x

x

Il contraddittorio nel processo penale: specchi e riflessi di un solido avamposto

Sommario:

1. Lineamenti generali.

1.2. [Segue] la lettura-contestazione e i suoi effetti.

1.3. [Segue] il “non ricordo” del teste e l’art. 512 c.p.p..

1.4. [Segue] la lettura-contestazione con conseguente acquisizione.

1. Lineamenti generali.

Inteso nelle sue linee essenziali, il principio del contraddittorio evoca l’idea della simultanea e contrapposta compartecipazione di tutte le parti del processo. La vocatio in judicium e la contestazione dell’accusa ne garantiscono l’attuazione.

Le regole dettate per i casi di mancata comparizione dell’imputato e di partecipazione a distanza di esso costituiscono apertis verbis le variabili di un sistema dedito a delimitare le stasi del processo e a garantire, pure in assenza dell’imputato, l’effettività del suo intervento nel dibattimento. La normativa circa l’elaborazione e la valutazione in contraddittorio della prova completa il mosaico. È a quest’ultimo tassello che si affranca il fine del presente scritto, il quale – lungi dal fornire un quadro capillare della disciplina – abbozza un tentativo di ritrovamento di un equo contemperamento tra il diritto al silenzio dell’imputato, il diritto di non rendere dichiarazioni autoincriminanti, il diritto dell’accusato a confrontarsi con l’accusatore, nonché l’interesse generale ad acquisire, ai fini probatori, il patrimonio conoscitivo in possesso dell’imputato e degli altri soggetti coinvolti a vario titolo nella vicenda processuale.

L’art. 111 Cost., ai commi 3 e 4, vale a dire nella parte in cui definisce il principio del contraddittorio, costituisce la norma regina per la lettura e l’esegesi della legge (l. 63/01) dettata per la sua attuazione, giacché consacra le due anime del contraddittorio: nel suo risvolto oggettivo, esso indica il metodo di accertamento giudiziale dei fatti, mentre in quello soggettivo deve essere inteso quale diritto dell’imputato a confrontarsi con il suo accusatore.

Parte della dottrina ritiene, dando un’interpretazione restrittiva di tale norma, che la prova valida per la decisione finale possa formarsi solo oralmente all’interno della cross examination; in tal modo le dichiarazioni rese durante le indagini preliminari – segrete – pure contestate a colui il quale avesse fornito una differente versione, non sarebbero assolutamente utilizzabili ai fini della prova del fatto affermato in precedenza (così Ferrua, E. Marzaduri).

Altra dottrina estende il significato del contraddittorio, affermando che il principio sancito dal comma 4 dell’art. 111 Cost. troverebbe piena attuazione pure laddove le precedenti dichiarazioni, rese nel circuito delle indagini preliminari, fossero contestate in dibattimento a colui che dia una differente versione dei fatti; in tal caso, infatti, la prova valida ai fini della decisione dibattimentale si formerà in modo complesso, in cui verrà rispettata la dialettica tra accusa e difesa. Il dichiarante, il quale muti versione, non si sottrarrà al contraddittorio poiché le parti potranno fare domande attraverso cui sarà possibile chiarire quali siano le motivazioni delle differenze rispetto a quanto affermato in precedenza (P. Tonini).

I fautori dell’interpretazione restrittiva sostengono che il precetto contenuto nella prima parte dell’art. 111, comma 4, Cost., in virtù del quale “il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”, pone implicitamente una sanzione di inutilizzabilità per le ipotesi in cui non si osservi il detto principio.

All’opposto, i sostenitori della tesi estensiva, rilevano che tale primo periodo vada correlato con il secondo periodo del medesimo comma, diversamente non avendo alcun senso la previsione normativa di esso, giacché la norma in sé porrebbe già la regola dell’inutilizzabilità di tutte le dichiarazioni assunte in elusione del contraddittorio. Invero il 4° comma dell’art. 111, letto sistematicamente, porrebbe l’inutilizzabilità quale sanzione per un comportamento elusivo del contraddittorio e non come esclusione di un determinato elemento di prova per la sua ontologica inaffidabilità. Tale conclusione sarebbe avvalorata dalla natura soltanto relativa della inutilizzabilità desumibile proprio dal secondo periodo del comma 4, in base al quale le dichiarazioni rese da chi ha eluso il contraddittorio possono essere utilizzate in favore dell’imputato.

Il giudice delle leggi, chiamato a pronunciarsi sulla nuova versione dell’art. 500 c.p.p., ha condiviso l’interpretazione restrittiva, affermando che l’art. 111 Cost. ha “espressamente attribuito risalto costituzionale al principio del contraddittorio anche nella prospettiva della impermeabilità del processo, quanto alla formazione della prova, rispetto al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti; alla stregua di siffatta opzione, appare del tutto coerente la previsione di istituti che mirino a preservare la fase del dibattimento – nella quale assumono valore paradigmatico i principi dell’oralità e del contraddittorio – da contaminazioni probatorie fondate su atti unilaterali raccolti nel corso delle indagini preliminari” .

L’art. 500 c.p.p., pertanto, va letto alla luce dell’art. 111, senza accantonare tuttavia il combinato disposto degli artt. 526 e 514 c.p.p..

Il 1° comma dell’art. 526 statuisce che “il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento”, mentre l’art. 514 pone la regola generale in base alla quale non costituisce legittima acquisizione la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese fuori dal dibattimento, salvi i casi espressamente previsti.

La lettura delle due norme ci conduce alla ragionevole conclusione che le prove dichiarative precostituite sono inutilizzabili, salvi i casi in cui la legge ne consenta l’acquisizione; conseguentemente, le norme che consentono l’utilizzabilità di dichiarazioni rese in precedenza hanno natura eccezionale e, come tali, non sono suscettive di estensione analogica.

In questa prospettiva va situata anche la disposizione di cui all’art. 526, comma 1 bis, la quale, nel riproporre testualmente il dettato dell’art. 111, comma 4, Cost., vieta di utilizzare quale prova della colpevolezza le dichiarazioni rese da chi per libera scelta si è sempre volontariamente sottratto al contraddittorio. Essa altro non è che una norma di chiusura, limitandosi a stabilire una regola di esclusione, senza alcuna eccezione di sorta; tuttavia ciò non denega che l’imputato, titolare del diritto al contraddittorio in senso soggettivo (diritto dell’imputato a confrontarsi con l’accusatore) possa abdicare a tale diritto e permettere che le dichiarazioni accusatorie siano utilizzate contra se.

Aderendo alla teoria restrittiva, pertanto, appare confacente al dato normativo e alla scelta del legislatore immessa nell’art. 111, comma 4, ritenere che le dichiarazioni rese da chi ha eluso il contraddittorio siano inutilizzabili contro l’imputato, salvo che questi vi acconsenta o che ricorrano le altre ipotesi espressamente disciplinate dal legislatore.

