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I “discorsi d’odio” nella visione del giudice penale di legittimità

Nota a Corte di Cassazione, sez. VI, sentenza n. 33414/2020

The "hate speeches" in view of the criminal judge of legitimacy: note to the Court of Cassation, section VI, sentence no. 33414/2020
Siamo (noi) la più grande tempesta
Ph. Paolo Panzacchi / Siamo (noi) la più grande tempesta

Abstract

La sentenza annotata rappresenta una delle rare occasioni in cui la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata circa un caso di “discorso d’odio”. In questo frangente, la Suprema Corte ha ribadito l’orientamento, consolidatosi negli anni recenti, secondo il quale il reato di “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa” di cui all’art. 604-bis, comma 1 lett. a, cod. pen. non è integrato dalla manifestazione di ostile disprezzo nei confronti di un determinato gruppo etnico se questa è fondata sui comportamenti tenuti da suoi componenti. Il presente contributo, partendo dalle motivazioni della sentenza e dagli elementi costitutivi del reato, si concentra sull’ermeneutica giurisprudenziale della fattispecie, dando conto delle perplessità sorte in dottrina circa l’indirizzo assunto dalla Corte.  

The judgment noted is one of the rare occasions on which the Italian jurisprudence of legitimacy has spoken about a case of “hate speech”. At this juncture, the Supreme Court reaffirmed the orientation, consolidated in recent years, according to which the crime of “Propaganda and incitement to commit crime on grounds of racial and ethnic and religious discrimination” referred to in art. 604-bis, 1st comma, lett. A of the Italian Criminal Code is not supplemented by the manifestation of hostile contempt towards a given ethnic group if it is based on the behavior of its members. The present contribution, starting from the grounds of the judgment and the elements constituting the crime, focuses on the jurisprudential hermeneutic of the case, giving account of the doubts raised by the doctrine about the direction taken by Court.

 

Sommario

1.  Il caso di specie

2. L’evoluzione giurisprudenziale in materia di propaganda a sfondo razziale nel diritto interno

2.1. La decisione della Sesta Sezione: il vaglio in ordine agli elementi costitutivi del reato

2.1.1. La propaganda di idee alla luce della giurisprudenza dominante

2.1.2.  L’odio etnico o razziale e il pericolo concreto di comportamenti discriminatori

2.1.3. La discriminazione razziale tra qualità e comportamenti della vittima

2.2. La Giurisprudenza della Corte EDU in materia di hate speech

3. Incitamento all’odio e propaganda: necessità e limiti ermeneutici del raffronto tra fattispecie italiana e tedesca

4. Un ulteriore passo verso il superamento dei reati d’opinione

5. L’elefante nella stanza: “comportamenti” o pregiudizi?

 

Summary

1. The present case

2. Developments in the case law on racial propaganda in national law

2.1. The decision of the Sixth Section: the examination of the constituent elements of the offence

2.1.1. Propaganda of ideas in the light of dominant jurisprudence

2.1.2. Ethnic or racial hatred and the effective danger of discriminatory behaviour

2.1.3. Racial discrimination between quality and behaviour of the victim

2.2. The ECHR case-law on hate speech

3. Incitement to hatred and propaganda: necessity and hermeneutical limits of the comparison between Italian and German law

4. A further step towards overcoming opinion crimes

5. The elephant in the room: “behaviours” or prejudices?

 

1.  Il caso di specie

Il 20 novembre 2020 è stata depositata presso la VI Sezione Penale della Corte di Cassazione la sentenza n. 33414, con la quale la Suprema Corte si è pronunciata su un caso di c.d. crimini d’odio[1].

Il fatto ha implicazioni complesse, poiché avvenuto in Germania e reso oggetto di giudizio di punibilità anche presso le Corti italiane, di merito prima e di legittimità poi, per le ragioni che si esporranno.

