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Contraffazione: INDICAM legittimata a intervenire nei processi

Storica sentenza del Tribunale di Milano
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Contraffazione: INDICAM legittimata a intervenire nei  processi

Il Tribunale di Milano ammette la responsabilità risarcitoria della capogruppo in caso di contraffazione e riconosce INDICAM, l'associazione italiana per la lotta alla contraffazione, legittimata a intervenire nei relativi processi

La Sezione Specializzata dell’Impresa del Tribunale di Milano ha depositato il 5 luglio 2022 un'importante sentenza in un caso di contraffazione, nel quale ha stabilito due rilevanti principi:

* la responsabilità della capogruppo non solo per i danni causati, ma anche per la restituzione dei profitti conseguiti, dalle sue controllate

* la legittimazione di INDICAM, l'associazione italiana per la lotta alla contraffazione, aderente ad AIM, a partecipare alle cause di contraffazione promosse da uno dei suoi associati, non solo depositando amicus curiae briefs (come avviene comunemente all’estero), ma intervenendo attivamente e prendendo parte alle udienze di discussione, per sostenere il riconoscimento di principi giurisprudenziali di interesse generale per i suoi iscritti, così perseguendo i propri scopi associativi.

Il caso riguardava la copiatura da parte del Gruppo Inditex (titolare del marchio Zara) di due modelli di prodotti di moda (un jeans e una calzatura) di Diesel, che aveva chiesto il risarcimento del danno e la restituzione degli utili realizzati dal contraffattore. La peculiarità della vicenda era rappresentata dal fatto che il Gruppo Zara è composto di circa un centinaio di società (80 delle quali erano coinvolte nella commercializzazione degli anzidetti prodotti contraffattori) e che la politica di transfer pricing del Gruppo faceva sì che gli utili da esso generati grazie agli illeciti fossero suddivisi tra tutte queste società, delle quali solo alcune erano parte della causa di Milano.

L'esperto contabile nominato dal Tribunale aveva infatti appurato che  “il modello di business del Gruppo Inditex si basa su un principio di gestione di ‘centro di acquisto’ gestito dalla capogruppo che produce (o importa) e che, poi, rivende a costi molto contenuti i prodotti alle controllate le quali applicano, invece, dei ricarichi importanti alla vendita al dettaglio”, col risultato che “Il maggior utile raccolto dalle controllate viene, poi, fatto confluire nel bilancio consolidato come utile di gruppo”.

Questo modello di business rischia perciò di limitare notevolmente l'effettività della misura di deterrenza della restituzione degli utili del contraffattore, dal momento che  è materialmente impossibile convenire in un'unica causa tutti i soggetti coinvolti nella contraffazione (e nei relativi profitti). Ciò infatti darebbe origine a processi monstre, con oneri di notifica e costi spropositati, oltre che con tempi e difficoltà di svolgimento incompatibili con le più elementari esigenze di economia processuale e con il raggiungimento del primo e fondamentale obiettivo delle cause di contraffazione, che è quello di ottenere l’arresto dell’illecito.

L'attrice sosteneva quindi che in un caso di questo genere la capogruppo fosse chiamata a rispondere, anche sotto il profilo della retroversione degli utili (e comunque del calcolo del risarcimento del danno subito dalle attrici, da determinarsi anche sulla base di tutti i “benefici realizzati dall’autore della violazione”, secondo quanto stabilito dall'Articolo 125, comma 1° Codice della Proprietà Industriale, conformemente alla Direttiva C.E. n. 48/2004). Da qui l’importanza capitale del giudizio anche per INDICAM, che persegue come scopo associativo l’effettiva ed efficace lotta alla contraffazione, nell’interesse di tutti i suoi associati (tra cui il Gruppo Diesel), del mercato nel suo insieme (e in quello dei prodotti di marca in particolare) e dei consumatori.