In ordine a questa scelta esegetica va letta la norma dettata in materia di contestazioni, tramite cui si utilizzano taluni atti d’indagine formatisi al di fuori della dialettica processuale con l’effetto, seppur limitato, di valutare la credibilità del soggetto esaminato ovvero con l’acquisizione al fascicolo dibattimentale delle dichiarazioni contestate, con piena valenza probatoria .

1.2. [Segue] la lettura-contestazione e i suoi effetti.

Le dichiarazioni rese in antecedenza possono essere utilizzate nel corso del dibattimento per effettuare le contestazioni. Al dichiarante (testimone o parte che sia) viene contestato di aver reso una difforme dichiarazione in un momento anteriore al dibattimento e ciò al fine, da un canto, di appurare la sua credibilità e, dall’altro, per consentirgli di dare una chiosa della diversa versione.

L’art. 500 c.p.p. dispone che “le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste”, segnando in tal guisa una profonda frattura con la disciplina precedente, giacché consente la lettura-contestazione ma senza acquisizione; invero, nell’ipotesi in cui permanga il contrasto, le dichiarazioni non possono costituire prova dei fatti in esse affermati ma solo essere utilizzate per verificare e valutare la credibilità del teste.

Così il precedente difforme non potrà essere acquisito al fascicolo del dibattimento e, dunque, non potrà nemmeno essere utilizzato dal giudicante; potrà tuttavia paralizzare l’efficacia probatoria delle dichiarazioni rese dal testimone in dibattimento.

A fronte di contraddizioni tra quanto dichiarato dal testimone nel corso delle indagini e quanto successivamente da lui affermato in dibattimento, il giudice potrà ritenere che le dichiarazioni dibattimentali non siano credibili; convincersi che il teste abbia detto il vero in dibattimento oppure, sulla base della contestazione, non potrà ritenere provate le circostanze affermate nel corso delle indagini, giacché le relative dichiarazioni non sono state acquisite al fascicolo per il dibattimento e, pertanto, non concorrono alla formazione del patrimonio di conoscenze utilizzabile dal giudicante.

Nella diversa ipotesi in cui il teste in dibattimento dichiari di non ricordare e, tuttavia, rispondendo alla contestazione di chi conduce l’esame, ammetta di aver reso nella fase predibattimentale le dichiarazioni lette per le contestazioni, queste vengono acquisite al patrimonio conoscitivo del giudice, il quale, con la dovuta cautela e tenuto conto dell’intera piattaforma probatoria, potrà farne oggetto di austera valutazione. Ergo, alla luce di ciò il riconoscimento da parte del teste della veridicità di una propria precedente dichiarazione resa ha valenza di indizio, che, per assurgere al rango di prova, deve essere valutato con altri indizi gravi, precisi e concordanti.

Tale conclusione costituisce il logico corollario delle scelte legislative dirette all’attuazione dei principi dettati dall’art. 111 Cost.. Invero, nella già invocata prospettiva della impermeabilità del processo, non può ritenersi che nel caso di cui sopra la prova si sia formata in dibattimento, nel pieno rispetto dei principi dell’oralità e del contraddittorio, giacché in realtà non vi è stata alcuna dialettica tra le parti, essendosi il teste limitato a confermare la veridicità di una dichiarazione resa previamente, senza tuttavia sottoporsi all’esame incrociato, evitando così di rispondere alle domande formulategli dalle parti.

Non può essere sottaciuto lo sforzo di alcuni autori di recuperare la piena valenza probatoria delle dichiarazioni predibattimentali rese dal teste che, sottoposto all’esame incrociato, si trinceri dietro il “non ricordo”, pur essendo palmare, per altri elementi emergenti dal processo, la sua reticenza.

Al riguardo si afferma che la legge, pur espressamente vietando l’utilizzazione delle contestazioni ai fini della prova, consente che le stesse possano ugualmente contribuire a formare il convincimento del giudice. Vero è che l’art. 111 Cost. stabilisce che la prova si forma nel contraddittorio delle parti ma è allo stesso modo vero che l’esame del teste non si fonda soltanto sulle risposte che egli dà ma anche sulle domande formulate dalle parti: è dal complesso della domanda e della risposta che si forma la prova. Pertanto, nel caso in cui il teste renda una dichiarazione difforme dalla precedente ed il p.m. o il difensore proceda alla relativa contestazione, formulando una domanda con lo stesso contenuto della contestazione, ed il teste neghi la circostanza in maniera evidentemente reticente, il giudice potrebbe maturare il convincimento che i fatti si siano svolti come indicato nella domanda e non anche nella risposta reticente. Ciò vuol dire, in altri termini, che se da una parte va esclusa funditus la possibilità di elevare a rango di prova la pura e semplice contestazione, dall’altra, ove la circostanza oggetto della contestazione venisse rimodulata sotto forma di domanda e il teste rispondesse in maniera falsa o reticente, il giudice potrebbe trarre da tale comportamento la prova che le cose siano andate esattamente come indicato nella domanda.

Sia la dottrina che la giurisprudenza prevalenti hanno riconosciuto la possibilità che si proceda a contestazione anche nei confronti del teste silente e ciò distinguendo il problema dell’utilizzabilità o meno delle dichiarazioni contestate e quello della funzione svolta dalle contestazioni nell’economia dell’esame incrociato. In merito a questo è possibile affermare che il “non ricordo” rappresenta comunque il contenuto di una sia pur minimale deposizione e che l’art. 500 c.p.p., nella parte in cui stabilisce che la contestazione si può fare soltanto se il teste ha deposto, intende affermare con semplicità che la contestazione deve seguire la deposizione, collocandola, quindi, temporalmente in maniera tale da non pregiudicare la genuinità della risposta, ma senza con ciò denegare a priori la possibilità che la contestazione possa avere luogo. Il Supremo collegio ha posto l’attenzione – benché riferendosi alla vecchia versione dell’art. 500 – che, quando il teste dichiari di non ricordare, trattasi comunque di una divergenza rispetto alle risultanze delle indagini preliminari e che sull’analisi esegetica non inciderebbe la facoltà attribuita al teste, su autorizzazione del giudice, di servirsi di documenti da lui redatti e di atti d’investigazione svolta, poiché la detta facoltà non concernerebbe le contestazioni nell’esame testimoniale bensì le modalità di svolgimento del medesimo (Cass. pen. 24.04.1997).

1.3. [Segue] il “non ricordo” del teste e l’art. 512 c.p.p..

La Consulta ha ritenuto che da una mera esegesi dell’art. 512 c.p.p. affiora che, ai fini della legittima lettura in dibattimento, la norma postula la sola condizione della impossibilità di ripetizione degli atti per motivi di fatto o circostanze imprevedibili, fra i quali nulla autorizza ad escludere un’infermità del teste determinante l’assoluta amnesia sui fatti di causa.

