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I rapporti tra comunione e condominio ed il regime di invalidità delle delibere condominiali per violazione del limite del “pari uso”.

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Seconda Civile, Sentenza 7 dicembre 2006, n. 26226
La pronuncia in commento ha sanzionato con la nullità, per violazione del limite del “pari uso”, le delibere condominiali che attribuiscono il diritto di godimento frazionato di una parte del bene comune; il limite citato è sancito dall’art. 1102 c.c., che vieta a ciascun condomino di impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso delle cose comuni. In altre parole, secondo la Corte, sussiste un divieto di prevedere un utilizzo qualitativamente diverso dei beni comuni, salvo che questo sia disposto con delibera adottata all’unanimità.

Da questa pronuncia è possibile prendere spunto per analizzare i seguenti profili di interesse:

1) i rapporti tra comunione e condominio, rammentando sia la problematica affrontata dalla giurisprudenza del c.d. condominio minimo, sia la questione del c.d. super-condominio;

2) la natura giuridica delle delibere condominiali;

3) il regime di invalidità delle delibere, tra nullità ed annullabilità.

1) I rapporti tra comunione e condominio, rammentando sia la problematica affrontata dalla giurisprudenza del c.d. condominio minimo, sia la questione del c.d. super-condominio.

La comunione nei diritti reali è istituto che disciplina la contitolarità della proprietà o di altri diritti reali da parte di più soggetti; il condominio, invece, è la comunione forzosa avente ad oggetto le parti comuni di un immobile. La soluzione più seguita in dottrina e giurisprudenza rileva la presenza di una relazione di genus a species, intercorrente tra comunione e condominio, alla luce della disposizione contenuta nell’art. 1139 c.c., rubricato “rinvio alle norme sulla comunione”: secondo una prima tesi tale norma, prevedendo l’applicazione al condominio delle norme dettate per disciplinare la comunione, laddove manchi una specifica regolamentazione, non fa altro che manifestare espressamente il generale principio di specialità, alla cui stregua il conflitto tra norme volte a regolare la medesima fattispecie va risolto con l’applicazione della norma speciale che prevale su quella generale; diversamente, seguendo una diversa ricostruzione l’art. 1139 c.c., nel codificare la citata regola, si sarebbe reso necessario proprio perchè un rapporto di genus a species non è sussistente, altrimenti, qualora detto rapporto fosse stato sussistente, l’applicazione delle norme della comunione per regolare le fattispecie non disciplinate attinenti al condominio sarebbe stata frutto dei generali principi dell’ordinamento, senza bisogno di dettare una regola espressa di estensione della disciplina.

Ad ogni modo, sulla questione dei rapporti tra comunione e condominio ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di legittimità a Sezioni Unite, al fine di comporre il contrasto sorto per stabilire se, in caso di condominio composto da due soli condomini (c.d. condominio minimo) fosse applicabile la disciplina del condominio, ovvero quella diversa dettata per la comunione, nella fattispecie di svolgimento, da parte di uno dei condomini, di un’attività non previamente autorizzata dall’assemblea. In tale occasione la Corte di cassazione ha offerto la soluzione dell’applicabilità delle regole sul condominio anche nel caso di due soli condomini, facendo leva sull’argomento della diversa utilità correlata ai beni oggetto di comunione e condominio: in caso di comunione, i beni presentano un’utilità finale nel senso che soddisfano di per sé l’interesse dei contitolari, viceversa, in caso di condominio, l’utilità correlata ai beni è solamente strumentale, nel senso che consente di godere della diversa utilità legata ai beni oggetto di proprietà individuale. Pur mancando una espressa presa di posizione in tal senso, nell’argomentare della Corte potrebbe leggersi la volontà di affermare che comunione e condominio sono istituti funzionalmente diversi, poiché diverso è il tipo di utilità ricavabile dai beni oggetto di comunione e da quelli oggetto di condominio; infatti, dando rilievo alla distinzione tra utilità finale e strumentale, potrebbe pervenirsi all’esito della eterogeneità funzionale tra comunione e condominio.

