosi
Giuseppe Graziosi

Mondi e modi che già furono di Millet, di Segantini, di Michetti o dei Palizzi divengono suoi, rivisitati con Spadini e Costetti, fuor dall’equivoco dei suoi momentanei compagni d’avventura che furono Chini e Nomellini. La sua eccezionale potenza espressiva gli permette perfino il rifiuto, pur salutare ai più, e chissà se non lo sarebbe stato anche per lui, del bagno luciferino nelle esperienze delle avanguardie futuriste e cubiste, e se pure certe sue vedute di Venezia sono dei Guardi lievitati da un barocco in chiave di sconcertante vitalismo e preziosità cromatiche, manca forse in generale un ordine, uno stile rigoroso in grado di marcare il segno di un tempo e la statura di un grande artista come le qualità avrebbero fatto presagire.                                                                                              

Una misura di grandezza, Graziosi la rivela invece, piena e convincente, nella scultura. La nuda forma la materia elementare della creta o del marmo liberano, plasmandola, una visione della realtà da confrontarsi coi grandi secoli dell’arte. Nella scultura Graziosi si ricollega, pur nella testimonianza del proprio tempo, alla razza di scultori del realismo romano e dei moduli rinascimentali, arrivati fino a lui passando per l’impeto barocco e la resurrezione classica operata da Gemito.                                         

Nelle piccole placchette in bronzo, le figure di contadine e animali prorompono da uno schiacciato che accenna appena forme chiuse e imponenti; nelle figure a tutto tondo, quali l’“Eva”, ”La bagnante”, “Susanna” o la “Leda”. L’impostazione classica è imbevuta di contenuta drammaticità e la bellezza è trasfigurata nella costante misura del capolavoro.                                                        
Graziosi ha avuto nel nostro tempo anche la forza e il merito di aver riportato, nella vastità compromettente delle piazze, una scultura di grande qualità, dopo secoli di retorica nella mediocrità più o meno spicciola e consapevole. Le sue grandi figure per la fontana di Modena sono rimaste un esempio inimitabile e un richiamo al quale scriveva di soggiacere con gioia il collega Francesco Messina. Un altro notevole esempio di forza scultorea va ricordato per Giuseppe Graziosi: la statua equestre di Mussolini elevata nel 1938 nella facciata dello stadio comunale di Bologna. Quella che avrebbe potuto scadere nel vuoto di una retorica corrente, risultò un capolavoro, sicuramente l’unico tra i monumenti innalzati al Duce; esempio ardito per concezione e soluzione, degno, eppur diverso, della grande tradizione di monumenti equestri nelle piazze d’Italia. Nella mostra è presente il bozzetto. Malauguratamente, con la caduta del fascismo il grande monumento di bronzo venne fatto a pezzi dalla furia ottusa della plebe aizzata. Non era nuova Bologna a questo tipo di sfoghi, Graziosi seguiva onorevolmente il precedente di Michelangiolo, quando nel 1511 altre furie fecero in pezzi la statua di Papa Giulio II della Rovere. Il capolavoro di Michelangiolo era durato appena quattro anni, questo di Graziosi quindici. La storia si ripete nella farsa e nella tragedia, e poco importa se a farne le spese è l’opera del genio. (Sigfrido Bartolini)   

Articolo pubblicato su IL GIORNALE”  del 6 luglio 1994