In una pronuncia successiva , la Corte costituzionale, in riferimento all’art. 111, comma 5, ha affrontato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 512, nella parte in cui consente la lettura degli atti assunti nel corso delle i.p. solo quando ne è divenuta impossibile la ripetizione per fatti o circostanze imprevedibili. Nella specie il giudice a quo era stato adito al fine di decidere sull’acquisizione al fascicolo dibattimentale del verbale di una individuazione fotografica effettuata da un testimone nell’immediatezza dei fatti, atto poi divenuto irripetibile a causa dell’incapacità del teste a ricordare alcunché relativamente all’esito dello stesso nonché di focalizzare l’immagine della persona, all’epoca dei fatti riconosciuta. Ebbene, il giudice a quo riteneva che la norma sindacata, nel contemplare limiti estranei e ulteriori (s’intendono l’imprevedibilità e l’irreperibilità) all’operatività delle deroghe al principio del contraddittorio nella formazione della prova, configgeva col 5° comma dell’art. 111, Cost., laddove si faceva riferimento esclusivo alla “accertata impossibilità di natura oggettiva” della ripetizione della prova. L’occasione serviva alla Corte per marcare la differenza tra impossibilità oggettiva di ripetizione dell’atto dichiarativo (derivante ipoteticamente da morte, infermità comportante una totale amnesia del teste, irreperibilità), la quale viene inglobata nel tenore di applicazione dell’art. 512, e mera incapacità dedotta dal teste di richiamare il contenuto dell’atto assunto durante le i.p.; in quest’ultimo caso, indipendentemente da valutazioni in ordine alla prevedibilità dell’impossibilità di ripetizione dell’atto stesso (considerando, per esempio, l’età del teste o il notevole lasso di tempo intercorso tra l’assunzione dell’atto e la verifica dibattimentale), non si versa nell’ipotesi dell’oggettiva impossibilità di procedere all’assunzione dell’atto e, pertanto, non è applicabile l’art. 512, correttamente interpretato.

La lettura estensiva della norma in esame – secondo la Corte – è incompatibile con l’ambito di applicazione della specifica ipotesi di deroga del contraddittorio per accertata impossibilità di natura oggettiva prevista dal 5° comma dell’art. 111 Cost.. Ove si consideri, infatti, anche il testuale riferimento contenuto al 4° comma della stessa norma alle dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre sottratto volontariamente all’interrogatorio, il richiamo all’impossibilità di natura oggettiva non può che riferirsi a fatti indipendenti dalla volontà del dichiarante, che di per sé rendono non ripetibili le dichiarazioni previamente rese.

In via definitiva, a tenore dell’invocata giurisprudenza costituzionale, deve escludersi la possibilità di ricorrere, a fronte del teste che non ricordi più i fatti sui quali è esaminato in dibattimento, allo strumento disciplinato dall’art. 512 c.p.p., profittevole allorché il venir meno della memoria dipendesse da cause patologiche e non quando invece fisiologicamente riconducibile al trascorrere del tempo.

1.4. [Segue] la lettura-contestazione con conseguente acquisizione.

Se la reticenza è il frutto di violenza, lusinga o minaccia sul dichiarante, trova applicazione il quarto comma dell’art. 500 c.p.p., a tenore del quale “quando, anche per le circostanza emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate”; in casi del genere “il giudice decide senza ritardo, svolgendo gli accertamenti che ritiene necessari, su richiesta della parte, che può fornire gli elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità” (quinto comma). In tal guisa si realizza una lettura-contestazione con acquisizione al fascicolo per il dibattimento: le dichiarazioni rese in sede predibattimentale, pertanto, potranno essere utilizzate dal giudice per la decisione e valutate secondo i consueti canoni interpretativi.

La norma in realtà traduce la deroga alla formazione della prova in contraddittorio prevista dall’art. 111, 5° co., Cost., il quale, oltre al “consenso dell’imputato” e alla “accertata impossibilità di natura oggettiva”, contempla l’ipotesi della “provata condotta illecita”.

Ebbene, al fine di acclarare i condizionamenti subiti dal testimone, facendo riferimento al dato letterale, è possibile ritenere che siano bastevoli elementi concreti, il che se da una parte esclude la necessità di una prova dotata del grado di consistenza necessario per fondare un giudizio di condanna, dall’altra, esclude che il giudice si possa accontentare di meri postulati.

La prova della coartazione può ritenersi raggiunta anche sulla base della sola modalità dell’esame ed è chiarificatore – seppur con le opportune cautele – l’esame critico della ritrattazione dibattimentale, poiché qualora essa non venisse chiosata con adeguatezza e non potesse essere intesa quale manifestazione dell’intento di ristabilire tardivamente una verità adombrata nella fase delle indagini preliminari, il contegno dibattimentale del dichiarante diventerebbe ad un tempo il presupposto per l’applicazione della norma in esame ed uno degli elementi di convincimento di un probabile intervento inquinante.

Esclusa pertanto la necessità di una piena prova (vale a dire della stessa consistenza di quella richiesta per il giudizio di condanna), al giudicante è riconosciuto un modesto margine di elasticità al fine di accertare che il teste non sia stato vittima di pressioni illecite, fondando la propria decisione su elementi concreti, dei quali dovrà dare adeguata spiegazione in motivazione ex art. 546, comma 1, lett. e), c.p.p..

Come ricordato da Ferrua “il grado della prova va individuato tra due estremi: da un lato, sarebbe insensato pretendere che lo standard debba essere rappresentato dalla prova al di là di ogni ragionevole dubbio, necessaria una pronuncia di condanna; dall’altro, occorre evitare che gli elementi concreti si tramutino in vaghe ragioni, in semplici motivi di sospetto”.

Altra ipotesi di acquisizione è quella configurata dal 6° comma dell’art. 500 c.p.p., in vista del quale è consentito acquisire al fascicolo del dibattimento, a richiesta di parte, le dichiarazioni assunte dal giudice nell’udienza preliminare se utilizzate per le contestazioni. Queste – oltre alle ipotesi già enucleate – entreranno nel bagaglio conoscitivo del giudice e saranno da questi valutate nei confronti delle parti che hanno partecipato alla loro assunzione.

L’ipotesi conclusiva di acquisizione probatoria è quella collocata nel comma 7 dell’art. 500, secondo cui “su accordo delle parti le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento”. Essa esprime un aspetto della regola generale già stabilita dall’art. 493, comma 3, c.p.p., e disciplina la c.d. acquisizione concordata al fascicolo dibattimentale di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. È possibile che il consenso venga prestato, oltre che dal p.m., da alcuni imputati e non da altri; in siffatto caso gli effetti dell’atto ricadranno unicamente su quelle parti che hanno manifestato il consenso. Si tratta di un caso di utilizzazione relativa in chiave soggettiva dell’atto. Non è escluso, inoltre, che il giudice possa officiosamente disporre l’assunzione di mezzi di prova relativi agli atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento. Controverso è il caso in cui la parte civile non presti il consenso; invero, la dizione generica dell’espressione utilizzata dal legislatore indurrebbe a ritenere che l’atto non possa venire acquisito.

