x

x

Giurisprudenza ragionata della CEDU: casi recenti in materia di tortura, trattamenti disumani e ordinamento penitenziario

Causa Montani c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 19 gennaio 2010 (ricorso n. 24950/06)

Proibizione della tortura – in merito al livello di sofferenza inerente la detenzione – violazione dell’art. 3 CEDU – non sussiste.

Diritto al rispetto della vita privata e familiare – in relazione alle restrizioni al diritto di visita dei familiari – violazione dell’art. 8 CEDU – non sussiste.

Diritto al rispetto della vita privata e familiare – riguardante il controllo della corrispondenza da parte dell’autorità penitenziaria – violazione dell’art. 8 CEDU – sussiste.

Diritto a un equo processo – sotto il profilo del diritto all’esame del merito dei ricorsi – violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – non sussiste.

Diritto a un equo processo – in ordine al diritto di difesa – violazione dell’art. 6, paragrafi 2 e 3, CEDU – non sussiste.

Si constata che, nonostante l’entrata in vigore dell’art. 18-ter della L. n. 354 del 1975, come modificata dalla L. n. 95 del 2004, la corrispondenza tra il ricorrente e la Corte EDU è stata sottoposta a controllo da parte dell’autorità penitenziaria: ciò costituisce violazione dell’art. 8 CEDU.

Fatto. Con un provvedimento di cumulo del 25 ottobre 1996, la procura di Bari aveva fissato a 30 anni la pena di reclusione da espiare per il sig. Montani, precedentemente condannato per associazione a delinquere, omicidio, estorsione, traffico di stupefacenti ed altri reati.

In data 17 dicembre 2004 il Ministro della giustizia, tenendo conto della pericolosità del condannato, aveva emanato un decreto della durata di undici mesi per la sottoposizione al regime di detenzione speciale previsto dall’art. 41-bis, comma 2, della l. n. 354/1975, modificata dalla l. n. 356 del 1992, prorogato più volte con provvedimenti del 14 novembre 2005 e del 10 novembre 2006.

Il 21 dicembre 2004, il 16 novembre 2005 e il 12 novembre 2006, il ricorrente aveva proposto reclamo avverso i provvedimenti del Ministro della giustizia rispettivamente del 17 dicembre 2004, del 14 novembre 2005 e del 10 novembre 2006 dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Bologna, contestando l’applicazione del regime speciale e chiedendo che fossero soppresse le restrizioni relative alla visita in carcere dei propri familiari.

Con decisione del 15 marzo 2005, depositata in cancelleria il 22 marzo 2005, il Tribunale di sorveglianza di Bologna aveva dichiarato il ricorso inammissibile pur annullando la limitazione della durata di visita di un’ora per i familiari del ricorrente.

In relazione alle ulteriori doglianze del sig. Montani, sia il Tribunale di sorveglianza di Bologna che la Corte di cassazione avevano respinto i relativi ricorsi.

Il ricorrente adiva successivamente la Corte EDU lamentando che il regime di detenzione speciale a cui era stato sottoposto si ponesse in contrasto con i diritti protetti dalla Convenzione di cui agli artt. 3 (proibizione della tortura), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 6, paragrafi 1, 2 e 3 lettere a) e b) (diritto a un equo processo) CEDU.

Diritto. Con riferimento alle doglianze del ricorrente fondate sull’art. 3 CEDU, la Corte ha ricordato che affinché un maltrattamento possa ricadere nell’ambito di applicazione dei trattamenti inumani vietati è necessario che presenti un minimo di gravità, il cui apprezzamento ha, di per sé, margini relativi e dipende da un insieme di fattori quali la durata del trattamento, gli effetti fisici e mentali, il sesso, l’età e lo stato di salute della vittima. Sebbene l’applicazione prolungata di certe restrizioni possa porre il detenuto in una situazione di trattamento disumano e degradante, ai sensi dell’art. 3 CEDU, il giudici hanno sostenuto che non è possibile fissare un termine massimo di sottoposizione a tale regime. Tuttavia, incombe sulla Corte l’onere di verificare se il rinnovo o la proroga delle restrizioni siano sorrette da idonea giustificazione. Il ricorrente, d’altro canto, non aveva fornito elementi sufficienti da poter concludere che il prolungamento del regime speciale di detenzione previsto dall’art. 41-bis avesse causato degli effetti fisici o psichici che ricadano nell’art. 3 CEDU né aveva presentato osservazioni sulle sue condizioni di salute e sull’eventuale mancanza di assistenza medica adeguata. Pertanto la Corte, sottolinendo la necessità di impedire all’interessato, socialmente pericoloso, di mantenere i legami con l’organizzazione criminale di appartenenza, ha ritenuto che le sofferenze o l’umiliazione che il ricorrente ha subito non superassero quel livello che, inevitabilmente, comporta una specifica e legittima forma di trattamento o di pena.