P. G., cittadino tedesco, si era reso colpevole in patria del reato di “incitamento all’odio”[2], a seguito dell’affermazione, pronunciata in stato di ubriachezza su di un vagone ferroviario: “Farò anch’io come fanno questi asociali, ogni anno un figlio. Vivrò di assegni familiari”[3], riferendosi ad alcuni individui, tra i presenti, dai tratti somatici arabo-turchi.

A seguito di tale episodio, il Tribunale di Monaco di Baviera lo aveva condannato, con sentenza divenuta irrevocabile in data 9 aprile 2019, a sei mesi di reclusione per il reato ascritto. Per sfuggire alla pena inflitta, P. G. aveva lasciato la Germania ed era stato così emesso nei suoi confronti un mandato d’arresto europeo (da qui in avanti MAE)[4]. Da latitante, nascosto da un alias, era infine giunto in Italia, in provincia di Trento, dove è stato rintracciato e arrestato il 17 agosto dello scorso anno.

Riguardo al MAE, la normativa di riferimento è costituita dalla l. n. 69 del 2005[5], al cui art. 7 è enunciato il principio-cardine dell’intera disciplina: il requisito della “doppia punibilità”[6], secondo il quale il fatto posto in essere dal destinatario del MAE deve essere punito come reato tanto nello Stato di esecuzione, quanto nello Stato emittente il MAE[7]. Autorevole giurisprudenza nazionale ed europea ha chiarito che – al fine di soddisfare la predetta condizione – non occorre un’esatta corrispondenza dello schema astratto della norma incriminatrice straniera con quella dell’ordinamento interno, essendo sufficiente che la condotta sia punibile, in quanto tale, in entrambi gli ordinamenti[8], a nulla rilevando l’eventuale diversità, oltre che del trattamento sanzionatorio, anche del nomen iuris e di tutti gli elementi richiesti per la configurazione del reato[9].

La competenza a dare esecuzione a un MAE, e dunque a porre in essere tale valutazione circa la doppia incriminabilità della condotta, appartiene alla Corte d’Appello nel cui distretto l’imputato o il condannato ha la residenza, la dimora o il domicilio nel momento in cui il provvedimento è ricevuto dall’autorità giudiziaria[10]. Così, con sentenza del 30 settembre 2020, la Corte d’Appello di Trento aveva dichiarato sussistenti le condizioni per la consegna di P. G. alla A.G. tedesca, ritenendo che il fatto integrasse la fattispecie di reato di cui all’art. 604-bis comma 1 lett. a, cod. pen. Italiano, rubricato “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”, e avvalorando la ricorrenza del requisito della doppia incriminabilità ai sensi dell’art. 7 comma 1 della l. n. 69/2005.

Avverso il provvedimento che decide sulla consegna della persona interessata dal mandato d’arresto, l’art. 22 del medesimo testo di legge prevede la possibilità di presentare ricorso per Cassazione – eccezionalmente, anche in ordine alle questioni di merito – e in questo senso ha agito P. G. presso la Suprema Corte italiana. Il ricorrente, impugnando la pronuncia della Corte territoriale, ha invocato la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 604-bis cod. pen. e dell’art. 7 I. 69/2005, nonché la carenza di motivazione in ordine agli elementi costitutivi del reato. Il Pubblico Ministero, con requisitoria scritta, ha contestualmente chiesto il rigetto del ricorso, condividendo la ricorrenza della doppia punibilità sancita dalla sentenza impugnata.

 

2. L’evoluzione giurisprudenziale in materia di propaganda a sfondo razziale nel diritto interno

È opportuno premettere che le pronunce di legittimità riguardanti il delitto in esame sono state e continuano ad essere, a distanza di quindici anni dall’ultima novellazione, piuttosto esigue, sebbene siano andate aumentando contestualmente all’aumento dei flussi di migranti in ingresso nel nostro Paese e all’esacerbazione del dibattito pubblico sul tema dell’accoglienza di cittadini stranieri. Non va dimenticato che il fenomeno dei crimini d’odio comprende un’area significativa di sommerso, che nasconde una fenomenologia criminale assai più ampia[11].