Sommario:

1. Lineamenti generali.

1.2. [Segue] la lettura-contestazione e i suoi effetti.

1.3. [Segue] il “non ricordo” del teste e l’art. 512 c.p.p..

1.4. [Segue] la lettura-contestazione con conseguente acquisizione.

1. Lineamenti generali.

Inteso nelle sue linee essenziali, il principio del contraddittorio evoca l’idea della simultanea e contrapposta compartecipazione di tutte le parti del processo. La vocatio in judicium e la contestazione dell’accusa ne garantiscono l’attuazione.

Le regole dettate per i casi di mancata comparizione dell’imputato e di partecipazione a distanza di esso costituiscono apertis verbis le variabili di un sistema dedito a delimitare le stasi del processo e a garantire, pure in assenza dell’imputato, l’effettività del suo intervento nel dibattimento. La normativa circa l’elaborazione e la valutazione in contraddittorio della prova completa il mosaico. È a quest’ultimo tassello che si affranca il fine del presente scritto, il quale – lungi dal fornire un quadro capillare della disciplina – abbozza un tentativo di ritrovamento di un equo contemperamento tra il diritto al silenzio dell’imputato, il diritto di non rendere dichiarazioni autoincriminanti, il diritto dell’accusato a confrontarsi con l’accusatore, nonché l’interesse generale ad acquisire, ai fini probatori, il patrimonio conoscitivo in possesso dell’imputato e degli altri soggetti coinvolti a vario titolo nella vicenda processuale.

L’art. 111 Cost., ai commi 3 e 4, vale a dire nella parte in cui definisce il principio del contraddittorio, costituisce la norma regina per la lettura e l’esegesi della legge (l. 63/01) dettata per la sua attuazione, giacché consacra le due anime del contraddittorio: nel suo risvolto oggettivo, esso indica il metodo di accertamento giudiziale dei fatti, mentre in quello soggettivo deve essere inteso quale diritto dell’imputato a confrontarsi con il suo accusatore.

Parte della dottrina ritiene, dando un’interpretazione restrittiva di tale norma, che la prova valida per la decisione finale possa formarsi solo oralmente all’interno della cross examination; in tal modo le dichiarazioni rese durante le indagini preliminari – segrete – pure contestate a colui il quale avesse fornito una differente versione, non sarebbero assolutamente utilizzabili ai fini della prova del fatto affermato in precedenza (così Ferrua, E. Marzaduri).

Altra dottrina estende il significato del contraddittorio, affermando che il principio sancito dal comma 4 dell’art. 111 Cost. troverebbe piena attuazione pure laddove le precedenti dichiarazioni, rese nel circuito delle indagini preliminari, fossero contestate in dibattimento a colui che dia una differente versione dei fatti; in tal caso, infatti, la prova valida ai fini della decisione dibattimentale si formerà in modo complesso, in cui verrà rispettata la dialettica tra accusa e difesa. Il dichiarante, il quale muti versione, non si sottrarrà al contraddittorio poiché le parti potranno fare domande attraverso cui sarà possibile chiarire quali siano le motivazioni delle differenze rispetto a quanto affermato in precedenza (P. Tonini).

I fautori dell’interpretazione restrittiva sostengono che il precetto contenuto nella prima parte dell’art. 111, comma 4, Cost., in virtù del quale “il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”, pone implicitamente una sanzione di inutilizzabilità per le ipotesi in cui non si osservi il detto principio.

All’opposto, i sostenitori della tesi estensiva, rilevano che tale primo periodo vada correlato con il secondo periodo del medesimo comma, diversamente non avendo alcun senso la previsione normativa di esso, giacché la norma in sé porrebbe già la regola dell’inutilizzabilità di tutte le dichiarazioni assunte in elusione del contraddittorio. Invero il 4° comma dell’art. 111, letto sistematicamente, porrebbe l’inutilizzabilità quale sanzione per un comportamento elusivo del contraddittorio e non come esclusione di un determinato elemento di prova per la sua ontologica inaffidabilità. Tale conclusione sarebbe avvalorata dalla natura soltanto relativa della inutilizzabilità desumibile proprio dal secondo periodo del comma 4, in base al quale le dichiarazioni rese da chi ha eluso il contraddittorio possono essere utilizzate in favore dell’imputato.

Il giudice delle leggi, chiamato a pronunciarsi sulla nuova versione dell’art. 500 c.p.p., ha condiviso l’interpretazione restrittiva, affermando che l’art. 111 Cost. ha “espressamente attribuito risalto costituzionale al principio del contraddittorio anche nella prospettiva della impermeabilità del processo, quanto alla formazione della prova, rispetto al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti; alla stregua di siffatta opzione, appare del tutto coerente la previsione di istituti che mirino a preservare la fase del dibattimento – nella quale assumono valore paradigmatico i principi dell’oralità e del contraddittorio – da contaminazioni probatorie fondate su atti unilaterali raccolti nel corso delle indagini preliminari” .

L’art. 500 c.p.p., pertanto, va letto alla luce dell’art. 111, senza accantonare tuttavia il combinato disposto degli artt. 526 e 514 c.p.p..

Il 1° comma dell’art. 526 statuisce che “il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento”, mentre l’art. 514 pone la regola generale in base alla quale non costituisce legittima acquisizione la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese fuori dal dibattimento, salvi i casi espressamente previsti.

La lettura delle due norme ci conduce alla ragionevole conclusione che le prove dichiarative precostituite sono inutilizzabili, salvi i casi in cui la legge ne consenta l’acquisizione; conseguentemente, le norme che consentono l’utilizzabilità di dichiarazioni rese in precedenza hanno natura eccezionale e, come tali, non sono suscettive di estensione analogica.

In questa prospettiva va situata anche la disposizione di cui all’art. 526, comma 1 bis, la quale, nel riproporre testualmente il dettato dell’art. 111, comma 4, Cost., vieta di utilizzare quale prova della colpevolezza le dichiarazioni rese da chi per libera scelta si è sempre volontariamente sottratto al contraddittorio. Essa altro non è che una norma di chiusura, limitandosi a stabilire una regola di esclusione, senza alcuna eccezione di sorta; tuttavia ciò non denega che l’imputato, titolare del diritto al contraddittorio in senso soggettivo (diritto dell’imputato a confrontarsi con l’accusatore) possa abdicare a tale diritto e permettere che le dichiarazioni accusatorie siano utilizzate contra se.

Aderendo alla teoria restrittiva, pertanto, appare confacente al dato normativo e alla scelta del legislatore immessa nell’art. 111, comma 4, ritenere che le dichiarazioni rese da chi ha eluso il contraddittorio siano inutilizzabili contro l’imputato, salvo che questi vi acconsenta o che ricorrano le altre ipotesi espressamente disciplinate dal legislatore.

