x

x

I "contratti di convivenza"

In numerosi paesi europei è consentito alle coppie conviventi more uxorio di pianificare la vita in comune mediante la stipulazione di apposite convenzioni ("cohabitation contracts" o "contrats de mènage") dirette alla preventiva soluzione, in via negoziale, dei numerosi e complessi problemi patrimoniali della famiglia di fatto.

La giurisprudenza italiana non ha ancora affrontato direttamente l’argomento, sebbene non sia da escludere che alcuni contratti di convivenza siano, in realtà, effettivamente giunti all’esame dei giudici, celati sotto l’apparenza di contratti di mantenimento vitalizio.

E’ da chiarire, in via preliminare, che l’espressione "contratto di convivenza" non si riferisce agli accordi con cui due persone si impegnano a convivere more uxorio (i vincoli di carattere personale, infatti, sfuggono alla regolamentazione pattizia) bensì a quelle intese di contenuto patrimoniale che i conviventi possono concludere al fine di regolare i rispettivi rapporti economici.

Naturalmente le tipologie di intese immaginabili sono svariate, e innumerevoli sono le combinazioni delle medesime; ma, prima ancora di passare in rassegna i possibili contenuti di un "cohabitation contract" all’italiana, occorrerà fare un breve cenno ad alcuni temi di ordine generale, quali quelli del riflesso sui contratti di convivenza dell’obbigazione naturale esistente tra le parti, nonchè della validità di questi negozi sotto il profilo del buon costume e dell’ordine pubblico.

Il primo e più serio ostacolo alla configurabilità di un contratto di convivenza deriva dalla pacifica riconduzione dei doveri di reciproca assistenza e contribuzione tra conviventi allo schema delle obbligazioni naturali, cui il nostro ordinamento non riconosce il carattere della giuridicità.

L’articolo 2034 Codice Civile, infatti, esplicitamente esclude che i doveri morali e sociali in oggetto producano qualsiasi altro effetto giuridico al di là di quello della non ripetibilità di quanto eventualmente prestato.

Parte della giurisprudenza sostiene che un contratto avente ad oggetto l’assunzione come civile di un’obbligazione naturale costituirebbe, in buona sostanza, un negozio ricognitivo, ovvero novativo, di un debito giuridicamente inesistente e come tale sarebbe inammissibile, perchè tanto la ricognizione che la novazione presuppongono la validità del titolo costitutivo dell’originaria obbligazione.

Per parte della dottrina, tuttavia, la conclusione non può essere la stessa per quanto concerne la promessa contenuta in un contratto.

Quest’ultimo, infatti, ben può avere una sua causa autonoma rispetto all’obbligazione naturale sussistente tra le parti, anche se tramite lo stesso i contraenti raggiungano ugualmente lo scopo di dare esecuzione al dovere morale o sociale.

Il risultato può essere ottenuto ponendo la prestazione oggetto dell’obbligazione naturale in corrispondenza biunivoca con un’altra prestazione, di natura reale o obbligatoria, ovvero con un’altra obbligazione naturale.

Il negozio verrebbe così ad assumere una sua causa autonoma, consistente nello scambio di due sacrifici reciproci, mentre, rispetto a tale schema, la volontà di adempiere il preesistente dovere morale o sociale degraderebbe al rango di semplice motivo.

La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che i contratti in forza dei quali i coviventi more uxorio regolano l’assetto dei loro rapporti patrimoniali sono da considerare validi in quanto contratti atipici, ai sensi dell’articolo 1322 Codice Civile, sempre che perseguano interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico e non contrastino con norme imperative, con l’ordine pubblico o il buon costume (Cass. n. 6381/93).

La Suprema Corte, inoltre, ha affermato che la convivenza more uxorio, almeno tra persone in stato libero, non costituisce causa di illiceità e, quindi, di nullità, del contratto attributivo di diritti patrimoniali collegato a detta relazione, atteso che la stessa non contrasta nè con norme imperative, nè con l’ordine pubblico e il buon costume, rilevando, al contrario, nel vigente ordinamento, per l’attribuzione della potestà genitoriale ex articolo 317-bis Codice Civile ed essendo fondata sugli stessi sentimenti e affetti caratteristici dell’unione coniugale, se stabile e duratura (Cass. n. 4476/76).