Il delitto di cui al 604-bis comma 1 lett. a è una fattispecie sulla cui evoluzione il formante giurisprudenziale ha avuto quasi altrettanta influenza rispetto al formante legislativo[12]; per meglio comprenderne la portata, si procede qui all’individuazione di tre fasi storiche significative:

Un primo orientamento si è sviluppato tra il 1975 e il 2006, nel contesto normativo che va dall’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 3 comma 1 della l. n. 654 (c.d. legge Reale[13]), fino all’ approvazione della l. n. 85 del 2006, recante “Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione[14]“. L’allora art. 3 comma 1 della l. n. 654/1975, così come integrato nel 1993 dalla riforma Mancino[15], aveva introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento il reato in commento, in attuazione della Convenzione di New York del 1966 “Sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale”[16]; esso puniva “a) chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale; b) chi incita in qualsiasi modo alla discriminazione, o incita a commettere o commette atti di violenza o di provocazione alla violenza, nei confronti di persone, per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.

Salta immediatamente agli occhi come la norma previgente al 2006 recasse le diciture “diffusione” in luogo di “propaganda” e “incitamento” in luogo di “istigazione”; ebbene, termini dalle accezioni tanto ampie hanno suscitato, fino al 2006, profonde critiche e timori da parte della dottrina in merito al rispetto dei principi di tassatività e di extrema ratio, soprattutto alla luce della limitazione del diritto alla libera manifestazione del pensiero, che un simile reato di opinione comportava. I giudici di legittimità e di merito hanno applicato la norma – per quanto le occasioni siano state rarissime – in maniera non sempre uniforme.

La diffusione di idee fondate sulla superiorità della razza non veniva considerata una libera manifestazione del pensiero tutelata dall’art. 21 della Costituzione, bensì giustificava la repressione delle esternazioni e dei comportamenti ad essa connessi in quanto confliggenti con il principio costituzionale di uguaglianza di cui all’art. 3, con l’ordine pubblico e pericolosi per la pacifica convivenza civile[17].

Il reato di cui all’art. 3 comma 1 lett. a, L. 654/75 era ancora configurato come reato di pericolo astratto (o presunto), il cui elemento soggettivo era rappresentato dal dolo specifico, inteso come fine discriminatorio della condotta, in ragione di razza, etnia o religione della vittima. Non era esclusa dall’alveo precettivo la condotta occasionale e a nulla rilevava il convincimento personale dell’agente circa la pericolosità degli individui discriminati[18]. Tra le sentenze di merito, seppure a loro volta assai limitate, si riscontravano speculazioni di notevole vivacità[19].

Un secondo orientamento, con la novellazione della norma nel 2006, ha dato inizio ad una stagione volta a delineare in via interpretativa gli elementi costitutivi della fattispecie e a definire il nuovo ambito di applicazione della norma, alla luce delle condotte di “propaganda” e di “istigazione”. In questa fase di transizione, la giurisprudenza di legittimità ha arginato i timori di incostituzionalità della norma, giudicando inammissibili le eccezioni presentate in sede di ricorso[20]. La S. C. ha inaugurato questa stagione pronunciandosi circa la successione nel tempo delle due formulazioni della disposizione, negando che avesse avuto luogo l’abolitio criminis ex art. 2, comma 2 cod. pen., trattandosi invece di una successione di norme, ai sensi del comma 4 del medesimo articolo[21].

Nel 2008, il giudice nomofilattico ha precisato come, anche a seguito delle novelle del 1993 e del 2006, sussista piena continuità normativa tra le corrispondenti fattispecie incriminatrici, giacché la condotta consistente nel “propagandare” idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico era già ricompresa in quella del “diffondere” in qualsiasi modo le medesime idee[22]; ciò non toglie che la S.C. negli anni abbia delineato la “propaganda” in maniera tanto specifica da renderla un sottoinsieme assai circoscritto della condotta di diffusione  (infra par. 2.1.1). La nuova connotazione ermeneutica della “propaganda”, rispetto alla “diffusione”, ha impiegato diverso tempo prima di consolidarsi presso la Corte di Cassazione[23].