Il tema dei rapporti tra comunione e condominio è stato altresì affrontato con riferimento all’ipotesi in cui una pluralità di edifici, tra loro strutturalmente distinti, gode di beni in comune come ad esempio aree destinate a parcheggio ovvero piscine o altri spazi ricreativi; in questa ipotesi, qualificata di super-condominio o condominio tra edifici, ci si è chiesti se dovesse trovare applicazione la disciplina del condominio oppure quella della comunione. L’orientamento prevalente in giurisprudenza ha fatto leva sull’art. 61 disposizioni di attuazione c.c., poiché tale norma fa riferimento al “gruppo di edifici” e dunque permetterebbe di ricomprendere tale ipotesi all’interno del condominio; i sostenitori di questa soluzione, inoltre, hanno rilevato il carattere non tassativo della elencazione contenuta nell’art. 1117 c.c. che individua i beni che ricadono in condominio. La soluzione opposta, viceversa, ritiene applicabile la disciplina della comunione in base al carattere derogatorio ed eccezionale della disciplina del condominio, per applicare la quale sarebbe necessario rientrare nella tassativa elencazione contenuta nell’art. 1117 c.c.

Una diversa soluzione, ritenuta più coerente con la ratio sottesa alla distinzione tra comunione e condominio, così come rilevata dalle sezioni unite nella citata pronuncia in tema di c.d. condominio minimo, potrebbe consistere nell’applicare la disciplina del condominio qualora sussista quel rapporto di strumentalità dei beni comuni rispetto a quelli individuali; al contrario, laddove l’utilità ricavabile dai beni comuni non sia di tipo strumentale, ma finale, in tal caso dovrebbe applicarsi la disciplina della comunione in generale.

2) La natura giuridica delle delibere condominiali.

Le delibere condominiali sono atti giuridici, nei quali è individuabile un unico centro di interessi (unilateralità) facente capo ad una pluralità di soggetti (plurisoggettività); le delibere sono imputate ad un organo che ha la funzione di manifestare la volontà dell’ente, secondo lo schema della c.d. rappresentanza organica, in virtù della quale, la pluralità di manifestazioni di volontà espresse dai singoli componenti dell’ente si fonde nella volontà unitaria dell’organo deliberante: quest’ultimo è individuato dal legislatore nell’assemblea dei condomini (artt. 1135 ss c.c.).

Il dato dell’imputazione della delibera all’organo assembleare caratterizza gli atti collegiali, distinguendoli dagli atti collettivi, nei quali, pur sussistendo i connotati della unilateralità e della plurisoggettività, tuttavia manca il dato della fusione delle diverse volontà nell’unica volontà dell’organo deliberante: è quanto avviene ad esempio nella proposta di vendita del bene in comunione, qualificata come atto collettivo e non collegiale. Diversamente, nel caso in cui l’atto sia frutto della volontà di diversi soggetti, ma sia destinato a realizzare l’interesse esclusivo di uno di essi, si parla di atto complesso: è l’ipotesi dell’atto compiuto dall’inabilitato per la cui efficacia sia necessaria l’autorizzazione del curatore.

Delineati i tratti distintivi tra le diverse figure di atti unilaterali plurisoggettivi, si pone il problema di individuare la natura giuridica negoziale o meno degli atti collegiali, nel cui alveo rientrano le delibere condominiali. Secondo una prima ricostruzione la natura negoziale delle delibere condominiali sarebbe insita nella funzione, riconosciuta all’organo assembleare, di formazione della volontà del condominio; al contrario, seguendo una diversa lettura ermeneutica, si è sostenuto che la natura negoziale o meno della delibera non potrebbe essere affermata in via generale ed astratta, ma dovrebbe essere riscontrata in concreto ed in ragione del contenuto della delibera stessa: ad esempio, nel caso di delibera con la quale si attribuisce l’incarico di amministratore la natura negoziale dell’atto deriverebbe dal suo inquadramento nello schema della procura o del mandato, mentre, viceversa, in caso di delibera con la quale si approva un riparto di spese in tal caso la funzione meramente ricognitiva consentirebbe di escludere la natura negoziale, con conseguente ricaduta nell’area degli atti giuridici in senso stretto.

3) Il regime di invalidità delle delibere condominiali tra nullità ed annullabilità.

La pronuncia dalla quale si è tratto spunto ha confermato la decisione del giudice del merito con la quale è stata sancita la nullità della delibera condominiale per violazione del limite del “pari uso” previsto dall’art. 1102 c.c.; in questa occasione la corte di legittimità non si è soffermata sul regime di invalidità applicabile alle delibere condominiali, limitandosi a confermare la soluzione offerta dalla statuizione impugnata nel senso dell’operatività del regime della nullità; tuttavia, alla luce di una recente pronuncia delle sezioni unite (Cass. SS.UU. 7 marzo 2005, n. 4806), è possibile valutare la compatibilità della sanzione della nullità con i principi espressi dalle sezioni unite nel 2005 in tema di rapporti tra nullità ed annullabilità delle delibere condominiali.