In ordine a questa scelta esegetica va letta la norma dettata in materia di contestazioni, tramite cui si utilizzano taluni atti d’indagine formatisi al di fuori della dialettica processuale con l’effetto, seppur limitato, di valutare la credibilità del soggetto esaminato ovvero con l’acquisizione al fascicolo dibattimentale delle dichiarazioni contestate, con piena valenza probatoria .

1.2. [Segue] la lettura-contestazione e i suoi effetti.

Le dichiarazioni rese in antecedenza possono essere utilizzate nel corso del dibattimento per effettuare le contestazioni. Al dichiarante (testimone o parte che sia) viene contestato di aver reso una difforme dichiarazione in un momento anteriore al dibattimento e ciò al fine, da un canto, di appurare la sua credibilità e, dall’altro, per consentirgli di dare una chiosa della diversa versione.

L’art. 500 c.p.p. dispone che “le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste”, segnando in tal guisa una profonda frattura con la disciplina precedente, giacché consente la lettura-contestazione ma senza acquisizione; invero, nell’ipotesi in cui permanga il contrasto, le dichiarazioni non possono costituire prova dei fatti in esse affermati ma solo essere utilizzate per verificare e valutare la credibilità del teste.

Così il precedente difforme non potrà essere acquisito al fascicolo del dibattimento e, dunque, non potrà nemmeno essere utilizzato dal giudicante; potrà tuttavia paralizzare l’efficacia probatoria delle dichiarazioni rese dal testimone in dibattimento.

A fronte di contraddizioni tra quanto dichiarato dal testimone nel corso delle indagini e quanto successivamente da lui affermato in dibattimento, il giudice potrà ritenere che le dichiarazioni dibattimentali non siano credibili; convincersi che il teste abbia detto il vero in dibattimento oppure, sulla base della contestazione, non potrà ritenere provate le circostanze affermate nel corso delle indagini, giacché le relative dichiarazioni non sono state acquisite al fascicolo per il dibattimento e, pertanto, non concorrono alla formazione del patrimonio di conoscenze utilizzabile dal giudicante.

Nella diversa ipotesi in cui il teste in dibattimento dichiari di non ricordare e, tuttavia, rispondendo alla contestazione di chi conduce l’esame, ammetta di aver reso nella fase predibattimentale le dichiarazioni lette per le contestazioni, queste vengono acquisite al patrimonio conoscitivo del giudice, il quale, con la dovuta cautela e tenuto conto dell’intera piattaforma probatoria, potrà farne oggetto di austera valutazione. Ergo, alla luce di ciò il riconoscimento da parte del teste della veridicità di una propria precedente dichiarazione resa ha valenza di indizio, che, per assurgere al rango di prova, deve essere valutato con altri indizi gravi, precisi e concordanti.

Tale conclusione costituisce il logico corollario delle scelte legislative dirette all’attuazione dei principi dettati dall’art. 111 Cost.. Invero, nella già invocata prospettiva della impermeabilità del processo, non può ritenersi che nel caso di cui sopra la prova si sia formata in dibattimento, nel pieno rispetto dei principi dell’oralità e del contraddittorio, giacché in realtà non vi è stata alcuna dialettica tra le parti, essendosi il teste limitato a confermare la veridicità di una dichiarazione resa previamente, senza tuttavia sottoporsi all’esame incrociato, evitando così di rispondere alle domande formulategli dalle parti.

Non può essere sottaciuto lo sforzo di alcuni autori di recuperare la piena valenza probatoria delle dichiarazioni predibattimentali rese dal teste che, sottoposto all’esame incrociato, si trinceri dietro il “non ricordo”, pur essendo palmare, per altri elementi emergenti dal processo, la sua reticenza.

Al riguardo si afferma che la legge, pur espressamente vietando l’utilizzazione delle contestazioni ai fini della prova, consente che le stesse possano ugualmente contribuire a formare il convincimento del giudice. Vero è che l’art. 111 Cost. stabilisce che la prova si forma nel contraddittorio delle parti ma è allo stesso modo vero che l’esame del teste non si fonda soltanto sulle risposte che egli dà ma anche sulle domande formulate dalle parti: è dal complesso della domanda e della risposta che si forma la prova. Pertanto, nel caso in cui il teste renda una dichiarazione difforme dalla precedente ed il p.m. o il difensore proceda alla relativa contestazione, formulando una domanda con lo stesso contenuto della contestazione, ed il teste neghi la circostanza in maniera evidentemente reticente, il giudice potrebbe maturare il convincimento che i fatti si siano svolti come indicato nella domanda e non anche nella risposta reticente. Ciò vuol dire, in altri termini, che se da una parte va esclusa funditus la possibilità di elevare a rango di prova la pura e semplice contestazione, dall’altra, ove la circostanza oggetto della contestazione venisse rimodulata sotto forma di domanda e il teste rispondesse in maniera falsa o reticente, il giudice potrebbe trarre da tale comportamento la prova che le cose siano andate esattamente come indicato nella domanda.

Sia la dottrina che la giurisprudenza prevalenti hanno riconosciuto la possibilità che si proceda a contestazione anche nei confronti del teste silente e ciò distinguendo il problema dell’utilizzabilità o meno delle dichiarazioni contestate e quello della funzione svolta dalle contestazioni nell’economia dell’esame incrociato. In merito a questo è possibile affermare che il “non ricordo” rappresenta comunque il contenuto di una sia pur minimale deposizione e che l’art. 500 c.p.p., nella parte in cui stabilisce che la contestazione si può fare soltanto se il teste ha deposto, intende affermare con semplicità che la contestazione deve seguire la deposizione, collocandola, quindi, temporalmente in maniera tale da non pregiudicare la genuinità della risposta, ma senza con ciò denegare a priori la possibilità che la contestazione possa avere luogo. Il Supremo collegio ha posto l’attenzione – benché riferendosi alla vecchia versione dell’art. 500 – che, quando il teste dichiari di non ricordare, trattasi comunque di una divergenza rispetto alle risultanze delle indagini preliminari e che sull’analisi esegetica non inciderebbe la facoltà attribuita al teste, su autorizzazione del giudice, di servirsi di documenti da lui redatti e di atti d’investigazione svolta, poiché la detta facoltà non concernerebbe le contestazioni nell’esame testimoniale bensì le modalità di svolgimento del medesimo (Cass. pen. 24.04.1997).

1.3. [Segue] il “non ricordo” del teste e l’art. 512 c.p.p..

La Consulta ha ritenuto che da una mera esegesi dell’art. 512 c.p.p. affiora che, ai fini della legittima lettura in dibattimento, la norma postula la sola condizione della impossibilità di ripetizione degli atti per motivi di fatto o circostanze imprevedibili, fra i quali nulla autorizza ad escludere un’infermità del teste determinante l’assoluta amnesia sui fatti di causa.