In merito alla lamentata violazione dell’art. 8 CEDU, invocato in relazione alle restrizioni del diritto di visita dei familiari, la Corte ha ritenuto che l’ingerenza dell’autorità nella vita familiare e privata sia stata in tal caso necessaria “per la pubblica sicurezza, la difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati in una società democratica” e pertanto ha respinto tale motivo di ricorso.

L’organo giudicante ha constatato però che, nonostante l’entrata in vigore della l. n. 95 del 2004 e la conseguente introduzione dell’art. 18-ter concernente l’esclusione dal controllo dell’autorità penitenziaria delle missive dirette all’avvocato e agli organi internazionali competenti in materia di diritti dell’uomo, la corrispondenza fra il ricorrente e la corte EDU è stata sottoposta ad ispezione.

Pertanto, la Corte ha concluso per l’accoglimento della relativa doglianza dell’interessato.

In relazione all’addotta violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, la Corte, statuendo che i giudici interni aditi si sono pronunciati sui reclami prima della scadenza del periodo di validità dei decreti controversi e che non c’è mai stata mancanza di decisione sul merito, ha respinto tale motivo del ricorso.

Non sono state accolte, infine, le doglianze del ricorrente fondate sull’art. 6, paragrafi 2 e 3, CEDU in quanto il collegio giudicante ha ricordato che tali disposizioni si applicano esclusivamente nella cornice di un’accusa penale, mentre i decreti ministeriali in esame riguardano le condizioni di detenzione.

La Corte ha respinto la richiesta di risarcimento dei danni materiali avanzata dal ricorrente per mancanza del nesso di causalità, mentre a titolo di danno morale ha ritenuto che questo sia sufficientemente riparato dalla constatazione di violazione dell’art. 8 CEDU alla quale giunge.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, paragrafi 1, 2 e 3, CEDU – Diritto a un equo processo

Art. 3 CEDU – Proibizione della tortura

Art. 8 CEDU – Diritto al rispetto della vita privata e familiare

L. n. 354 del 1975, come modificata dalla L. n. 356 del 1992, dalla L. n. 279 del 2002 e dalla L. n. 95 del 2004.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 3 CEDU – in merito ai trattamenti inumani o degradanti e allo stato di salute del ricorrente: Labita c. Italia (ricorso n. 26772/95), Argenti c. Italia (ricorso n. 56317/00), Bastone c. Italia (ricorso n. 59638/00), Scoppola c. Italia (ricorso n. 50550/06).

Art. 8 CEDU – sotto il profilo delle restrizioni al diritto di visita dei familiari e al controllo della corrispondenza: Messina c. Italia (ricorso n. 25498/94), Indelicato c. Italia (ricorso n. 31143/96), Enea c. Italia (ricorso n. 74912/01), Gelsomino c. Italia (ricorso n. 2005/03).

Art. 6, par. 1, CEDU – relativamente al diritto all’esame del merito dei ricorsi: Ganci c. Italia (ricorso n. 41576/98), Campisi c. Italia (ricorso n. 24358/02).

Art. 6, paragrafi 2 e 3, CEDU – in relazione al diritto di difesa: Ospina Vargas c. Italia (ricorso n. 40750/98).

***

Causa Trabelsi c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 13 aprile 2010 (ricorso n. 50163/08)

Divieto di trattamenti disumani o degradanti – sotto il profilo del rischio di tortura nel caso di espulsione in Tunisia – violazione dell’art. 3 CEDU – sussiste.

Ricorsi individuali – in merito alla mancata applicazione dell’art. 39 del Regolamento della Corte – violazione dell’art. 34 CEDU – sussiste.

L’esecuzione di un ordine di espulsione di uno straniero verso il Paese di appartenenza costituisce violazione dell’art. 3 cedu, quando vi sono circostanze serie e comprovate che depongono per un rischio effettivo che l’individuo subisca trattamenti disumani o degradanti.

La mancata ottemperanza alla richiesta di sospensione cautelare del provvedimento avanzata dalla Corte in virtù dell’art. 39 del Regolamento della stessa costituisce violazione dell’art. 34 CEDU.

Fatto. In data 1° aprile 2003, il sig. Trabelsi era stato arrestato e posto in detenzione provvisoria con l’accusa di appartenere ad un gruppo fondamentalista islamico in Italia nonché per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

In data 15 luglio 2006 il ricorrente era stato condannato dal Tribunale di Cremona a 10 anni di carcere con ordine di espulsione a fine pena, mentre la Corte d’Assise d’appello di Brescia, con sentenza confermata dalla Corte di Cassazione, aveva ridotto a 7 anni la condanna, annullando la parte relativa all’immigrazione clandestina.

La pena era stata poi ridotta di circa 15 mesi dal Tribunale di sorveglianza di Pavia in data 14 novembre 2008.