Il principio di diritto affermato nel 2005 consiste nello stabilire che le delibere condominiali sono nulle se prive degli elementi essenziali, con oggetto impossibile o illecito, con oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea, se incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, mentre sono annullabili se affette da vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea, da vizi formali, se violative di prescrizioni attinenti al procedimento di convocazione e se violative di norme che richiedono determinate maggioranze qualificate. Nell’annotare tale decisione, si è prospettata la distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali: nel caso di vizi formali la sanzione sarebbe quella della annullabilità, nel caso di vizi sostanziali la conseguenza sarebbe, viceversa, quella della nullità.

Al contrario, altri autori hanno ritenuto valorizzare l’iter argomentativo seguito dalla sentenza del 2005 la quale avrebbe affermato la vigenza di una regola di generale annullabilità (c.d. annullabilità virtuale) delle delibere contrarie a norma imperativa, secondo uno schema opposto rispetto a quello vigente in materia contrattuale, laddove la contrarietà a norma imperativa determina la generale nullità del contratto, salvo che la legge disponga diversamente.

Con la sentenza annotata la Corte ha confermato la nullità delle delibera per violazione del limite del “pari uso” (limite costituito dal divieto di prevedere un utilizzo qualitativamente diverso dei beni comuni); nel valutare la coerenza di tale decisione con la statuizione del 2005, una prima ricostruzione ha rilevato la possibilità di inquadrare la fattispecie della delibera in violazione del limite del “pari uso” all’interno della categoria delle delibere che incidono sul godimento dei beni comuni da parte dei condomini; tali delibere, come detto, sono state collocate, dalle sezioni unite del 2005, nell’area delle delibere nulle: a tale stregua, dunque, si è concluso nel senso della compatibilità tra la decisione del 2005 e quella dell’anno successivo.

Al contrario, qualora si ritenga valorizzare la lettura della c.d. “annullabilità virtuale”, dovrebbe pervenirsi all’opposta soluzione della incoerenza della soluzione offerta nel 2006 con la precedente pronuncia del 2005, dal momento che la delibera violativa del limite del pari uso sarebbe una delibera contraria a norma imperativa per la cui violazione manca la previsione di un’espressa sanzione, con la conseguenza della applicabilità della regola della “annullabilità virtuale” e non del regime della nullità, come avvenuto nella fattispecie in esame.

La pronuncia in commento ha sanzionato con la nullità, per violazione del limite del “pari uso”, le delibere condominiali che attribuiscono il diritto di godimento frazionato di una parte del bene comune; il limite citato è sancito dall’art. 1102 c.c., che vieta a ciascun condomino di impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso delle cose comuni. In altre parole, secondo la Corte, sussiste un divieto di prevedere un utilizzo qualitativamente diverso dei beni comuni, salvo che questo sia disposto con delibera adottata all’unanimità.

Da questa pronuncia è possibile prendere spunto per analizzare i seguenti profili di interesse:

1) i rapporti tra comunione e condominio, rammentando sia la problematica affrontata dalla giurisprudenza del c.d. condominio minimo, sia la questione del c.d. super-condominio;

2) la natura giuridica delle delibere condominiali;

3) il regime di invalidità delle delibere, tra nullità ed annullabilità.

1) I rapporti tra comunione e condominio, rammentando sia la problematica affrontata dalla giurisprudenza del c.d. condominio minimo, sia la questione del c.d. super-condominio.

La comunione nei diritti reali è istituto che disciplina la contitolarità della proprietà o di altri diritti reali da parte di più soggetti; il condominio, invece, è la comunione forzosa avente ad oggetto le parti comuni di un immobile. La soluzione più seguita in dottrina e giurisprudenza rileva la presenza di una relazione di genus a species, intercorrente tra comunione e condominio, alla luce della disposizione contenuta nell’art. 1139 c.c., rubricato “rinvio alle norme sulla comunione”: secondo una prima tesi tale norma, prevedendo l’applicazione al condominio delle norme dettate per disciplinare la comunione, laddove manchi una specifica regolamentazione, non fa altro che manifestare espressamente il generale principio di specialità, alla cui stregua il conflitto tra norme volte a regolare la medesima fattispecie va risolto con l’applicazione della norma speciale che prevale su quella generale; diversamente, seguendo una diversa ricostruzione l’art. 1139 c.c., nel codificare la citata regola, si sarebbe reso necessario proprio perchè un rapporto di genus a species non è sussistente, altrimenti, qualora detto rapporto fosse stato sussistente, l’applicazione delle norme della comunione per regolare le fattispecie non disciplinate attinenti al condominio sarebbe stata frutto dei generali principi dell’ordinamento, senza bisogno di dettare una regola espressa di estensione della disciplina.

