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Gli incerti sviluppi della crisi in Libia e le perplessità per gli interessi italiani

Libia
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di Gianandre Gaiani

I recenti sviluppi della crisi libica hanno segnato un punto a favore della stabilizzazione con l’accordo tra i due contendenti che ha permesso la ripresa dell’export petrolifero (siglato grazie soprattutto all’opera del vicepresidente del Governo di accordo nazionale Ahmed Maitig – nella foto sotto con il ministro degli Esteri russo Sergei Labrov – ) indispensabile a garantire con i suoi proventi il ripristino dei servizi essenziali alle popolazioni sia della Tripolitania controllata dalle forze del GNA sia della Cirenaica e del Fezzan in mano alle forze dell’Esercito nazionale libico (LNA) del generale Khalifa Haftar.

Gli accordi degli ultimi giorni, quali la firma del cessate il fuoco permanente avvenuta a Ginevra il 23 ottobre e la convocazione oggi, in modalità videoconferenza del Forum di dialogo politico libico annunciata ieri dal rappresentante aggiunto dell’Onu in Libia (Unsmil), Stephanie Williams, suscitano invece qualche perplessità.

L’Unsmil ha confermato che il primo incontro del Forum in presenza si terrà il 9 novembre a Tunisi precisando che i 75 partecipanti sono stati scelti “sulla base dei principi di inclusività ed equa rappresentanza geografica, politica, economica e sociale” e ci saranno esponenti della Camera dei rappresentanti di Tobruk, dell’Alto consiglio di Stato di Tripoli e “attori politici libici importanti che non sono membri delle due istituzioni”.

Ciò nonostante da più parti in Libia sono state sollevate critiche circa la rappresentatività effettiva degli esponenti convocati dalla missione Onu: tra questi il comandante delle forze del GNA sul fronte di Sirte e al-Jufra, Ibrahim Baitlmal, altri esponenti di tribù e milizie della Tripolitania e del Fezzan

Come sottolinea l’agenzia di stampa Nova citando media arabi e in particolare l’emittente televisiva panaraba al-Arabiya (di proprietà saudita e con sede a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti), la lista di persone che partecipa al Forum ha ricevuto feroci critiche in Libia, aspetto “che costituisce un ostacolo che potrebbe interrompere l’ambizioso piano portato avanti dalle Nazioni Unite”.

La televisione pan-araba ha evidenziato che alcuni hanno criticato “la presenza delle stesse personalità che hanno causato la crisi, altri hanno puntato il dito contro i rappresentanti dei Fratelli musulmani, altri ancora si sono lamentati per l’assenza dei loro rappresentanti al posto di correnti che a loro dire non hanno alcuna influenza in Libia. In questo contesto, Zaidan Maatouq al-Zadma, uno dei partecipanti al dialogo indicati dalla missione Onu, ha annunciato il suo ritiro per la presenza di “alcune figure controverse che hanno causato sofferenze ai libici negli ultimi anni”, riferisce l’Agenzia Nova.

 

Il cessate il fuoco permanente

Se non stupisce che i settarismi in un paese profondamente tribale e in cui operano molte decine di milizie continuino ad ostacolare il processo di riconciliazione nazionale col rischio di compromettere ancora una volta gli sforzi della missione ONU, dubbi e perplessità emergono anche dall’accordo in 17 punti per il cessate il fuoco permanente firmato a Ginevra il 23 ottobre dal Comitato militare misto 5+5 (JMC) e basato sulla Risoluzione 2510 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Il GNA era rappresentato dal maggiore generale, Ahmed Ali Abu Shahma; dai generali di brigata Al Mukhtar Milad Mohammed Nakkassa e Al Fitouri Khalifa Salem e dai colonnelli Mustafa Ali Mohammed Yahya e Radwan Ibrahim Mohammed al Gharari.

Per l’LNA hanno firmato i maggior generali Emraja’a Emhammed Mohammed al Ammami, Faraj el Mabrouk Abdul Ghani Al-Soussa’a,  Attiya Awadh Mohamed Al-Sharif, Al-Hadi Hasan Ahmed Al-Falah e Khairi Khalifa Omar al Timimi.

Con Stephanie Williams, rappresentante speciale facente funzione del segretario generale delle Nazioni Unite e capo dell’Unsmil, c’erano Salim Raad capo del servizio delle istituzioni di sicurezza, Ayed Alhamad Khalayleh consigliere di polizia senior e Ali Kilkal del servizio delle istituzioni di sicurezza di Unsmil.

