Occupazioni abusive: una guerra giuridica di tutti contro tutti
Notava Francesco Santoro Passarelli (“Proprietà”, in Enciclopedia del Novecento) che «per il giurista tutto è diventato incerto, come incerta è diventata la sorte della proprietà in ciascuna delle società contemporanee». Si tratta di un’osservazione di grande lungimiranza, che accosta – in modo insieme singolare ed efficace – il problema della certezza del diritto al tema della certezza di un diritto, quello di proprietà.
Il trattamento riservato al diritto di proprietà rappresenta una cartina al tornasole per la valutazione dei rapporti tra individuo e potere pubblico: l’intensità e le modalità con cui uno Stato può disporre di ciò che è nostro segnano il confine tra l’essere cittadini di una società libera e lo scoprirsi sudditi di qualche “benevolo” sovrano.
Peraltro, la proprietà individuale non è minacciata solo dalle dirette ingerenze “pubbliche”, ma anche dall’incapacità delle istituzioni di garantire il rispetto delle situazioni di appartenenza tra privati: si pensi, in proposito, alle occupazioni di immobili c.d. abusive o arbitrarie (per un maggior approfondimento sul tema, ci permettiamo di rimandare al nostro “Proprietari per caso”, in Noi e lo Stato, IBL edizioni, 2019).
Rispetto a questo fenomeno è possibile, fin da subito, mettere in rilievo uno storico atteggiamento di tolleranza dell’illecito – pur penalmente sanzionato ex articolo 633 Codice Penale – da parte del potere sia politico che giudiziario: e ciò si comprende alla luce della svalutazione che il diritto di proprietà ha subito nella nostra cultura, giuridica prima ancora che sociale.
Negli ultimi anni, però, qualcosa sembra essere cambiato, e ne dà testimonianza un indirizzo giurisprudenziale che, originato dal Tribunale di Roma (sentenze nn. 21347/2017 e 14924/2018), si è fatto strada sino all’approvazione da parte della Suprema Corte di cassazione (con la sentenza n. 24198/2018). Con queste sentenze, i giudici hanno ritenuto configurabile una responsabilità risarcitoria (ex art. 2043 c.c.) della pubblica amministrazione che sia rimasta inerte di fronte alla lesione del diritto di proprietà individuale.
In particolare, la Corte di cassazione ha condannato il ministero dell’Interno al risarcimento dei danni patiti da due società fiorentine a seguito dell’occupazione abusiva di una cinquantina di appartamenti di loro proprietà.
In questo modo, il livello più alto della giurisdizione ordinaria ha solennemente riaffermato l’importanza della garanzia dei diritti di proprietà e dell’inestinguibile dovere dello Stato di attivarsi al massimo delle proprie capacità al fine di assicurare questa tutela.
Convenuto in giudizio, il Viminale aveva tentato di giustificare la propria inerzia facendo leva su asserite esigenze di “ordine pubblico”: benché la Corte d’appello territoriale avesse ritenuto che la P.A., chiamata a dare esecuzione a un provvedimento giudiziario di sgombero, godesse della facoltà di scegliere se e quando darvi attuazione, gli ermellini – con ampia e ragionata digressione sulla costante giurisprudenza in materia – hanno invece ribadito che una simile discrezionalità non è assolutamente ipotizzabile. Piuttosto, ha argomentato la Suprema Corte,
tollerare il crimine, per di più commesso da masse organizzate ed agguerrite in pregiudizio di cittadini indifesi, è una ben strana forma di tutela dell’ordine pubblico: questo si tutela ripristinando la legalità violata, e non già assicurando al reo, per sei anni, il godimento del frutto del reato; nessuna comparazione o bilanciamento di interessi è consentito alla P.A., quando vengano in conflitto l’interesse accampato da chi ha violato la legge (l’occupante abusivo), e chi l’ha rispettata (il proprietario dell’immobile occupato); sicché è impensabile che per ragioni di ordine pubblico si possa dare preferenza al primo.
A un certo punto, è sembrato che l’amministrazione pubblica avesse ormai preso atto degli effetti dell’orientamento giurisprudenziale in commento.