A seguito dell’espulsione in Tunisia da parte delle autorità italiane il 13 dicembre 2008, contro il sig. Trabelsi veniva eseguita una condanna già emessa in contumacia a 10 anni per terrorismo.

Prima di questa data, precisamente il 18 novembre 2008, su richiesta del ricorrente, in applicazione dell’articolo 39 del Regolamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, il Presidente della Decima Sezione aveva espresso al Governo italiano l’auspicio che non si procedesse all’espulsione del ricorrente verso la Tunisia fino a nuovo ordine, nell’interesse delle parti e della corretta conduzione del procedimento dinanzi alla Corte e visti i rischi di trattamenti contrari all’articolo 3 CEDU in Tunisia.

Con il ricorso alla Corte EDU, il sig. Trabelsi, premesso che diversi cittadini tunisini rimpatriati con l’accusa di terrorismo sono risultati non più reperibili, ricordava che le inchieste condotte da Amnesty International e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America hanno svelato la sussistenza della pratica della tortura in Tunisia.

Il ricorrente contestava, inoltre, la tesi secondo cui la situazione relativa al rispetto dei diritti umani in Tunisia sarebbe nel tempo migliorata e denunciava la non attendibilità delle assicurazioni rilasciate dalle autorità tunisine al Governo italiano.

In particolare, il sig. Trabelsi adiva la Corte per la violazione dell’art. 3 (divieto di trattamenti disumani o degradanti), dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e dell’art. 34 (ricorsi individuali) CEDU.

Diritto. La Corte, per quanto riguarda la condizione dei detenuti nelle carceri tunisine, ha richiamato la precedente sentenza del 28 febbraio 2008, Saadi c. Italia (ricorso n. 37201/06), con cui aveva riconosciuto il rischio di tortura connesso al rimpatrio dei condannati per terrorismo internazionale, sulla base di testi, documenti internazionali e fonti di informazione attestanti la pratica di trattamenti disumani.

La Corte, infatti, aveva ritenuto che l’esistenza di testi interni e l’accettazione di trattati internazionali che garantiscono, normalmente, il rispetto dei diritti fondamentali non fosse sufficiente, da solo, a garantire una protezione adeguata contro il rischio di cattivi trattamenti, quando fonti affidabili rivelano l’esistenza di pratiche poste in essere dalle autorità, o da queste tollerate, palesemente contrarie ai principi della Convenzione.

Ciò premesso, la Corte ha ricordato che Amnesty International, nel rapporto 2008 relativo alla Tunisia, ha precisato che, benché numerosi detenuti si fossero lamentati per essere stati torturati durante il fermo, «le autorità non hanno praticamente mai condotto alcuna inchiesta né adottato una qualsiasi misura per citare in giudizio i presunti torturatori».

I giudici di Strasburgo, inoltre, richiamando la propria giurisprudenza, hanno posto in luce l’assenza di qualunque certezza circa la competenza dell’avvocato generale alla direzione generale dei servizi giudiziari nel fornire assicurazioni in nome dello Stato (v., mutatis mutandis, Soldatenko c. Ucraina ricorso n. 2440/07).

Sotto altro profilo, i giudici hanno sottolineato l’inidoneità di tali dichiarazioni ad escludere, in assenza di certificazioni mediche, la sottoposizione di Trabelsi a trattamenti contrari alla previsione dell’articolo 3 della Convenzione.

Ribadendo i principi enunciati nella sentenza Saadi, la Corte ha affermato che gli Stati parti della Convenzione, nel valutare l’eventualità dell’adozione di un provvedimento di espulsione, non possono mettere in bilanciamento il rischio che il soggetto da espellere sia sottoposto a trattamenti disumani e degradanti nel Paese di destinazione con la pericolosità sociale del medesimo individuo.

In merito alla presunta violazione dell’art. 8 CEDU, la Corte non ha ritenuto di esaminare separatamente tale motivo di doglianza, poiché ha già accertato che l’espulsione del sig. Trabelsi costituisce violazione dell’art. 3 CEDU, non essendoci alcun dubbio sul fatto che il governo convenuto si conformerà alla presente decisione.

Con riferimento, poi, alla richiesta cautelare indirizzata all’Italia, la Corte ha richiamato il caso Mamatkoulov e Askarov c. Turchia, per riaffermare il principio secondo cui l’inottemperanza dello Stato alla richiesta di misure provvisorie inoltrata ai sensi dell’articolo 39 del Regolamento della Corte determina la violazione dell’articolo 34 della Convenzione.

Ne deriva che essa deve considerarsi come una circostanza che impedisce alla Corte di esaminare efficacemente le ragioni del ricorrente.

Nella specie, i giudici hanno rilevato che a causa di tale inosservanza, da un lato, Mourad Trabelsi non ha potuto articolare la propria difesa e, dall’altro, la decisione della Corte rischia di restare priva di effetto utile.