Nell’intesa GNA e LNA sottolineano l’integrità territoriale della Libia, la protezione dei confini e si impegnano ad astenersi dall’occupare le risorse del paese, a rinunciare alla propaganda reciprocamente ostile, a garantire la libertà di movimento lungo le strade principali (inclusa quella costiera) tra le “due libie” a combattere il terrorismo e a dar vita a una politica nazionale comune condivisa tra tutte le istituzioni politiche e di sicurezza dello Stato nel rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario.

Il cessate il fuoco è entrato in vigore con la firma dell’accordo ma le due forze libiche si impegnano a smobilitare e disarmare le milizie i cui membri verranno inseriti nelle strutture del futuro Stato libico e a costituire “una forza militare limitata” composta da truppe di GNA e LNA inquadrata in una “Sala operativa stabilita dal JMC 5+5 per prevenire le violazioni”.

 

L’improbabile ritiro delle forze straniere

Se quest’ultimo sembra essere un punto che potrebbe mostrare criticità, tenuto conto che soprattutto le forze di Tripoli sono composte da diverse milizie con comando autonomo, un altro punto potrebbe rivelarsi ancor più arduo da attuare.

L’intesa infatti prevede infatti all’Articolo 2 il ritiro dalla Libia entro tre mesi di tutti i combattenti e mercenari stranieri e la sospensione di tutti gli accordi di addestramento sottoscritti con altri Stati dal Governo di accordo nazionale (GNA) con sede a Tripoli e dall’Esercito nazionale libico (LNA) con quartier generale a Bengasi, finchè non vi sarà un nuovo governo.

Un aspetto delicato poiché sembra imporre a turchi, russi ed emiratini di ritirare le proprie forze, i mercenari e i consiglieri militari schierati nella ex colonia italiana di fatto pretendendo che le potenze egemoni oggi in Libia rinuncino alla loro presenza militare.

A supporto di Tripoli i turchi schierano centinaia di istruttori e consiglieri militari oltre a reparti di difesa aerea, velivoli (inclusi droni), unità navali e qualche migliaio di mercenari siriani.

A sostegno delle forze del generale Khalifa Haftar la Russia schiera, non ufficialmente, circa 3mila contractors della compagnia militare Wagner (che si sono da pochi giorni ritirati dalle installazioni petrolifere della “Mezzaluna” di Sidra e Ras Lanuf nel Golfo di Sirte) con una ventina di aerei da combattimento Mig e Sukhoi mentre gli Emirati Arabi uniti hanno inviato in Libia mercenari sudanesi e ciadiani oltre a disporre di aerei, droni ed elicotteri basati in Cirenaica.

Tra gli Stati che schierano forze militari in Libia l’accordo per il cessate il fuoco permanente è stato definito un “passo importante” dal portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova che ha auspicato un “dialogo politico globale e sostenibile, con l’obiettivo finale di ripristinare l’unità del Paese, creare organi di governo capaci e rilanciare la sua infrastruttura socioeconomica”.

Mosca però ha sempre negato di avere truppe in Libia dal momento che gli uomini e i velivoli (nella foto sopra) della Wagner appartengono a una società privata, circostanza duramente condannata soprattutto dagli Stati Uniti ma che indubbiamente consente alla Russia una maggiore autonomia e disinvoltura.

Improntata allo scetticismo la reazione della Turchia. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha sottolineato il basso livello dei funzionari militari del JMC che hanno firmato l’intesa di Ginevra. “L’accordo di cessate il fuoco non è stato raggiunto al massimo livello, ma a un livello inferiore e mi sembra manchi di credibilità” ha detto Erdogan azzardando un parallelo con l’accordo per il cessate il fuoco tra armeni e azeri in Nagorno Karabakh a cui hanno fatto seguito nuovi scontri che Ankara attribuisce a violazioni compiute dall’Armenia.

In realtà se l’’accordo mediato da Mosca per il cessate il fuoco tra armeni e azeri spiazza la Turchia affidando il negoziato di pace al Gruppo di Minsk (Russia, USA e Francia), quello per il cessate il fuoco in Libia rischia di imporre il ritiro delle truppe turche benché un accordo di cooperazione militare tra Ankara e Tripoli attribuisca ai militari turchi l’uso di basi aeree e navali in territorio libico che assicurano alla Turchia un ruolo di potenza nel Mediterraneo centro-orientale. Difficile credere che Erdogan sia pronto a rinunciarvi.

Non è un caso che Tripoli abbia già fatto notare che l’accordo di Ginevra non menziona il Trattato di cooperazione per la Sicurezza siglato con Ankara il 27 novembre 2019 in base al quale vie e legittimata la presenza militare turca in Tripolitania mentre, a scanso di equivoci, il ministro della Difesa del GNA, Salah Eddine al-Nimroush, ha dichiarato il 25 ottobre che il proprio governo non porrà fine alla cooperazione militare con la Turchia ma al contrario la rafforzerà soprattutto per quanto concerne i programmi di formazione e addestramento.