In una pronuncia successiva , la Corte costituzionale, in riferimento all’art. 111, comma 5, ha affrontato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 512, nella parte in cui consente la lettura degli atti assunti nel corso delle i.p. solo quando ne è divenuta impossibile la ripetizione per fatti o circostanze imprevedibili. Nella specie il giudice a quo era stato adito al fine di decidere sull’acquisizione al fascicolo dibattimentale del verbale di una individuazione fotografica effettuata da un testimone nell’immediatezza dei fatti, atto poi divenuto irripetibile a causa dell’incapacità del teste a ricordare alcunché relativamente all’esito dello stesso nonché di focalizzare l’immagine della persona, all’epoca dei fatti riconosciuta. Ebbene, il giudice a quo riteneva che la norma sindacata, nel contemplare limiti estranei e ulteriori (s’intendono l’imprevedibilità e l’irreperibilità) all’operatività delle deroghe al principio del contraddittorio nella formazione della prova, configgeva col 5° comma dell’art. 111, Cost., laddove si faceva riferimento esclusivo alla “accertata impossibilità di natura oggettiva” della ripetizione della prova. L’occasione serviva alla Corte per marcare la differenza tra impossibilità oggettiva di ripetizione dell’atto dichiarativo (derivante ipoteticamente da morte, infermità comportante una totale amnesia del teste, irreperibilità), la quale viene inglobata nel tenore di applicazione dell’art. 512, e mera incapacità dedotta dal teste di richiamare il contenuto dell’atto assunto durante le i.p.; in quest’ultimo caso, indipendentemente da valutazioni in ordine alla prevedibilità dell’impossibilità di ripetizione dell’atto stesso (considerando, per esempio, l’età del teste o il notevole lasso di tempo intercorso tra l’assunzione dell’atto e la verifica dibattimentale), non si versa nell’ipotesi dell’oggettiva impossibilità di procedere all’assunzione dell’atto e, pertanto, non è applicabile l’art. 512, correttamente interpretato.

La lettura estensiva della norma in esame – secondo la Corte – è incompatibile con l’ambito di applicazione della specifica ipotesi di deroga del contraddittorio per accertata impossibilità di natura oggettiva prevista dal 5° comma dell’art. 111 Cost.. Ove si consideri, infatti, anche il testuale riferimento contenuto al 4° comma della stessa norma alle dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre sottratto volontariamente all’interrogatorio, il richiamo all’impossibilità di natura oggettiva non può che riferirsi a fatti indipendenti dalla volontà del dichiarante, che di per sé rendono non ripetibili le dichiarazioni previamente rese.

In via definitiva, a tenore dell’invocata giurisprudenza costituzionale, deve escludersi la possibilità di ricorrere, a fronte del teste che non ricordi più i fatti sui quali è esaminato in dibattimento, allo strumento disciplinato dall’art. 512 c.p.p., profittevole allorché il venir meno della memoria dipendesse da cause patologiche e non quando invece fisiologicamente riconducibile al trascorrere del tempo.

1.4. [Segue] la lettura-contestazione con conseguente acquisizione.

Se la reticenza è il frutto di violenza, lusinga o minaccia sul dichiarante, trova applicazione il quarto comma dell’art. 500 c.p.p., a tenore del quale “quando, anche per le circostanza emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate”; in casi del genere “il giudice decide senza ritardo, svolgendo gli accertamenti che ritiene necessari, su richiesta della parte, che può fornire gli elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità” (quinto comma). In tal guisa si realizza una lettura-contestazione con acquisizione al fascicolo per il dibattimento: le dichiarazioni rese in sede predibattimentale, pertanto, potranno essere utilizzate dal giudice per la decisione e valutate secondo i consueti canoni interpretativi. ario:

1. Lineamenti generali.

1.2. [Segue] la lettura-contestazione e i suoi effetti.

1.3. [Segue] il “non ricordo” del teste e l’art. 512 c.p.p..

1.4. [Segue] la lettura-contestazione con conseguente acquisizione.

1. Lineamenti generali.

Inteso nelle sue linee essenziali, il principio del contraddittorio evoca l’idea della simultanea e contrapposta compartecipazione di tutte le parti del processo. La vocatio in judicium e la contestazione dell’accusa ne garantiscono l’attuazione.

Le regole dettate per i casi di mancata comparizione dell’imputato e di partecipazione a distanza di esso costituiscono apertis verbis le variabili di un sistema dedito a delimitare le stasi del processo e a garantire, pure in assenza dell’imputato, l’effettività del suo intervento nel dibattimento. La normativa circa l’elaborazione e la valutazione in contraddittorio della prova completa il mosaico. È a quest’ultimo tassello che si affranca il fine del presente scritto, il quale – lungi dal fornire un quadro capillare della disciplina – abbozza un tentativo di ritrovamento di un equo contemperamento tra il diritto al silenzio dell’imputato, il diritto di non rendere dichiarazioni autoincriminanti, il diritto dell’accusato a confrontarsi con l’accusatore, nonché l’interesse generale ad acquisire, ai fini probatori, il patrimonio conoscitivo in possesso dell’imputato e degli altri soggetti coinvolti a vario titolo nella vicenda processuale.

L’art. 111 Cost., ai commi 3 e 4, vale a dire nella parte in cui definisce il principio del contraddittorio, costituisce la norma regina per la lettura e l’esegesi della legge (l. 63/01) dettata per la sua attuazione, giacché consacra le due anime del contraddittorio: nel suo risvolto oggettivo, esso indica il metodo di accertamento giudiziale dei fatti, mentre in quello soggettivo deve essere inteso quale diritto dell’imputato a confrontarsi con il suo accusatore.

Parte della dottrina ritiene, dando un’interpretazione restrittiva di tale norma, che la prova valida per la decisione finale possa formarsi solo oralmente all’interno della cross examination; in tal modo le dichiarazioni rese durante le indagini preliminari – segrete – pure contestate a colui il quale avesse fornito una differente versione, non sarebbero assolutamente utilizzabili ai fini della prova del fatto affermato in precedenza (così Ferrua, E. Marzaduri).

Altra dottrina estende il significato del contraddittorio, affermando che il principio sancito dal comma 4 dell’art. 111 Cost. troverebbe piena attuazione pure laddove le precedenti dichiarazioni, rese nel circuito delle indagini preliminari, fossero contestate in dibattimento a colui che dia una differente versione dei fatti; in tal caso, infatti, la prova valida ai fini della decisione dibattimentale si formerà in modo complesso, in cui verrà rispettata la dialettica tra accusa e difesa. Il dichiarante, il quale muti versione, non si sottrarrà al contraddittorio poiché le parti potranno fare domande attraverso cui sarà possibile chiarire quali siano le motivazioni delle differenze rispetto a quanto affermato in precedenza (P. Tonini).