Ad ogni modo, sulla questione dei rapporti tra comunione e condominio ha avuto modo di pronunciarsi la Corte di legittimità a Sezioni Unite, al fine di comporre il contrasto sorto per stabilire se, in caso di condominio composto da due soli condomini (c.d. condominio minimo) fosse applicabile la disciplina del condominio, ovvero quella diversa dettata per la comunione, nella fattispecie di svolgimento, da parte di uno dei condomini, di un’attività non previamente autorizzata dall’assemblea. In tale occasione la Corte di cassazione ha offerto la soluzione dell’applicabilità delle regole sul condominio anche nel caso di due soli condomini, facendo leva sull’argomento della diversa utilità correlata ai beni oggetto di comunione e condominio: in caso di comunione, i beni presentano un’utilità finale nel senso che soddisfano di per sé l’interesse dei contitolari, viceversa, in caso di condominio, l’utilità correlata ai beni è solamente strumentale, nel senso che consente di godere della diversa utilità legata ai beni oggetto di proprietà individuale. Pur mancando una espressa presa di posizione in tal senso, nell’argomentare della Corte potrebbe leggersi la volontà di affermare che comunione e condominio sono istituti funzionalmente diversi, poiché diverso è il tipo di utilità ricavabile dai beni oggetto di comunione e da quelli oggetto di condominio; infatti, dando rilievo alla distinzione tra utilità finale e strumentale, potrebbe pervenirsi all’esito della eterogeneità funzionale tra comunione e condominio.

Il tema dei rapporti tra comunione e condominio è stato altresì affrontato con riferimento all’ipotesi in cui una pluralità di edifici, tra loro strutturalmente distinti, gode di beni in comune come ad esempio aree destinate a parcheggio ovvero piscine o altri spazi ricreativi; in questa ipotesi, qualificata di super-condominio o condominio tra edifici, ci si è chiesti se dovesse trovare applicazione la disciplina del condominio oppure quella della comunione. L’orientamento prevalente in giurisprudenza ha fatto leva sull’art. 61 disposizioni di attuazione c.c., poiché tale norma fa riferimento al “gruppo di edifici” e dunque permetterebbe di ricomprendere tale ipotesi all’interno del condominio; i sostenitori di questa soluzione, inoltre, hanno rilevato il carattere non tassativo della elencazione contenuta nell’art. 1117 c.c. che individua i beni che ricadono in condominio. La soluzione opposta, viceversa, ritiene applicabile la disciplina della comunione in base al carattere derogatorio ed eccezionale della disciplina del condominio, per applicare la quale sarebbe necessario rientrare nella tassativa elencazione contenuta nell’art. 1117 c.c.

Una diversa soluzione, ritenuta più coerente con la ratio sottesa alla distinzione tra comunione e condominio, così come rilevata dalle sezioni unite nella citata pronuncia in tema di c.d. condominio minimo, potrebbe consistere nell’applicare la disciplina del condominio qualora sussista quel rapporto di strumentalità dei beni comuni rispetto a quelli individuali; al contrario, laddove l’utilità ricavabile dai beni comuni non sia di tipo strumentale, ma finale, in tal caso dovrebbe applicarsi la disciplina della comunione in generale.

2) La natura giuridica delle delibere condominiali.

Le delibere condominiali sono atti giuridici, nei quali è individuabile un unico centro di interessi (unilateralità) facente capo ad una pluralità di soggetti (plurisoggettività); le delibere sono imputate ad un organo che ha la funzione di manifestare la volontà dell’ente, secondo lo schema della c.d. rappresentanza organica, in virtù della quale, la pluralità di manifestazioni di volontà espresse dai singoli componenti dell’ente si fonde nella volontà unitaria dell’organo deliberante: quest’ultimo è individuato dal legislatore nell’assemblea dei condomini (artt. 1135 ss c.c.).

Il dato dell’imputazione della delibera all’organo assembleare caratterizza gli atti collegiali, distinguendoli dagli atti collettivi, nei quali, pur sussistendo i connotati della unilateralità e della plurisoggettività, tuttavia manca il dato della fusione delle diverse volontà nell’unica volontà dell’organo deliberante: è quanto avviene ad esempio nella proposta di vendita del bene in comunione, qualificata come atto collettivo e non collegiale. Diversamente, nel caso in cui l’atto sia frutto della volontà di diversi soggetti, ma sia destinato a realizzare l’interesse esclusivo di uno di essi, si parla di atto complesso: è l’ipotesi dell’atto compiuto dall’inabilitato per la cui efficacia sia necessaria l’autorizzazione del curatore.