Il ministero dell’Interno ha, infatti, emesso una circolare (n. 11001/123/111 del 01.09.2018) con cui ha invitato i prefetti ad «attendere agli sgomberi con la dovuta tempestività, rinviando alla fase successiva ogni valutazione in merito alla tutela delle altre istanze», nella consapevolezza che «il diritto di proprietà [può recedere] limitatamente ed esclusivamente a fronte di quelle situazioni che possono pregiudicare l’esercizio da parte degli occupanti degli impellenti e irrinunciabili bisogni primari per la loro esistenza, collegati a una particolare condizione di vulnerabilità».
Purtroppo, però, quella che sembrava un’inversione di marcia ha subito una rapida correzione, con conseguente ripristino del deludente status quo ante.
Si veda, in proposito, la disciplina introdotta dal decreto n. 113/2018 (c.d. “sicurezza”), convertito con la legge n. 132/2018, e, in specie, dal suo art. 31 ter, con cui il governo ha provato a mettersi al riparo dagli elevati risarcimenti cui potrebbe essere nel futuro condannato, sulla scia di quanto già deciso dai tribunali nelle sentenze summenzionate.
Ma lo ha fatto nel modo peggiore: non con la prevenzione (e quindi sia tutelando il diritto di proprietà che predisponendo politiche assistenziali per chi è veramente in difficoltà), né con l’esecuzione degli «sgomberi con la dovuta tempestività» (come pure si esprimeva la circolare del ministero degli Interni), ma con l’introduzione di una causa di esclusione della responsabilità risarcitoria della P.A. (che sembra presentare qualche profilo di dubbia legittimità costituzionale) e la limitazione della misura del ristoro dovuto al proprietario a quella di una mera indennità (da liquidare secondo equità, tenuto conto dell’«eventuale fatto colposo del proprietario nel non aver impedito l’occupazione»).
È indubbio che la cronica incapacità del legislatore di far fronte al problema delle occupazioni abusive o arbitrarie di immobili abbia avuto quale conseguenza l’esplosione di una sempre più accentuata conflittualità tra chi vede lesi i propri diritti costituzionalmente garantiti e chi quelle lesioni perpetra con la giustificazione dello stato di necessità e di bisogno, così facendosi scudo delle inefficienze e dei ritardi del law enforcement.
Una vera e propria «guerra giuridica di tutti contro tutti» (facendo nostra l’espressione di Bruno Leoni, La libertà e la legge, Liberilibri, 1995), che si combatte tra le aule giudiziarie e quelle parlamentari: con la precisione, però, recentemente ribadita dalla Cassazione, della non equivalenza delle parti in contrasto (l’una che ha il diritto di vedersi protetta, l’altra che ha violato il generale dovere di neminem laedere).
D’altronde, l’incapacità dei poteri dello Stato di assumere una posizione netta sul punto deriva proprio dalla consapevolezza dell’emergenza “sociale” che le masse dei “senza tetto” rappresentano e a cui – per un misto di insipienza e ignavia – si è voluto dare risposta scaricando i costi “sociali” dell’assenza di adeguate politiche assistenziali sulle spalle o di altri bisognosi (che sono stati così “scavalcati” da chi occupava posizioni più basse nelle graduatorie di assegnazione dell’edilizia popolare) o di proprietari individuali.
Per troppo tempo, purtroppo, i tribunali hanno avallato questo andazzo: ma qualcosa sta cambiando, anche nel potere che «non ha forza né volontà, ma soltanto giudizio» (citando Alexander Hamilton, “Il Federalista n. 78”, in Il Federalista, il Mulino, 1997).
E se è vero che, come una rondine solitaria, anche le decisioni di un solo tribunale non sono necessariamente annuncio di nuova e più felice stagione, è altrettanto vero che perfino la Suprema Corte di cassazione ha pronunciato parole cristalline sul tema: c’è da augurarsi, quindi, che l’orientamento di merito seguito dalle pronunce dei giudici di Roma – e consacrato al più alto livello della giurisdizione ordinaria – possa presto estendersi al resto del territorio nazionale.