Anzitutto il Tribunale ha riconosciuto l'interesse di INDICAM ad intervenire nel processo, ritenendo "a tal fine sufficiente che esso (l'intervento in causa di INDICAM: n.d.r.) avesse un effettivo e concreto riscontro nelle domande delle parti adiuvate, a prescindere dalla loro ammissibilità e fondatezza". Questo interesse trova in effetti una base nell’Articolo 2601 Codice Civile, che dispone che “L’azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa anche dalle associazioni professionali e dagli enti che rappresentano la categoria” e che viene interpretata nel senso di riconoscere alle associazioni di categoria la rappresentanza di un interesse diffuso: in giurisprudenza si veda ad esempio Cass., 20 dicembre 1996, n. 11404, richiamata con approvazione da ultimo da Cass., 3 aprile 2020, n. 7676, che ha riconosciuto tale interesse in ogni ipotesi in cui sia implicata anche “la diretta lesione dell’interesse specifico del quale l’associazione professionale è portatrice”. La sentenza in esame è importante perché riconosce che tali associazioni possono intervenire in causa per chiedere l’accoglimento delle domande dei propri associati che siano conformi a tali finalità.

Quanto al merito, il Tribunale, pur avendo considerato gli utili del contraffattore solo nel contesto del risarcimento del danno (e non come l'oggetto di un'autonoma domanda, che ha ritenuto che non fosse stata proposta tempestivamente da Diesel), ha stabilito che "la dimostrazione di un calo di fatturato dell'impresa del titolare del diritto violato non è affatto un elemento imprescindibile per la prova del danno da contraffazione, che non necessariamente trova fondamento nell’analisi dei flussi di vendita rispettivamente registrati dal contraffattore e da quelli registrati nel medesimo periodo dal titolare del diritto", dovendosi tener conto, anche in via presuntiva, anche del pregiudizio alle sue potenzialità commerciali, tenendo conto, per la loro quantificazione, dei benefici realizzati dall'autore dell'illecito, come prescritto sia dalla legge italiana, sia da quella spagnola, applicabile alle attività di alcuni dei convenuti. 

In particolare il Tribunale di Milano ha ritenuto "ammissibile ricondurre ai benefici conseguiti dalla società capogruppo anche quelli conseguiti dalle società controllate per le successive fasi di commercializzazione" da esse effettuate nei Paesi coperti dai diritti IP violati (nella specie, nell'Unione Europea). Questa conclusione è stata fondata:

  1. Da una parte, “sulla considerazione che la società capogruppo ... ha materialmente posto in essere la fase iniziale dell’illecito – acquisendo in maniera centralizzata i prodotti contraffatti e provvedendo alla loro distribuzione in sede locale tramite le società controllate – e che pertanto il suo contributo ha posto in essere una causa immediata e diretta anche degli ulteriori danni derivanti dalla distribuzione dei prodotti al consumatore", e
  2. Dall’altra parte, sul fatto che nel caso concreto "oltre al rapporto di controllo azionario – sussiste un centro unitario decisionale (la centrale d’acquisto) cui corrisponde una correlativa unità di imputazione delle scelte strategiche e dei comportamenti attuati dai vari appartenenti al gruppo al di là della forma giuridica autonoma"

La sentenza ha dunque opportunamente approfondito in relazione al rilievo dei benefici conseguiti dalla capogruppo, e quindi anche nella prospettiva della deterrenza, un principio di diritto largamente consolidato. Nella giurisprudenza italiana si è infatti ritenuto in generale che sussiste la responsabilità risarcitoria della capogruppo per le attività poste in essere dalle sue controllate, ogni volta che “si dimostri che la condotta illecita di cui si controverte sia stata direttamente ispirata dalla capogruppo nell’ambito della sua attività dì coordinamento” (così Trib. Roma, 27 luglio 2005 e Trib. Torino, 26 ottobre 2012), oppure quando la capogruppo “si (è) assunta la responsabilità della commercializzazione per aver agito in stretto coordinamento fra loro” (App. Milano, 3 dicembre 2019, Hop Mobile et al. vs. Samsung Corea et al., resa in un caso che ha visto la capogruppo del più grande player mondiale della telefonia mobile rispondere anche delle importazioni parallele sul mercato italiano di prodotti contraffattori venduti agli importatori italiani da società del suo Gruppo non coinvolte in causa).