Per questi motivi la Corte ha condannato lo Stato italiano al pagamento in favore del ricorrente della somma di 15.000 euro a titolo di risarcimento per i danni morali, nonché al pagamento della somma di 6.000 euro per spese di giudizio.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 3 CEDU – Divieto di trattamenti disumani o degradanti

Art. 8 CEDU – Diritto al rispetto della vita privata e familiare

Art. 34 CEDU – Ricorsi individuali

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 3 CEDU – relativamente al rischio che un’espulsione esponga un soggetto a trattamenti disumani e degradanti nel Paese di destinazione: Saadi c. Italia (ricorso n. 37201/06), Ben Khemais c. Italia (ricorso n. 246/07), Chahal c. Regno Unito, sentenza del 15 novembre 2006.

Art. 34 CEDU – in ordine all’inosservanza della sospensione cautelare ai sensi dell’art. 39 del Regolamento della Corte EDU: Mamatkulov e Askarov c. Turchia, sentenza del 4 febbraio 2005; Ben Khemais c. Italia (ricorso n. 246/07).

***


Causa Barbaro c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 16 febbraio 2010 (ricorso n. 16436/02)

Ordinamento penitenziario – regime differenziato ex art. 41-bis legge n. 354 del 1975 e successive modificazioni – impugnazione del decreto ministeriale – dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione per sopravvenuta scadenza del termine di efficacia del decreto – mancata pronuncia sul merito del ricorso – violazione del diritto ad un equo processo ex art. 6 CEDU – sussiste.

La Corte ha constatato che la mancanza di qualsiasi decisione sul merito dei ricorsi promossi avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 41-bis della legge 354 del 1975 e successive modificazioni, annullando l’effetto del controllo giurisdizionale sui provvedimenti medesimi, costituisce violazione del diritto ad un equo processo tutelato dall’art. 6, par. 1, CEDU.

Fatto. Il ricorrente in data 16 luglio 1993 era stato sottoposto, a causa della sua pericolosità sociale, al regime di detenzione speciale previsto dall’art. 41-bis, comma 2, della legge n. 354 del 1975, prorogato diciotto volte con reiterati decreti ministeriali della durata di sei mesi ciascuno e revocato con ordinanza il 12 febbraio 2002.

I reclami presentati dal Sig. Barbaro avverso alcuni di questi decreti ministeriali erano stati sempre respinti dal Tribunale di sorveglianza dell’Aquila sul presupposto della perdita di interesse del ricorrente all’esame dei provvedimenti, data la scadenza dei relativi periodi di applicazione.

Il ricorrente adiva, quindi, la Corte EDU deducendo la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU (Diritto a un equo processo) per il ritardo sistematico da parte del Tribunale di sorveglianza e della Corte di cassazione nell’esaminare i ricorsi introdotti per contestare l’applicazione del regime speciale di detenzione.

Il ricorrente ha affermato di aver proposto ricorso per Cassazione avverso le ordinanze del Tribunale di sorveglianza, ma ha prodotto in giudizio soltanto la sentenza della Corte di cassazione del 14 dicembre 2000 riguardante il decreto ministeriale n. 14.

Diritto. La Corte innanzitutto ha statuito che non è manifestamente infondata ai sensi dell’art. 35, par. 3, CEDU e, quindi, ricevibile solo quella parte del ricorso riguardante il decreto n. 14 di applicazione della detenzione speciale.

Nel caso in esame, il Tribunale di sorveglianza ha deciso sul ricorso solo tre mesi dopo la sua introduzione e la Corte di cassazione, un anno dopo l’adozione del decreto ministeriale, ne ha dichiarato l’inammissibilità essendo scaduto il periodo di validità del suddetto provvedimento.

Le doglianze del ricorrente, quindi, sono state esaminate non rispettando il termine di dieci giorni previsto dalla legge.

La Corte, premesso che il semplice superamento di un termine previsto dalla legge non costituisce violazione del diritto garantito, ha al contempo rilevato che il tempo necessario all’esame di un ricorso può comprometterne l’efficacia.

In particolare, l’assenza di qualsiasi decisione sul merito dell’impugnazione del Sig. Barbaro ha inevitabilmente svuotato della sua sostanza il controllo esercitato dal giudice sul decreto ministeriale.

D’altronde, se la legge applicabile prevede un termine di dieci giorni per la decisione del giudice, ciò dipende sia dalla gravità degli effetti del regime speciale di detenzione sui diritti del detenuto sia dalla validità limitata nel tempo del provvedimento contestato.

La Corte ha pertanto concluso per la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, par. 1, CEDU – Diritto a un equo processo

Art. 41-bis L. n. 354 del 1975 e successive modificazioni

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 6, par. 1, CEDU – relativamente al diritto all’esame del merito dei ricorsi: Enea c. Italia (ricorso n. 74912/01); Argenti c. Italia (ricorso n. 56317/00); Viola c. Italia (ricorso n. 8316/02).