I fautori dell’interpretazione restrittiva sostengono che il precetto contenuto nella prima parte dell’art. 111, comma 4, Cost., in virtù del quale “il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”, pone implicitamente una sanzione di inutilizzabilità per le ipotesi in cui non si osservi il detto principio.

All’opposto, i sostenitori della tesi estensiva, rilevano che tale primo periodo vada correlato con il secondo periodo del medesimo comma, diversamente non avendo alcun senso la previsione normativa di esso, giacché la norma in sé porrebbe già la regola dell’inutilizzabilità di tutte le dichiarazioni assunte in elusione del contraddittorio. Invero il 4° comma dell’art. 111, letto sistematicamente, porrebbe l’inutilizzabilità quale sanzione per un comportamento elusivo del contraddittorio e non come esclusione di un determinato elemento di prova per la sua ontologica inaffidabilità. Tale conclusione sarebbe avvalorata dalla natura soltanto relativa della inutilizzabilità desumibile proprio dal secondo periodo del comma 4, in base al quale le dichiarazioni rese da chi ha eluso il contraddittorio possono essere utilizzate in favore dell’imputato.

Il giudice delle leggi, chiamato a pronunciarsi sulla nuova versione dell’art. 500 c.p.p., ha condiviso l’interpretazione restrittiva, affermando che l’art. 111 Cost. ha “espressamente attribuito risalto costituzionale al principio del contraddittorio anche nella prospettiva della impermeabilità del processo, quanto alla formazione della prova, rispetto al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti; alla stregua di siffatta opzione, appare del tutto coerente la previsione di istituti che mirino a preservare la fase del dibattimento – nella quale assumono valore paradigmatico i principi dell’oralità e del contraddittorio – da contaminazioni probatorie fondate su atti unilaterali raccolti nel corso delle indagini preliminari” .

L’art. 500 c.p.p., pertanto, va letto alla luce dell’art. 111, senza accantonare tuttavia il combinato disposto degli artt. 526 e 514 c.p.p..

Il 1° comma dell’art. 526 statuisce che “il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento”, mentre l’art. 514 pone la regola generale in base alla quale non costituisce legittima acquisizione la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese fuori dal dibattimento, salvi i casi espressamente previsti.

La lettura delle due norme ci conduce alla ragionevole conclusione che le prove dichiarative precostituite sono inutilizzabili, salvi i casi in cui la legge ne consenta l’acquisizione; conseguentemente, le norme che consentono l’utilizzabilità di dichiarazioni rese in precedenza hanno natura eccezionale e, come tali, non sono suscettive di estensione analogica.

In questa prospettiva va situata anche la disposizione di cui all’art. 526, comma 1 bis, la quale, nel riproporre testualmente il dettato dell’art. 111, comma 4, Cost., vieta di utilizzare quale prova della colpevolezza le dichiarazioni rese da chi per libera scelta si è sempre volontariamente sottratto al contraddittorio. Essa altro non è che una norma di chiusura, limitandosi a stabilire una regola di esclusione, senza alcuna eccezione di sorta; tuttavia ciò non denega che l’imputato, titolare del diritto al contraddittorio in senso soggettivo (diritto dell’imputato a confrontarsi con l’accusatore) possa abdicare a tale diritto e permettere che le dichiarazioni accusatorie siano utilizzate contra se.

Aderendo alla teoria restrittiva, pertanto, appare confacente al dato normativo e alla scelta del legislatore immessa nell’art. 111, comma 4, ritenere che le dichiarazioni rese da chi ha eluso il contraddittorio siano inutilizzabili contro l’imputato, salvo che questi vi acconsenta o che ricorrano le altre ipotesi espressamente disciplinate dal legislatore.

In ordine a questa scelta esegetica va letta la norma dettata in materia di contestazioni, tramite cui si utilizzano taluni atti d’indagine formatisi al di fuori della dialettica processuale con l’effetto, seppur limitato, di valutare la credibilità del soggetto esaminato ovvero con l’acquisizione al fascicolo dibattimentale delle dichiarazioni contestate, con piena valenza probatoria .

1.2. [Segue] la lettura-contestazione e i suoi effetti.

Le dichiarazioni rese in antecedenza possono essere utilizzate nel corso del dibattimento per effettuare le contestazioni. Al dichiarante (testimone o parte che sia) viene contestato di aver reso una difforme dichiarazione in un momento anteriore al dibattimento e ciò al fine, da un canto, di appurare la sua credibilità e, dall’altro, per consentirgli di dare una chiosa della diversa versione.

L’art. 500 c.p.p. dispone che “le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste”, segnando in tal guisa una profonda frattura con la disciplina precedente, giacché consente la lettura-contestazione ma senza acquisizione; invero, nell’ipotesi in cui permanga il contrasto, le dichiarazioni non possono costituire prova dei fatti in esse affermati ma solo essere utilizzate per verificare e valutare la credibilità del teste.

Così il precedente difforme non potrà essere acquisito al fascicolo del dibattimento e, dunque, non potrà nemmeno essere utilizzato dal giudicante; potrà tuttavia paralizzare l’efficacia probatoria delle dichiarazioni rese dal testimone in dibattimento.

A fronte di contraddizioni tra quanto dichiarato dal testimone nel corso delle indagini e quanto successivamente da lui affermato in dibattimento, il giudice potrà ritenere che le dichiarazioni dibattimentali non siano credibili; convincersi che il teste abbia detto il vero in dibattimento oppure, sulla base della contestazione, non potrà ritenere provate le circostanze affermate nel corso delle indagini, giacché le relative dichiarazioni non sono state acquisite al fascicolo per il dibattimento e, pertanto, non concorrono alla formazione del patrimonio di conoscenze utilizzabile dal giudicante.

Nella diversa ipotesi in cui il teste in dibattimento dichiari di non ricordare e, tuttavia, rispondendo alla contestazione di chi conduce l’esame, ammetta di aver reso nella fase predibattimentale le dichiarazioni lette per le contestazioni, queste vengono acquisite al patrimonio conoscitivo del giudice, il quale, con la dovuta cautela e tenuto conto dell’intera piattaforma probatoria, potrà farne oggetto di austera valutazione. Ergo, alla luce di ciò il riconoscimento da parte del teste della veridicità di una propria precedente dichiarazione resa ha valenza di indizio, che, per assurgere al rango di prova, deve essere valutato con altri indizi gravi, precisi e concordanti.

Tale conclusione costituisce il logico corollario delle scelte legislative dirette all’attuazione dei principi dettati dall’art. 111 Cost.. Invero, nella già invocata prospettiva della impermeabilità del processo, non può ritenersi che nel caso di cui sopra la prova si sia formata in dibattimento, nel pieno rispetto dei principi dell’oralità e del contraddittorio, giacché in realtà non vi è stata alcuna dialettica tra le parti, essendosi il teste limitato a confermare la veridicità di una dichiarazione resa previamente, senza tuttavia sottoporsi all’esame incrociato, evitando così di rispondere alle domande formulategli dalle parti.