Paradossale poi che proprio oggi sia stato firmato a Doha dal ministro dell’Interno di Tripoli, Fathi Bashaga, un memorandum d’intesa per la cooperazione nella sicurezza e lotta al terrorismo tra GNA e Qatar.

Trattato che “viola i risultati del dialogo di Ginevra della commissione 5+5” ha affermato il portavoce dell’LNA, generale Ahmed al Mismari. Più che evidente quindi che sulla questione del ritiro delle forze straniere rischi di infrangersi il progetto di stabilizzare la Libia: senza ritiro turco neppure le forze russe ed emiratine che sostengono la Cirenaica si ritireranno.

Il limite degli sforzi della Unsmil appare insito nel tentativo di voler riunificare, almeno sulla carta, una Libia ormai saldamente divisa in due Stati diversi, con proprie strutture di potere e robusti sponsor e alleati internazionali.

Risulterebbe forse più proficuo prenderne atto e perseguire un piano che stabilizzi l’equa suddivisione degli introiti petroliferi tra GNA e LNA puntando sulle garanzie di pace che possono offrire Russia e Turchia, che indiscutibilmente hanno oggi un’influenza quasi egemonica nella ex colonia italiana e hanno tutto l’interesse a stabilizzare una situazione che consente a entrambe ampi vantaggi politici, economici e militari.

 

I rischi per l’Italia

A Roma nessuno sembra stranamente preoccuparsi di un aspetto che potrebbe avere conseguenze molto gravi. Il punto dell’accordo di Ginevra che prevede il ritiro delle forze straniere sembrerebbe riguardare anche l’Italia che in base alle recenti intese stipulate dal ministro Lorenzo Guerini a Tripoli nell’agosto scorso con il GNA dovrebbe contribuire ad addestrare le forze di Tripoli e che già da tempo schiera a Misurata una missione militare sanitaria e, nel porto tripolino di Abu Sitta, una missione della Marina Militare con una nave officina/trasporto costiero classe Gorgona (nella foto sotto) che assiste e addestra la Guardia costiera libica  occupandosi anche della manutenzione delle motovedette e coordinando le attività in mare contro i flussi di immigrati illegali diretti in Italia.

Il ruolo dei militari italiani in Libia non ha mai avuto nulla a che fare con gli scontri tra GNA e LNA ma va chiarito al più presto se la norma approvata a Ginevra abbia o meno un impatto sugli interessi nazionali e soprattutto sulla missione navale il cui ritiro non cambierebbe nulla nella gestione della crisi tra le fazioni libiche ma favorirebbe senza dubbio l’intensificarsi dei flussi di migranti illegali verso Lampedusa e la Sicilia indebolendo le capacità della Guardia costiera di Tripoli.

Per questo sorprende che nella reazione italiana alla firma dell’accordo di Ginevra, in cui Roma si associa al plauso espresso da quasi tutti gli Stati coinvolti nella crisi (Francia, Egitto, Ue, Russia, Germania…), non venga posta in evidenza questa evidente e concreta criticità.

Per il ministro degli Esteri Luigi Di Maio l’accordo di Ginevra rappresenta “un passaggio di grande rilievo per la sicurezza del nostro Paese e dell’intero Mediterraneo. Tripoli dista circa 250 chilometri in linea d’aria dalle nostre coste e la stabilizzazione della Libia è fondamentale per controllare i flussi migratori irregolari e combattere i gruppi terroristici che infestano il Sahel”.

Tutto vero ma se l’ONU pretendesse anche il ritiro della nostra missione navale di addestramento e cooperazione con la Guardia costiera libica la sicurezza dell’Italia in tema di flussi migratori illegali verrebbe ulteriormente compromessa invece che rafforzata.

 

I turchi addestrano la Guardia costiera libica

Il ruolo italiano in questo settore viene del resto messo a repentaglio anche dall’avvio, il 20 ottobre, del programma di addestramento della Guardia Costiera libica effettuato dalla Marina Turca (nelle foto che illustrano questo paragrafo) a bordo di due motovedette da 27 metri classe Corrubia donate dall’Italia a Tripoli e precedentemente appartenute alla Guardia di Finanza.

Le forze armate turche hanno un ampio programma di addestramento delle unità militari del GNA di Tripoli che coinvolge tutte le capacità (terrestri aeree e marittima) e quello della Guardia Costiera libica rientra quindi nel novero delle attività di supporto, consultazione e addestramento militare e di sicurezza incluse nell’accordo bilaterale del novembre 2019.