Causa Montani c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 19 gennaio 2010 (ricorso n. 24950/06)

Proibizione della tortura – in merito al livello di sofferenza inerente la detenzione – violazione dell’art. 3 CEDU – non sussiste.

Diritto al rispetto della vita privata e familiare – in relazione alle restrizioni al diritto di visita dei familiari – violazione dell’art. 8 CEDU – non sussiste.

Diritto al rispetto della vita privata e familiare – riguardante il controllo della corrispondenza da parte dell’autorità penitenziaria – violazione dell’art. 8 CEDU – sussiste.

Diritto a un equo processo – sotto il profilo del diritto all’esame del merito dei ricorsi – violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – non sussiste.

Diritto a un equo processo – in ordine al diritto di difesa – violazione dell’art. 6, paragrafi 2 e 3, CEDU – non sussiste.

Si constata che, nonostante l’entrata in vigore dell’art. 18-ter della L. n. 354 del 1975, come modificata dalla L. n. 95 del 2004, la corrispondenza tra il ricorrente e la Corte EDU è stata sottoposta a controllo da parte dell’autorità penitenziaria: ciò costituisce violazione dell’art. 8 CEDU.

Fatto. Con un provvedimento di cumulo del 25 ottobre 1996, la procura di Bari aveva fissato a 30 anni la pena di reclusione da espiare per il sig. Montani, precedentemente condannato per associazione a delinquere, omicidio, estorsione, traffico di stupefacenti ed altri reati.

In data 17 dicembre 2004 il Ministro della giustizia, tenendo conto della pericolosità del condannato, aveva emanato un decreto della durata di undici mesi per la sottoposizione al regime di detenzione speciale previsto dall’art. 41-bis, comma 2, della l. n. 354/1975, modificata dalla l. n. 356 del 1992, prorogato più volte con provvedimenti del 14 novembre 2005 e del 10 novembre 2006.

Il 21 dicembre 2004, il 16 novembre 2005 e il 12 novembre 2006, il ricorrente aveva proposto reclamo avverso i provvedimenti del Ministro della giustizia rispettivamente del 17 dicembre 2004, del 14 novembre 2005 e del 10 novembre 2006 dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Bologna, contestando l’applicazione del regime speciale e chiedendo che fossero soppresse le restrizioni relative alla visita in carcere dei propri familiari.

Con decisione del 15 marzo 2005, depositata in cancelleria il 22 marzo 2005, il Tribunale di sorveglianza di Bologna aveva dichiarato il ricorso inammissibile pur annullando la limitazione della durata di visita di un’ora per i familiari del ricorrente.

In relazione alle ulteriori doglianze del sig. Montani, sia il Tribunale di sorveglianza di Bologna che la Corte di cassazione avevano respinto i relativi ricorsi.

Il ricorrente adiva successivamente la Corte EDU lamentando che il regime di detenzione speciale a cui era stato sottoposto si ponesse in contrasto con i diritti protetti dalla Convenzione di cui agli artt. 3 (proibizione della tortura), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 6, paragrafi 1, 2 e 3 lettere a) e b) (diritto a un equo processo) CEDU.

Diritto. Con riferimento alle doglianze del ricorrente fondate sull’art. 3 CEDU, la Corte ha ricordato che affinché un maltrattamento possa ricadere nell’ambito di applicazione dei trattamenti inumani vietati è necessario che presenti un minimo di gravità, il cui apprezzamento ha, di per sé, margini relativi e dipende da un insieme di fattori quali la durata del trattamento, gli effetti fisici e mentali, il sesso, l’età e lo stato di salute della vittima. Sebbene l’applicazione prolungata di certe restrizioni possa porre il detenuto in una situazione di trattamento disumano e degradante, ai sensi dell’art. 3 CEDU, il giudici hanno sostenuto che non è possibile fissare un termine massimo di sottoposizione a tale regime. Tuttavia, incombe sulla Corte l’onere di verificare se il rinnovo o la proroga delle restrizioni siano sorrette da idonea giustificazione. Il ricorrente, d’altro canto, non aveva fornito elementi sufficienti da poter concludere che il prolungamento del regime speciale di detenzione previsto dall’art. 41-bis avesse causato degli effetti fisici o psichici che ricadano nell’art. 3 CEDU né aveva presentato osservazioni sulle sue condizioni di salute e sull’eventuale mancanza di assistenza medica adeguata. Pertanto la Corte, sottolinendo la necessità di impedire all’interessato, socialmente pericoloso, di mantenere i legami con l’organizzazione criminale di appartenenza, ha ritenuto che le sofferenze o l’umiliazione che il ricorrente ha subito non superassero quel livello che, inevitabilmente, comporta una specifica e legittima forma di trattamento o di pena.

