Gli agenti di polizia dormono in auto durante il turno, non è solo abbandono di servizio
Nella sentenza in esame la Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso presentato da una serie di esponenti della squadra “volanti” della Questura di Rovigo, condannati in secondo grado dalla Corte d’Appello di Venezia per i delitti di abbandono di servizio con l’aggravante di aver cagionato interruzione del servizio, falso e truffa.
Nel caso specifico, gli imputati sono considerati rei di aver violato le disposizioni impartite dal loro dirigente, appartandosi per dormire nel corso del servizio di perlustrazione del territorio e rientrando anticipatamente in Questura senza giustificazione. È loro attribuito il delitto di falso per aver fornito dichiarazioni mendaci nelle “schede controlli” riepilogative dei turni di sorveglianza svolti. Inoltre, è loro addebitato il reato di truffa per avere, tramite la falsificazione delle predette “schede controlli”, conseguito una retribuzione ingiusta per il servizio non prestato.
Per quanto concerne il reato di abbandono di servizio, la Corte ha ricordato che costituisce abbandono di servizio anche la mancata prestazione dell’attività di sorveglianza nel caso in cui il soggetto sia rimasto presente in loco ma inerte o assorbito da altre attività. Relativamente all’aggravante dell’aver cagionato interruzione del servizio, la Corte ha affermato la sua piena configurabilità, sostenendo che: “proprio perché il servizio di vigilanza va considerato unitariamente, il venir meno di una o più condotte di sorveglianza compromette l’intero sistema, in quanto rappresenta una falla dello stesso”.
Relativamente al reato di truffa, la Corte, pur riconoscendo che non vi sia un rapporto sinallagmatico tra lo stipendio dell’appartenente alla polizia di Stato e la singola prestazione svolta, ha sottolineato come il reiterato sottrarsi agli obblighi lavorativi derivanti dal rapporto di servizio comporti certamente il conseguimento di un profitto ingiusto. Inoltre, dal momento che il profitto ingiusto è stato conseguito tramite falsificazioni delle “schede controlli” riepilogative del turno di sorveglianza, tutti i requisiti del reato di truffa possono dirsi pienamente integrati.
La questione delle “schede controlli” è emersa anche in merito all’addebito in capo ai ricorrenti del reato di falso; questi ultimi hanno, infatti, affermato che le “schede controlli” non costituiscono atto pubblico, ma semplicemente atto organizzativo di natura interna. La Corte di Cassazione, al contrario, ha ritenuto che ai fini della qualificazione giuridica del documento non rileva il fatto che questo non sia stato previsto dalla legge, in quanto: “il documento col quale gli appartenenti alla polizia di Stato danno atto del servizio svolto e dell’esito dello stesso è - e non può non essere - atto pubblico […] la cui compilazione costituisce uno specifico dovere d’ufficio” e, più avanti: “sostenere, per altro, che le disposizioni dei superiori gerarchici non abbiano natura vincolante costituisce una palese assurdità, tanto più se ci si riferisce ad un corpo di polizia con funzione di controllo del territorio e con compiti di prevenzione/repressione dei reati e di tutela dell’ordine pubblico”. Secondo la Corte, pertanto, può quindi correttamente dirsi che l’aver dichiarato lo svolgimento di servizi non effettuati in tali schede costituisce delitto di falso.
I ricorrenti hanno, inoltre, eccepito numerose lacune sotto il profilo probatorio. Nel caso di specie, le prove a carico degli imputati consistono in intercettazioni ambientali, tracciati GPS ed informazioni ottenute tramite il sistema Marathon che prevede la registrazione delle comunicazioni intervenute tra la centrale operativa e i singoli equipaggi attraverso le radio di bordo.
Per quanto attiene alle intercettazioni ambientali i ricorrenti lamentano la mancanza del requisito dell’assoluta indispensabilità delle stesse, in quanto l’analisi dei tracciati GPS dovrebbe essere già di per sé prova sufficiente. Sul punto la Corte di Cassazione ha affermato, al contrario, la piena necessità delle intercettazioni: il convincimento dei giudicanti si è infatti formato su di una “prova complessa”, in cui i vari mezzi di prova sono stati valutati globalmente e “nel loro reciproco completarsi”.
I ricorrenti eccepiscono, infine, la mancata adozione di misure tecniche idonee alla conservazione dei dati ottenuti tramite GPS. La Corte ha, però, statuito che le indagini svolte configurano un’attività di pedinamento elettronico, cioè “un’ordinaria attività di polizia giudiziaria, posta in essere con l’ausilio di strumenti tecnici e accompagnata, nel caso in scrutinio, da attività di intercettazione ambientale”. L’attività di pedinamento elettronico non fa sorgere alcun obbligo di adozione di specifiche misure tecniche per la conservazione dei dati.
Per i motivi suddetti la Corte di Cassazione rigetta il ricorso, confermando la sentenza di condanna per tutti i reati in oggetto.
(Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, Sentenza 10 febbraio 2016, n.5550)
Nella sentenza in esame la Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso presentato da una serie di esponenti della squadra “volanti” della Questura di Rovigo, condannati in secondo grado dalla Corte d’Appello di Venezia per i delitti di abbandono di servizio con l’aggravante di aver cagionato interruzione del servizio, falso e truffa.
Nel caso specifico, gli imputati sono considerati rei di aver violato le disposizioni impartite dal loro dirigente, appartandosi per dormire nel corso del servizio di perlustrazione del territorio e rientrando anticipatamente in Questura senza giustificazione. È loro attribuito il delitto di falso per aver fornito dichiarazioni mendaci nelle “schede controlli” riepilogative dei turni di sorveglianza svolti. Inoltre, è loro addebitato il reato di truffa per avere, tramite la falsificazione delle predette “schede controlli”, conseguito una retribuzione ingiusta per il servizio non prestato.
Per quanto concerne il reato di abbandono di servizio, la Corte ha ricordato che costituisce abbandono di servizio anche la mancata prestazione dell’attività di sorveglianza nel caso in cui il soggetto sia rimasto presente in loco ma inerte o assorbito da altre attività. Relativamente all’aggravante dell’aver cagionato interruzione del servizio, la Corte ha affermato la sua piena configurabilità, sostenendo che: “proprio perché il servizio di vigilanza va considerato unitariamente, il venir meno di una o più condotte di sorveglianza compromette l’intero sistema, in quanto rappresenta una falla dello stesso”.
Relativamente al reato di truffa, la Corte, pur riconoscendo che non vi sia un rapporto sinallagmatico tra lo stipendio dell’appartenente alla polizia di Stato e la singola prestazione svolta, ha sottolineato come il reiterato sottrarsi agli obblighi lavorativi derivanti dal rapporto di servizio comporti certamente il conseguimento di un profitto ingiusto. Inoltre, dal momento che il profitto ingiusto è stato conseguito tramite falsificazioni delle “schede controlli” riepilogative del turno di sorveglianza, tutti i requisiti del reato di truffa possono dirsi pienamente integrati.
La questione delle “schede controlli” è emersa anche in merito all’addebito in capo ai ricorrenti del reato di falso; questi ultimi hanno, infatti, affermato che le “schede controlli” non costituiscono atto pubblico, ma semplicemente atto organizzativo di natura interna. La Corte di Cassazione, al contrario, ha ritenuto che ai fini della qualificazione giuridica del documento non rileva il fatto che questo non sia stato previsto dalla legge, in quanto: “il documento col quale gli appartenenti alla polizia di Stato danno atto del servizio svolto e dell’esito dello stesso è - e non può non essere - atto pubblico […] la cui compilazione costituisce uno specifico dovere d’ufficio” e, più avanti: “sostenere, per altro, che le disposizioni dei superiori gerarchici non abbiano natura vincolante costituisce una palese assurdità, tanto più se ci si riferisce ad un corpo di polizia con funzione di controllo del territorio e con compiti di prevenzione/repressione dei reati e di tutela dell’ordine pubblico”. Secondo la Corte, pertanto, può quindi correttamente dirsi che l’aver dichiarato lo svolgimento di servizi non effettuati in tali schede costituisce delitto di falso.
I ricorrenti hanno, inoltre, eccepito numerose lacune sotto il profilo probatorio. Nel caso di specie, le prove a carico degli imputati consistono in intercettazioni ambientali, tracciati GPS ed informazioni ottenute tramite il sistema Marathon che prevede la registrazione delle comunicazioni intervenute tra la centrale operativa e i singoli equipaggi attraverso le radio di bordo.
Per quanto attiene alle intercettazioni ambientali i ricorrenti lamentano la mancanza del requisito dell’assoluta indispensabilità delle stesse, in quanto l’analisi dei tracciati GPS dovrebbe essere già di per sé prova sufficiente. Sul punto la Corte di Cassazione ha affermato, al contrario, la piena necessità delle intercettazioni: il convincimento dei giudicanti si è infatti formato su di una “prova complessa”, in cui i vari mezzi di prova sono stati valutati globalmente e “nel loro reciproco completarsi”.
I ricorrenti eccepiscono, infine, la mancata adozione di misure tecniche idonee alla conservazione dei dati ottenuti tramite GPS. La Corte ha, però, statuito che le indagini svolte configurano un’attività di pedinamento elettronico, cioè “un’ordinaria attività di polizia giudiziaria, posta in essere con l’ausilio di strumenti tecnici e accompagnata, nel caso in scrutinio, da attività di intercettazione ambientale”. L’attività di pedinamento elettronico non fa sorgere alcun obbligo di adozione di specifiche misure tecniche per la conservazione dei dati.
Per i motivi suddetti la Corte di Cassazione rigetta il ricorso, confermando la sentenza di condanna per tutti i reati in oggetto.
(Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, Sentenza 10 febbraio 2016, n.5550)