È stata, in questo periodo, qualificata come “propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico ovvero istigazione a commettere o commissione di atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” anche la condotta di chi, pur nel contesto di un più ampio apparato argomentativo volto a sostenere tesi di per sé legittime, ceda ad affermazioni offensive e discriminatorie nei confronti di quanti, in ragione della loro connotazione etnica, nazionale o religiosa, si ritiene pongano in essere comportamenti, secondo quelle tesi, come condannabili[24]. Fiorenti sono state le speculazioni relative agli elementi “odio razziale” e “discriminazione”.

L’odio razziale è stato associato non solo alla persecuzione, ma anche alla discriminazione; è in questa fase che il termine “odiare” è stato distinto da una qualsivoglia, e pure spiccata, antipatia verso qualcosa o qualcuno, risolvendosi in una avversione di tale portata da implicare il desiderio della morte o comunque della rovina per l’oggetto materiale di siffatta “passione”[25]. L’idea discriminatoria, si è detto, deve avere ad oggetto una “razza” o un’”etnia”, e non costituire un pregiudizio individuale[26], né può essere considerata tale se si tratta di una critica ai comportamenti e/o modi di vivere del gruppo sociale[27].

La c. d. teoria del “razzismo implicito” e il suo recepimento nel diritto penale[28], per il pericolo di poter ricomprendere in un giudizio di condanna le idee professate dal singolo, più che i comportamenti da esso tenuti, è stata prima rigettata dai giudici di merito e poi riconfermata da quelli di legittimità. Sempre in sede di giudizio di merito, si è affermato per la prima volta il principio, centrale nella pronuncia in commento, secondo cui la discriminazione in ragione dell’altrui diversità è cosa diversa dalla discriminazione per l’altrui comportamento[29].

Si giunge, infine, alla stagione giurisprudenziale odierna, ove nelle pronunce di Cassazione è rinvenibile un orientamento fondamentalmente uniforme nei contenuti e negli esiti.

La mutazione più significativa subita dalla fattispecie di cui all’art. 604-bis cod. pen. ad opera del formante giurisprudenziale è stata probabilmente il passaggio da reato di pericolo astratto a reato di pericolo concreto, in adeguamento all’orientamento maggioritario della Corte Europea dei Diritti Umani (infra par. 2.2).

La Corte EDU ha espresso a più riprese l’esigenza di un bilanciamento tra la libertà di espressione e i diritti con essa configgenti: in questo senso, la Cassazione italiana ha recepito tale sollecitazione attestandosi “sul crinale della necessaria contestualizzazione dei fatti” e valorizzando la natura delle frasi discriminatorie, il contesto in cui queste vengono pronunciate e la loro concreta idoneità offensiva[30].

Come ricordato anche nella sentenza annotata, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, ai fini della configurabilità del reato previsto, l’interpretazione degli elementi normativi della fattispecie deve essere compiuta dal giudice tenendo conto del contesto in cui si colloca la singola condotta, in modo tale da assicurare il contemperamento dei principi di pari dignità e di non discriminazione con quello di libertà di espressione, e da valorizzare perciò l’esigenza di accertare la concreta pericolosità del fatto[31]; è con tale criterio di giudizio che, attraverso la necessaria contestualizzazione delle condotte, si è affermata l’imprescindibilità di una concreta pericolosità ed offensività delle medesime.

La mutata natura del pericolo ha collateralmente investito gli elementi costitutivi della fattispecie, che hanno lentamente assunto confini più circoscritti e definiti. Un’ulteriore conseguenza della ricostruzione della norma in termini di pericolo concreto è stata quella di renderla pressoché inoperante[32]: non è un caso che la quasi totalità delle sentenze di legittimità dell’ultimo triennio abbia giudicato estranee alla fattispecie ex 604-bis le condotte incriminate, persino le più eclatanti.

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