In merito alla lamentata violazione dell’art. 8 CEDU, invocato in relazione alle restrizioni del diritto di visita dei familiari, la Corte ha ritenuto che l’ingerenza dell’autorità nella vita familiare e privata sia stata in tal caso necessaria “per la pubblica sicurezza, la difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati in una società democratica” e pertanto ha respinto tale motivo di ricorso.

L’organo giudicante ha constatato però che, nonostante l’entrata in vigore della l. n. 95 del 2004 e la conseguente introduzione dell’art. 18-ter concernente l’esclusione dal controllo dell’autorità penitenziaria delle missive dirette all’avvocato e agli organi internazionali competenti in materia di diritti dell’uomo, la corrispondenza fra il ricorrente e la corte EDU è stata sottoposta ad ispezione.

Pertanto, la Corte ha concluso per l’accoglimento della relativa doglianza dell’interessato.

In relazione all’addotta violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, la Corte, statuendo che i giudici interni aditi si sono pronunciati sui reclami prima della scadenza del periodo di validità dei decreti controversi e che non c’è mai stata mancanza di decisione sul merito, ha respinto tale motivo del ricorso.

Non sono state accolte, infine, le doglianze del ricorrente fondate sull’art. 6, paragrafi 2 e 3, CEDU in quanto il collegio giudicante ha ricordato che tali disposizioni si applicano esclusivamente nella cornice di un’accusa penale, mentre i decreti ministeriali in esame riguardano le condizioni di detenzione.

La Corte ha respinto la richiesta di risarcimento dei danni materiali avanzata dal ricorrente per mancanza del nesso di causalità, mentre a titolo di danno morale ha ritenuto che questo sia sufficientemente riparato dalla constatazione di violazione dell’art. 8 CEDU alla quale giunge.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, paragrafi 1, 2 e 3, CEDU – Diritto a un equo processo

Art. 3 CEDU – Proibizione della tortura

Art. 8 CEDU – Diritto al rispetto della vita privata e familiare

L. n. 354 del 1975, come modificata dalla L. n. 356 del 1992, dalla L. n. 279 del 2002 e dalla L. n. 95 del 2004.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 3 CEDU – in merito ai trattamenti inumani o degradanti e allo stato di salute del ricorrente: Labita c. Italia (ricorso n. 26772/95), Argenti c. Italia (ricorso n. 56317/00), Bastone c. Italia (ricorso n. 59638/00), Scoppola c. Italia (ricorso n. 50550/06).

Art. 8 CEDU – sotto il profilo delle restrizioni al diritto di visita dei familiari e al controllo della corrispondenza: Messina c. Italia (ricorso n. 25498/94), Indelicato c. Italia (ricorso n. 31143/96), Enea c. Italia (ricorso n. 74912/01), Gelsomino c. Italia (ricorso n. 2005/03).

Art. 6, par. 1, CEDU – relativamente al diritto all’esame del merito dei ricorsi: Ganci c. Italia (ricorso n. 41576/98), Campisi c. Italia (ricorso n. 24358/02).

Art. 6, paragrafi 2 e 3, CEDU – in relazione al diritto di difesa: Ospina Vargas c. Italia (ricorso n. 40750/98).

***

Causa Trabelsi c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 13 aprile 2010 (ricorso n. 50163/08)

Divieto di trattamenti disumani o degradanti – sotto il profilo del rischio di tortura nel caso di espulsione in Tunisia – violazione dell’art. 3 CEDU – sussiste.

Ricorsi individuali – in merito alla mancata applicazione dell’art. 39 del Regolamento della Corte – violazione dell’art. 34 CEDU – sussiste.

L’esecuzione di un ordine di espulsione di uno straniero verso il Paese di appartenenza costituisce violazione dell’art. 3 cedu, quando vi sono circostanze serie e comprovate che depongono per un rischio effettivo che l’individuo subisca trattamenti disumani o degradanti.

La mancata ottemperanza alla richiesta di sospensione cautelare del provvedimento avanzata dalla Corte in virtù dell’art. 39 del Regolamento della stessa costituisce violazione dell’art. 34 CEDU.

Fatto. In data 1° aprile 2003, il sig. Trabelsi era stato arrestato e posto in detenzione provvisoria con l’accusa di appartenere ad un gruppo fondamentalista islamico in Italia nonché per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

In data 15 luglio 2006 il ricorrente era stato condannato dal Tribunale di Cremona a 10 anni di carcere con ordine di espulsione a fine pena, mentre la Corte d’Assise d’appello di Brescia, con sentenza confermata dalla Corte di Cassazione, aveva ridotto a 7 anni la condanna, annullando la parte relativa all’immigrazione clandestina.

La pena era stata poi ridotta di circa 15 mesi dal Tribunale di sorveglianza di Pavia in data 14 novembre 2008.

A seguito dell’espulsione in Tunisia da parte delle autorità italiane il 13 dicembre 2008, contro il sig. Trabelsi veniva eseguita una condanna già emessa in contumacia a 10 anni per terrorismo.