La soluzione vanta l’autorevole avallo della Corte Costituzionale che, nella sentenza n. 404 del 07.04.98 ha indirettamente riconosciuto come meritevoli di tutela le intese di contenuto patrimoniale dirette a regolare gli aspetti economici della famiglia di fatto.

La Consulta, investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 Legge n. 392/78, norma che individua i soggetti legittimati a succedere nel rapporto di locazione in caso di morte del conduttore o di sua separazione personale, ha dichiarato l’illegittimità della disposizione non solo nella parte in cui escludeva il convivente more uxorio dal novero di tali soggetti, ma anche nella parte in cui non prevedeva la successione, rispetto al conduttore nel rapporto locatizio, del partner separato, se tra i due si fosse così convenuto. 

La ratio della disposizione, infatti, sarebbe da rinvenire nella tutela di chiunque si trovi in una situazione di abituale convivenza con il locatario.

La pronuncia, dunque, contiene non solo un implicito apprezzamento positivo verso un accordo tra i conviventi diretto all’attribuzione ad uno solo di essi del diritto di godimento sulla casa "paraconiugale", ma addirittura la consacrazione di una sua rilevanza esterna, nei confronti del locatore.

Su un piano più generale si può dire che essa rappresenta un punto a favore della tesi che ritiene meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico una convenzione diretta a regolamentare gli aspetti economici dela famiglia di fatto.

Il discorso vale non solo per l’attribuzione del diritto di abitazione in quella che era la comune residenza, ma anche per altri e più sostanziosi profili, quali l’obbligo di contribuzione o il regime dei beni.

Anche riguardo a siffatte clausole eventuali dubbi in punto di meritevolezza di tutela sembrano superabili sulla base della considerazione che degna di protezione appare ogni pattuizione la quale si prefigga di evitare liti future o di fornire un minimo di sicurezza economica al partner "debole".

Pertanto, sia sotto il profilo della genarale validità che sotto quello più specifico del contenuto delle clausole, i contratti di convivenza devono ritenersi legittimi quando dagli stessi emerga chiaramente l’intento primario delle parti di garantire reciprocamente il proprio futuro dal punto di vista economico.

Ma quali sono, in concreto, i singoli rapporti patrimoniali che possono formare oggetto di regolamentazione negoziale?

La dottrina si è soffermata, in particolare, sull’ammissibilità delle pattuizioni relative:

- alla previsione di un dovere reciproco di contribuzione al menage "parafamiliare";

- alla riproduzione in via negoziale di un regime analogo a quello della comunione legale tra i coniugi;

- alla fissazione delle conseguenze economiche derivanti dalla cessazione dell’unione, per rottura del rapporto e per morte del convivente.

Quanto alla validità di un impegno reciproco di contribuzione non sembra potersi dubitare, in considerazione dei valori solidaristici e affettivi sottesi alla convivenza, con conseguente applicabilità, in caso di inadempimento, degli articoli 1460 e 1461 Codice Civile.

La validità del patto in questione non sarebbe intaccata, peraltro, neanche dalla eventuale previsione di una misura "aggravata" di contribuzione a carico di uno dei partner, che risultebbe giustificata dall’autonomia negoziale delle parti e dalla non assoggettabilità della convivenza ai doveri propri del matrimonio (ai sensi dell’articolo 143 Codice Civile, infatti, i coniugi hanno l’obbligo di contribuire in pari misura ai bisogni della famiglia).

In via di principio può ritenersi anche ammissibile la predisposizione, in via contrattuale, di un meccanismo di acquisto dei beni immobili analogo a quello dettato dall’articolo 177 lett. a Codice Civile.

Tuttavia, l’effetto non potrebbe consistere in una riproduzione dell’istituto della comunione legale nella sua interezza.

L’accordo delle parti, infatti, vale a costituire un regime di comunione ordinaria e non legale, come tale privo delle conseguenze "esterne" tipiche di quest’ultima, quali l’opponibilità ex lege della proprietà comune nei confronti dei terzi e l’annullabilità degli atti compiuti senza il necessrio consenso dell’altro ex articolo 184 Codice Civile.