Delineati i tratti distintivi tra le diverse figure di atti unilaterali plurisoggettivi, si pone il problema di individuare la natura giuridica negoziale o meno degli atti collegiali, nel cui alveo rientrano le delibere condominiali. Secondo una prima ricostruzione la natura negoziale delle delibere condominiali sarebbe insita nella funzione, riconosciuta all’organo assembleare, di formazione della volontà del condominio; al contrario, seguendo una diversa lettura ermeneutica, si è sostenuto che la natura negoziale o meno della delibera non potrebbe essere affermata in via generale ed astratta, ma dovrebbe essere riscontrata in concreto ed in ragione del contenuto della delibera stessa: ad esempio, nel caso di delibera con la quale si attribuisce l’incarico di amministratore la natura negoziale dell’atto deriverebbe dal suo inquadramento nello schema della procura o del mandato, mentre, viceversa, in caso di delibera con la quale si approva un riparto di spese in tal caso la funzione meramente ricognitiva consentirebbe di escludere la natura negoziale, con conseguente ricaduta nell’area degli atti giuridici in senso stretto.

3) Il regime di invalidità delle delibere condominiali tra nullità ed annullabilità.

La pronuncia dalla quale si è tratto spunto ha confermato la decisione del giudice del merito con la quale è stata sancita la nullità della delibera condominiale per violazione del limite del “pari uso” previsto dall’art. 1102 c.c.; in questa occasione la corte di legittimità non si è soffermata sul regime di invalidità applicabile alle delibere condominiali, limitandosi a confermare la soluzione offerta dalla statuizione impugnata nel senso dell’operatività del regime della nullità; tuttavia, alla luce di una recente pronuncia delle sezioni unite (Cass. SS.UU. 7 marzo 2005, n. 4806), è possibile valutare la compatibilità della sanzione della nullità con i principi espressi dalle sezioni unite nel 2005 in tema di rapporti tra nullità ed annullabilità delle delibere condominiali.

Il principio di diritto affermato nel 2005 consiste nello stabilire che le delibere condominiali sono nulle se prive degli elementi essenziali, con oggetto impossibile o illecito, con oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea, se incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, mentre sono annullabili se affette da vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea, da vizi formali, se violative di prescrizioni attinenti al procedimento di convocazione e se violative di norme che richiedono determinate maggioranze qualificate. Nell’annotare tale decisione, si è prospettata la distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali: nel caso di vizi formali la sanzione sarebbe quella della annullabilità, nel caso di vizi sostanziali la conseguenza sarebbe, viceversa, quella della nullità.

Al contrario, altri autori hanno ritenuto valorizzare l’iter argomentativo seguito dalla sentenza del 2005 la quale avrebbe affermato la vigenza di una regola di generale annullabilità (c.d. annullabilità virtuale) delle delibere contrarie a norma imperativa, secondo uno schema opposto rispetto a quello vigente in materia contrattuale, laddove la contrarietà a norma imperativa determina la generale nullità del contratto, salvo che la legge disponga diversamente.

Con la sentenza annotata la Corte ha confermato la nullità delle delibera per violazione del limite del “pari uso” (limite costituito dal divieto di prevedere un utilizzo qualitativamente diverso dei beni comuni); nel valutare la coerenza di tale decisione con la statuizione del 2005, una prima ricostruzione ha rilevato la possibilità di inquadrare la fattispecie della delibera in violazione del limite del “pari uso” all’interno della categoria delle delibere che incidono sul godimento dei beni comuni da parte dei condomini; tali delibere, come detto, sono state collocate, dalle sezioni unite del 2005, nell’area delle delibere nulle: a tale stregua, dunque, si è concluso nel senso della compatibilità tra la decisione del 2005 e quella dell’anno successivo.

Al contrario, qualora si ritenga valorizzare la lettura della c.d. “annullabilità virtuale”, dovrebbe pervenirsi all’opposta soluzione della incoerenza della soluzione offerta nel 2006 con la precedente pronuncia del 2005, dal momento che la delibera violativa del limite del pari uso sarebbe una delibera contraria a norma imperativa per la cui violazione manca la previsione di un’espressa sanzione, con la conseguenza della applicabilità della regola della “annullabilità virtuale” e non del regime della nullità, come avvenuto nella fattispecie in esame.