Prima di questa data, precisamente il 18 novembre 2008, su richiesta del ricorrente, in applicazione dell’articolo 39 del Regolamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, il Presidente della Decima Sezione aveva espresso al Governo italiano l’auspicio che non si procedesse all’espulsione del ricorrente verso la Tunisia fino a nuovo ordine, nell’interesse delle parti e della corretta conduzione del procedimento dinanzi alla Corte e visti i rischi di trattamenti contrari all’articolo 3 CEDU in Tunisia.

Con il ricorso alla Corte EDU, il sig. Trabelsi, premesso che diversi cittadini tunisini rimpatriati con l’accusa di terrorismo sono risultati non più reperibili, ricordava che le inchieste condotte da Amnesty International e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America hanno svelato la sussistenza della pratica della tortura in Tunisia.

Il ricorrente contestava, inoltre, la tesi secondo cui la situazione relativa al rispetto dei diritti umani in Tunisia sarebbe nel tempo migliorata e denunciava la non attendibilità delle assicurazioni rilasciate dalle autorità tunisine al Governo italiano.

In particolare, il sig. Trabelsi adiva la Corte per la violazione dell’art. 3 (divieto di trattamenti disumani o degradanti), dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e dell’art. 34 (ricorsi individuali) CEDU.

Diritto. La Corte, per quanto riguarda la condizione dei detenuti nelle carceri tunisine, ha richiamato la precedente sentenza del 28 febbraio 2008, Saadi c. Italia (ricorso n. 37201/06), con cui aveva riconosciuto il rischio di tortura connesso al rimpatrio dei condannati per terrorismo internazionale, sulla base di testi, documenti internazionali e fonti di informazione attestanti la pratica di trattamenti disumani.

La Corte, infatti, aveva ritenuto che l’esistenza di testi interni e l’accettazione di trattati internazionali che garantiscono, normalmente, il rispetto dei diritti fondamentali non fosse sufficiente, da solo, a garantire una protezione adeguata contro il rischio di cattivi trattamenti, quando fonti affidabili rivelano l’esistenza di pratiche poste in essere dalle autorità, o da queste tollerate, palesemente contrarie ai principi della Convenzione.

Ciò premesso, la Corte ha ricordato che Amnesty International, nel rapporto 2008 relativo alla Tunisia, ha precisato che, benché numerosi detenuti si fossero lamentati per essere stati torturati durante il fermo, «le autorità non hanno praticamente mai condotto alcuna inchiesta né adottato una qualsiasi misura per citare in giudizio i presunti torturatori».

I giudici di Strasburgo, inoltre, richiamando la propria giurisprudenza, hanno posto in luce l’assenza di qualunque certezza circa la competenza dell’avvocato generale alla direzione generale dei servizi giudiziari nel fornire assicurazioni in nome dello Stato (v., mutatis mutandis, Soldatenko c. Ucraina ricorso n. 2440/07).

Sotto altro profilo, i giudici hanno sottolineato l’inidoneità di tali dichiarazioni ad escludere, in assenza di certificazioni mediche, la sottoposizione di Trabelsi a trattamenti contrari alla previsione dell’articolo 3 della Convenzione.

Ribadendo i principi enunciati nella sentenza Saadi, la Corte ha affermato che gli Stati parti della Convenzione, nel valutare l’eventualità dell’adozione di un provvedimento di espulsione, non possono mettere in bilanciamento il rischio che il soggetto da espellere sia sottoposto a trattamenti disumani e degradanti nel Paese di destinazione con la pericolosità sociale del medesimo individuo.

In merito alla presunta violazione dell’art. 8 CEDU, la Corte non ha ritenuto di esaminare separatamente tale motivo di doglianza, poiché ha già accertato che l’espulsione del sig. Trabelsi costituisce violazione dell’art. 3 CEDU, non essendoci alcun dubbio sul fatto che il governo convenuto si conformerà alla presente decisione.

Con riferimento, poi, alla richiesta cautelare indirizzata all’Italia, la Corte ha richiamato il caso Mamatkoulov e Askarov c. Turchia, per riaffermare il principio secondo cui l’inottemperanza dello Stato alla richiesta di misure provvisorie inoltrata ai sensi dell’articolo 39 del Regolamento della Corte determina la violazione dell’articolo 34 della Convenzione.

Ne deriva che essa deve considerarsi come una circostanza che impedisce alla Corte di esaminare efficacemente le ragioni del ricorrente.

Nella specie, i giudici hanno rilevato che a causa di tale inosservanza, da un lato, Mourad Trabelsi non ha potuto articolare la propria difesa e, dall’altro, la decisione della Corte rischia di restare priva di effetto utile.