Per la stessa ragione, inoltre, l’acquisto separato di un bene ad opera di un convivente non potrebbe operare automaticamente a favore dell’altro (risultando necessario un successivo trasferimento del diritto in capo al convivente non acquirente) nè, in difetto di una specifica previsione, potrebbero ritenersi esclusi dal regime così concordato, i beni personali indicati dall’articolo 179 Codice Civile, trattandosi di norma dettata in materia di rapporti patrimoniali tra coniugi.

Altrettanto valida può ritenersi la promessa dell’effettuazione di prestazioni di carattere economico per il periodo successivo alla rottura della convivenza se giustificata da finalità solidaristiche o assistenziali.

In particolare, l’obbligo potrebbe essere modellato su quello che deriverebbe da una separazione coniugale, purchè lo stesso  abbia come presupposto lo stato di bisogno dell’ex convivente e sia teso, dunque, a predisporre una forma di "soccorso" economico per il partner debole.

Il patto sarebbe nullo, al contrario, ove l’intento delle parti fosse quello di predisporre uno strumento di dissuasione per il convivente intenzionato a porre fine al menage, poichè in tal caso si andrebbe a sanzionare la libertà di scelta del partner.

Con riguardo, infine, alla previsione relativa all’attribuzione del diritto di abitazione sulla casa "paraconiugale", occorre distinguere.

La clausola è da ritenersi valida se prevista per l’ipotesi di rottura della convivenza, in quanto potrebbe configurasi alternativamente, in capo all’altro partner, o un diritto reale di abitazione (come tale opponibile ai terzi ex articolo 2643 n. 4 Codice Civile) ovvero un comodato, sotto condizione sospensiva della rottura del rapporto.

La previsione sarebbe nulla, invece, se effettuata con riferimento alla fattispecie della morte di uno dei conviventi, atteso che la stessa integrerebbe un patto successorio di tipo "istitutivo" vietato a norma dell’articolo 458 Codice Civile.

In numerosi paesi europei è consentito alle coppie conviventi more uxorio di pianificare la vita in comune mediante la stipulazione di apposite convenzioni ("cohabitation contracts" o "contrats de mènage") dirette alla preventiva soluzione, in via negoziale, dei numerosi e complessi problemi patrimoniali della famiglia di fatto.

La giurisprudenza italiana non ha ancora affrontato direttamente l’argomento, sebbene non sia da escludere che alcuni contratti di convivenza siano, in realtà, effettivamente giunti all’esame dei giudici, celati sotto l’apparenza di contratti di mantenimento vitalizio.

E’ da chiarire, in via preliminare, che l’espressione "contratto di convivenza" non si riferisce agli accordi con cui due persone si impegnano a convivere more uxorio (i vincoli di carattere personale, infatti, sfuggono alla regolamentazione pattizia) bensì a quelle intese di contenuto patrimoniale che i conviventi possono concludere al fine di regolare i rispettivi rapporti economici.

Naturalmente le tipologie di intese immaginabili sono svariate, e innumerevoli sono le combinazioni delle medesime; ma, prima ancora di passare in rassegna i possibili contenuti di un "cohabitation contract" all’italiana, occorrerà fare un breve cenno ad alcuni temi di ordine generale, quali quelli del riflesso sui contratti di convivenza dell’obbigazione naturale esistente tra le parti, nonchè della validità di questi negozi sotto il profilo del buon costume e dell’ordine pubblico.

Il primo e più serio ostacolo alla configurabilità di un contratto di convivenza deriva dalla pacifica riconduzione dei doveri di reciproca assistenza e contribuzione tra conviventi allo schema delle obbligazioni naturali, cui il nostro ordinamento non riconosce il carattere della giuridicità.

L’articolo 2034 Codice Civile, infatti, esplicitamente esclude che i doveri morali e sociali in oggetto producano qualsiasi altro effetto giuridico al di là di quello della non ripetibilità di quanto eventualmente prestato.