Finora l’attività di addestramento e sostegno finanziario e tecnico della Guardia Costiera di Tripoli è stato gestito dalla Marina Militare soprattutto con la missione ad Abu Sitta Fino all’anno scorso anche l’operazione navale europea Sophia effettuava in acque internazionali attività addestrative a favore della Guardia Costiera ma ora il crescente ruolo turco apre molti interrogativi, tutti preoccupanti per l’Italia e l’Europa.

Di fatto Ankara potrebbe disporre della prerogativa di decidere se ostacolare o meno i flussi migratori diretti verso la Sicilia. Per l’Italia, il cui governo ha colpevolmente pregiudicato la nostra influenza sulla Libia a suon di errori dilettanteschi, disattenzione e superficialità, l’arrivo dei turchi nell’addestramento e supervisione sulle attività della Guardia Costiera costituisce un serio campanello d’allarme.

Fonti della Difesa hanno fatto sapere che la cooperazione militare italiana continua a supporto delle forze libiche incluse quelle costiere ma non è chiaro se questa nuova missione turca avrà impatti su quella della nostra Marina ad Abu Sitta mentre è innegabile che oggi Tripoli dipenda direttamente dalle decisioni di Ankara che dal 2015 non lesina certo i ricatti all’Europa utilizzando proprio l’arma dei flussi migratori illeciti.

Anche tenendo conto che il ministro della Difesa del GNA, al-Nimroush, è legato a doppio filo alla Turchia, emerge chiaramente il rischio che sia Ankara a decidere se e a quali condizioni la missione Italia resti o meno ad Abu Sitta così come ha già imposto il trasferimento della missione militare sanitaria italiana a Misurata dall’aeroporto alla periferia della città.

Dopo “l’invasione” del 2015 che portò oltre un milione di migranti illegali dalla Turchia nel cuore dell’Europa attraverso la “rotta balcanica”, la Turchia ha continuato a mantenere un’elevata pressione migratoria sulla Ue, rilevabile anche dagli sbarchi sul litorale ionico calabrese ma soprattutto sulle isole greche e, all’inizio del 2020, sul confine terrestre ellenico “difeso” da polizia ed esercito di Atene.

Motivazioni valide ad alimentare la concreta preoccupazione che la Turchia possa domani utilizzare il controllo sulla Guardia Costiera libica per limitare o azzerare il controllo dei flussi diretti in Italia per esigenze politiche più vicine agli interessi di Ankara che di Tripoli.

Che in Libia comandino oggi i turchi lo ha compreso subito il governo maltese che il 6 agosto scorso ha firmato un accordo con Tripoli e Ankara per il contrasto ai flussi migratori illegali e il rafforzamento della Guardia Costiera libica.

Intesa con cui La Valletta riconosce implicitamente il ruolo di “potenza egemone” della Turchia in Libia mentre nell’accordo turchi e maltesi hanno sottolineato che la Ue dovrebbe contribuire attivamente alla lotta contro l’immigrazione illegale.

In base a tale accordo appare implicito che i migranti illegali intercettati nelle acque di competenza maltese per la ricerca e soccorso vengano consegnati alla Guardia Costiera di Tripoli e riportati in Libia.

Oltre agli accordi con Malta, vi sono altri elementi che sembrano indicare in realtà che Turchia e Libia intendano combattere la piaga dell’immigrazione illegale con una severità certo maggiore dei governi italiani degli ultimi anni che, salvo l’eccezione tra il 2018 e il 2019 ha incoraggiato i flussi e mostrato scarsa coerenza nei confronti della Libia.

Il ministero dell’Interno del GNA ha avviato in questi giorni pattugliamenti nell’entroterra della Tripolitania e nel deserto per contrastare i trafficanti di esseri umani.

Il capo della Direzione per la lotta alla migrazione illegale (Dcim), colonnello Al Mabrouk Abdel Hafeed, ha sottolineato che i pattugliamenti nel deserto rappresentano “un passo significativo nella lotta al fenomeno dell’immigrazione illegale”.

Non si può quindi escludere che turchi e libici contrastino il fenomeno dell’immigrazione illegale molto meglio di quanto fatto dalle ambigue e contraddittorie iniziative italiane. La visita a Roma, il 21 ottobre, del ministro dell’Interno libico, Fathi Bashaga, ha confermato la cooperazione con l’Italia in tema di immigrazione ma il GNA oggi risente troppo dell’influenza turca per poter garantire che anche in futuro continuerà a ostacolare i traffici di esseri umani come sta facendo ora.

Del resto sarà pure il caso di chiedersi quanto interesse abbia l’Italia (e la Ue) a dipendere totalmente dalla “buona volontà” di Ankara nel controllo dei flussi migratori illegali nel Mediterraneo.