Per questi motivi la Corte ha condannato lo Stato italiano al pagamento in favore del ricorrente della somma di 15.000 euro a titolo di risarcimento per i danni morali, nonché al pagamento della somma di 6.000 euro per spese di giudizio.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 3 CEDU – Divieto di trattamenti disumani o degradanti

Art. 8 CEDU – Diritto al rispetto della vita privata e familiare

Art. 34 CEDU – Ricorsi individuali

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 3 CEDU – relativamente al rischio che un’espulsione esponga un soggetto a trattamenti disumani e degradanti nel Paese di destinazione: Saadi c. Italia (ricorso n. 37201/06), Ben Khemais c. Italia (ricorso n. 246/07), Chahal c. Regno Unito, sentenza del 15 novembre 2006.

Art. 34 CEDU – in ordine all’inosservanza della sospensione cautelare ai sensi dell’art. 39 del Regolamento della Corte EDU: Mamatkulov e Askarov c. Turchia, sentenza del 4 febbraio 2005; Ben Khemais c. Italia (ricorso n. 246/07).

***


Causa Barbaro c. Italia – Sezione Seconda – sentenza 16 febbraio 2010 (ricorso n. 16436/02)

Ordinamento penitenziario – regime differenziato ex art. 41-bis legge n. 354 del 1975 e successive modificazioni – impugnazione del decreto ministeriale – dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione per sopravvenuta scadenza del termine di efficacia del decreto – mancata pronuncia sul merito del ricorso – violazione del diritto ad un equo processo ex art. 6 CEDU – sussiste.

La Corte ha constatato che la mancanza di qualsiasi decisione sul merito dei ricorsi promossi avverso i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 41-bis della legge 354 del 1975 e successive modificazioni, annullando l’effetto del controllo giurisdizionale sui provvedimenti medesimi, costituisce violazione del diritto ad un equo processo tutelato dall’art. 6, par. 1, CEDU.

Fatto. Il ricorrente in data 16 luglio 1993 era stato sottoposto, a causa della sua pericolosità sociale, al regime di detenzione speciale previsto dall’art. 41-bis, comma 2, della legge n. 354 del 1975, prorogato diciotto volte con reiterati decreti ministeriali della durata di sei mesi ciascuno e revocato con ordinanza il 12 febbraio 2002.

I reclami presentati dal Sig. Barbaro avverso alcuni di questi decreti ministeriali erano stati sempre respinti dal Tribunale di sorveglianza dell’Aquila sul presupposto della perdita di interesse del ricorrente all’esame dei provvedimenti, data la scadenza dei relativi periodi di applicazione.

Il ricorrente adiva, quindi, la Corte EDU deducendo la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU (Diritto a un equo processo) per il ritardo sistematico da parte del Tribunale di sorveglianza e della Corte di cassazione nell’esaminare i ricorsi introdotti per contestare l’applicazione del regime speciale di detenzione.

Il ricorrente ha affermato di aver proposto ricorso per Cassazione avverso le ordinanze del Tribunale di sorveglianza, ma ha prodotto in giudizio soltanto la sentenza della Corte di cassazione del 14 dicembre 2000 riguardante il decreto ministeriale n. 14.

Diritto. La Corte innanzitutto ha statuito che non è manifestamente infondata ai sensi dell’art. 35, par. 3, CEDU e, quindi, ricevibile solo quella parte del ricorso riguardante il decreto n. 14 di applicazione della detenzione speciale.

Nel caso in esame, il Tribunale di sorveglianza ha deciso sul ricorso solo tre mesi dopo la sua introduzione e la Corte di cassazione, un anno dopo l’adozione del decreto ministeriale, ne ha dichiarato l’inammissibilità essendo scaduto il periodo di validità del suddetto provvedimento.

Le doglianze del ricorrente, quindi, sono state esaminate non rispettando il termine di dieci giorni previsto dalla legge.

La Corte, premesso che il semplice superamento di un termine previsto dalla legge non costituisce violazione del diritto garantito, ha al contempo rilevato che il tempo necessario all’esame di un ricorso può comprometterne l’efficacia.

In particolare, l’assenza di qualsiasi decisione sul merito dell’impugnazione del Sig. Barbaro ha inevitabilmente svuotato della sua sostanza il controllo esercitato dal giudice sul decreto ministeriale.

D’altronde, se la legge applicabile prevede un termine di dieci giorni per la decisione del giudice, ciò dipende sia dalla gravità degli effetti del regime speciale di detenzione sui diritti del detenuto sia dalla validità limitata nel tempo del provvedimento contestato.

La Corte ha pertanto concluso per la violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU.

NORMATIVA DI RIFERIMENTO

Art. 6, par. 1, CEDU – Diritto a un equo processo

Art. 41-bis L. n. 354 del 1975 e successive modificazioni

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI

Art. 6, par. 1, CEDU – relativamente al diritto all’esame del merito dei ricorsi: Enea c. Italia (ricorso n. 74912/01); Argenti c. Italia (ricorso n. 56317/00); Viola c. Italia (ricorso n. 8316/02).