Parte della giurisprudenza sostiene che un contratto avente ad oggetto l’assunzione come civile di un’obbligazione naturale costituirebbe, in buona sostanza, un negozio ricognitivo, ovvero novativo, di un debito giuridicamente inesistente e come tale sarebbe inammissibile, perchè tanto la ricognizione che la novazione presuppongono la validità del titolo costitutivo dell’originaria obbligazione.

Per parte della dottrina, tuttavia, la conclusione non può essere la stessa per quanto concerne la promessa contenuta in un contratto.

Quest’ultimo, infatti, ben può avere una sua causa autonoma rispetto all’obbligazione naturale sussistente tra le parti, anche se tramite lo stesso i contraenti raggiungano ugualmente lo scopo di dare esecuzione al dovere morale o sociale.

Il risultato può essere ottenuto ponendo la prestazione oggetto dell’obbligazione naturale in corrispondenza biunivoca con un’altra prestazione, di natura reale o obbligatoria, ovvero con un’altra obbligazione naturale.

Il negozio verrebbe così ad assumere una sua causa autonoma, consistente nello scambio di due sacrifici reciproci, mentre, rispetto a tale schema, la volontà di adempiere il preesistente dovere morale o sociale degraderebbe al rango di semplice motivo.

La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che i contratti in forza dei quali i coviventi more uxorio regolano l’assetto dei loro rapporti patrimoniali sono da considerare validi in quanto contratti atipici, ai sensi dell’articolo 1322 Codice Civile, sempre che perseguano interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico e non contrastino con norme imperative, con l’ordine pubblico o il buon costume (Cass. n. 6381/93).

La Suprema Corte, inoltre, ha affermato che la convivenza more uxorio, almeno tra persone in stato libero, non costituisce causa di illiceità e, quindi, di nullità, del contratto attributivo di diritti patrimoniali collegato a detta relazione, atteso che la stessa non contrasta nè con norme imperative, nè con l’ordine pubblico e il buon costume, rilevando, al contrario, nel vigente ordinamento, per l’attribuzione della potestà genitoriale ex articolo 317-bis Codice Civile ed essendo fondata sugli stessi sentimenti e affetti caratteristici dell’unione coniugale, se stabile e duratura (Cass. n. 4476/76).

La soluzione vanta l’autorevole avallo della Corte Costituzionale che, nella sentenza n. 404 del 07.04.98 ha indirettamente riconosciuto come meritevoli di tutela le intese di contenuto patrimoniale dirette a regolare gli aspetti economici della famiglia di fatto.

La Consulta, investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 Legge n. 392/78, norma che individua i soggetti legittimati a succedere nel rapporto di locazione in caso di morte del conduttore o di sua separazione personale, ha dichiarato l’illegittimità della disposizione non solo nella parte in cui escludeva il convivente more uxorio dal novero di tali soggetti, ma anche nella parte in cui non prevedeva la successione, rispetto al conduttore nel rapporto locatizio, del partner separato, se tra i due si fosse così convenuto. 

La ratio della disposizione, infatti, sarebbe da rinvenire nella tutela di chiunque si trovi in una situazione di abituale convivenza con il locatario.

La pronuncia, dunque, contiene non solo un implicito apprezzamento positivo verso un accordo tra i conviventi diretto all’attribuzione ad uno solo di essi del diritto di godimento sulla casa "paraconiugale", ma addirittura la consacrazione di una sua rilevanza esterna, nei confronti del locatore.

Su un piano più generale si può dire che essa rappresenta un punto a favore della tesi che ritiene meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico una convenzione diretta a regolamentare gli aspetti economici dela famiglia di fatto.

Il discorso vale non solo per l’attribuzione del diritto di abitazione in quella che era la comune residenza, ma anche per altri e più sostanziosi profili, quali l’obbligo di contribuzione o il regime dei beni.

Anche riguardo a siffatte clausole eventuali dubbi in punto di meritevolezza di tutela sembrano superabili sulla base della considerazione che degna di protezione appare ogni pattuizione la quale si prefigga di evitare liti future o di fornire un minimo di sicurezza economica al partner "debole".

Pertanto, sia sotto il profilo della genarale validità che sotto quello più specifico del contenuto delle clausole, i contratti di convivenza devono ritenersi legittimi quando dagli stessi emerga chiaramente l’intento primario delle parti di garantire reciprocamente il proprio futuro dal punto di vista economico.

Ma quali sono, in concreto, i singoli rapporti patrimoniali che possono formare oggetto di regolamentazione negoziale?

La dottrina si è soffermata, in particolare, sull’ammissibilità delle pattuizioni relative:

- alla previsione di un dovere reciproco di contribuzione al menage "parafamiliare";

- alla riproduzione in via negoziale di un regime analogo a quello della comunione legale tra i coniugi;

- alla fissazione delle conseguenze economiche derivanti dalla cessazione dell’unione, per rottura del rapporto e per morte del convivente.

Quanto alla validità di un impegno reciproco di contribuzione non sembra potersi dubitare, in considerazione dei valori solidaristici e affettivi sottesi alla convivenza, con conseguente applicabilità, in caso di inadempimento, degli articoli 1460 e 1461 Codice Civile.

La validità del patto in questione non sarebbe intaccata, peraltro, neanche dalla eventuale previsione di una misura "aggravata" di contribuzione a carico di uno dei partner, che risultebbe giustificata dall’autonomia negoziale delle parti e dalla non assoggettabilità della convivenza ai doveri propri del matrimonio (ai sensi dell’articolo 143 Codice Civile, infatti, i coniugi hanno l’obbligo di contribuire in pari misura ai bisogni della famiglia).

In via di principio può ritenersi anche ammissibile la predisposizione, in via contrattuale, di un meccanismo di acquisto dei beni immobili analogo a quello dettato dall’articolo 177 lett. a Codice Civile.

Tuttavia, l’effetto non potrebbe consistere in una riproduzione dell’istituto della comunione legale nella sua interezza.

L’accordo delle parti, infatti, vale a costituire un regime di comunione ordinaria e non legale, come tale privo delle conseguenze "esterne" tipiche di quest’ultima, quali l’opponibilità ex lege della proprietà comune nei confronti dei terzi e l’annullabilità degli atti compiuti senza il necessrio consenso dell’altro ex articolo 184 Codice Civile.

Per la stessa ragione, inoltre, l’acquisto separato di un bene ad opera di un convivente non potrebbe operare automaticamente a favore dell’altro (risultando necessario un successivo trasferimento del diritto in capo al convivente non acquirente) nè, in difetto di una specifica previsione, potrebbero ritenersi esclusi dal regime così concordato, i beni personali indicati dall’articolo 179 Codice Civile, trattandosi di norma dettata in materia di rapporti patrimoniali tra coniugi.

Altrettanto valida può ritenersi la promessa dell’effettuazione di prestazioni di carattere economico per il periodo successivo alla rottura della convivenza se giustificata da finalità solidaristiche o assistenziali.

In particolare, l’obbligo potrebbe essere modellato su quello che deriverebbe da una separazione coniugale, purchè lo stesso  abbia come presupposto lo stato di bisogno dell’ex convivente e sia teso, dunque, a predisporre una forma di "soccorso" economico per il partner debole.

Il patto sarebbe nullo, al contrario, ove l’intento delle parti fosse quello di predisporre uno strumento di dissuasione per il convivente intenzionato a porre fine al menage, poichè in tal caso si andrebbe a sanzionare la libertà di scelta del partner.

Con riguardo, infine, alla previsione relativa all’attribuzione del diritto di abitazione sulla casa "paraconiugale", occorre distinguere.

La clausola è da ritenersi valida se prevista per l’ipotesi di rottura della convivenza, in quanto potrebbe configurasi alternativamente, in capo all’altro partner, o un diritto reale di abitazione (come tale opponibile ai terzi ex articolo 2643 n. 4 Codice Civile) ovvero un comodato, sotto condizione sospensiva della rottura del rapporto.

La previsione sarebbe nulla, invece, se effettuata con riferimento alla fattispecie della morte di uno dei conviventi, atteso che la stessa integrerebbe un patto successorio di tipo "istitutivo" vietato a norma dell’articolo 458 Codice Civile.