Non può essere sottaciuto lo sforzo di alcuni autori di recuperare la piena valenza probatoria delle dichiarazioni predibattimentali rese dal teste che, sottoposto all’esame incrociato, si trinceri dietro il “non ricordo”, pur essendo palmare, per altri elementi emergenti dal processo, la sua reticenza.

Al riguardo si afferma che la legge, pur espressamente vietando l’utilizzazione delle contestazioni ai fini della prova, consente che le stesse possano ugualmente contribuire a formare il convincimento del giudice. Vero è che l’art. 111 Cost. stabilisce che la prova si forma nel contraddittorio delle parti ma è allo stesso modo vero che l’esame del teste non si fonda soltanto sulle risposte che egli dà ma anche sulle domande formulate dalle parti: è dal complesso della domanda e della risposta che si forma la prova. Pertanto, nel caso in cui il teste renda una dichiarazione difforme dalla precedente ed il p.m. o il difensore proceda alla relativa contestazione, formulando una domanda con lo stesso contenuto della contestazione, ed il teste neghi la circostanza in maniera evidentemente reticente, il giudice potrebbe maturare il convincimento che i fatti si siano svolti come indicato nella domanda e non anche nella risposta reticente. Ciò vuol dire, in altri termini, che se da una parte va esclusa funditus la possibilità di elevare a rango di prova la pura e semplice contestazione, dall’altra, ove la circostanza oggetto della contestazione venisse rimodulata sotto forma di domanda e il teste rispondesse in maniera falsa o reticente, il giudice potrebbe trarre da tale comportamento la prova che le cose siano andate esattamente come indicato nella domanda.

Sia la dottrina che la giurisprudenza prevalenti hanno riconosciuto la possibilità che si proceda a contestazione anche nei confronti del teste silente e ciò distinguendo il problema dell’utilizzabilità o meno delle dichiarazioni contestate e quello della funzione svolta dalle contestazioni nell’economia dell’esame incrociato. In merito a questo è possibile affermare che il “non ricordo” rappresenta comunque il contenuto di una sia pur minimale deposizione e che l’art. 500 c.p.p., nella parte in cui stabilisce che la contestazione si può fare soltanto se il teste ha deposto, intende affermare con semplicità che la contestazione deve seguire la deposizione, collocandola, quindi, temporalmente in maniera tale da non pregiudicare la genuinità della risposta, ma senza con ciò denegare a priori la possibilità che la contestazione possa avere luogo. Il Supremo collegio ha posto l’attenzione – benché riferendosi alla vecchia versione dell’art. 500 – che, quando il teste dichiari di non ricordare, trattasi comunque di una divergenza rispetto alle risultanze delle indagini preliminari e che sull’analisi esegetica non inciderebbe la facoltà attribuita al teste, su autorizzazione del giudice, di servirsi di documenti da lui redatti e di atti d’investigazione svolta, poiché la detta facoltà non concernerebbe le contestazioni nell’esame testimoniale bensì le modalità di svolgimento del medesimo (Cass. pen. 24.04.1997).

1.3. [Segue] il “non ricordo” del teste e l’art. 512 c.p.p..

La Consulta ha ritenuto che da una mera esegesi dell’art. 512 c.p.p. affiora che, ai fini della legittima lettura in dibattimento, la norma postula la sola condizione della impossibilità di ripetizione degli atti per motivi di fatto o circostanze imprevedibili, fra i quali nulla autorizza ad escludere un’infermità del teste determinante l’assoluta amnesia sui fatti di causa.

In una pronuncia successiva , la Corte costituzionale, in riferimento all’art. 111, comma 5, ha affrontato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 512, nella parte in cui consente la lettura degli atti assunti nel corso delle i.p. solo quando ne è divenuta impossibile la ripetizione per fatti o circostanze imprevedibili. Nella specie il giudice a quo era stato adito al fine di decidere sull’acquisizione al fascicolo dibattimentale del verbale di una individuazione fotografica effettuata da un testimone nell’immediatezza dei fatti, atto poi divenuto irripetibile a causa dell’incapacità del teste a ricordare alcunché relativamente all’esito dello stesso nonché di focalizzare l’immagine della persona, all’epoca dei fatti riconosciuta. Ebbene, il giudice a quo riteneva che la norma sindacata, nel contemplare limiti estranei e ulteriori (s’intendono l’imprevedibilità e l’irreperibilità) all’operatività delle deroghe al principio del contraddittorio nella formazione della prova, configgeva col 5° comma dell’art. 111, Cost., laddove si faceva riferimento esclusivo alla “accertata impossibilità di natura oggettiva” della ripetizione della prova. L’occasione serviva alla Corte per marcare la differenza tra impossibilità oggettiva di ripetizione dell’atto dichiarativo (derivante ipoteticamente da morte, infermità comportante una totale amnesia del teste, irreperibilità), la quale viene inglobata nel tenore di applicazione dell’art. 512, e mera incapacità dedotta dal teste di richiamare il contenuto dell’atto assunto durante le i.p.; in quest’ultimo caso, indipendentemente da valutazioni in ordine alla prevedibilità dell’impossibilità di ripetizione dell’atto stesso (considerando, per esempio, l’età del teste o il notevole lasso di tempo intercorso tra l’assunzione dell’atto e la verifica dibattimentale), non si versa nell’ipotesi dell’oggettiva impossibilità di procedere all’assunzione dell’atto e, pertanto, non è applicabile l’art. 512, correttamente interpretato.

La lettura estensiva della norma in esame – secondo la Corte – è incompatibile con l’ambito di applicazione della specifica ipotesi di deroga del contraddittorio per accertata impossibilità di natura oggettiva prevista dal 5° comma dell’art. 111 Cost.. Ove si consideri, infatti, anche il testuale riferimento contenuto al 4° comma della stessa norma alle dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre sottratto volontariamente all’interrogatorio, il richiamo all’impossibilità di natura oggettiva non può che riferirsi a fatti indipendenti dalla volontà del dichiarante, che di per sé rendono non ripetibili le dichiarazioni previamente rese.

In via definitiva, a tenore dell’invocata giurisprudenza costituzionale, deve escludersi la possibilità di ricorrere, a fronte del teste che non ricordi più i fatti sui quali è esaminato in dibattimento, allo strumento disciplinato dall’art. 512 c.p.p., profittevole allorché il venir meno della memoria dipendesse da cause patologiche e non quando invece fisiologicamente riconducibile al trascorrere del tempo.

1.4. [Segue] la lettura-contestazione con conseguente acquisizione.

Se la reticenza è il frutto di violenza, lusinga o minaccia sul dichiarante, trova applicazione il quarto comma dell’art. 500 c.p.p., a tenore del quale “quando, anche per le circostanza emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate”; in casi del genere “il giudice decide senza ritardo, svolgendo gli accertamenti che ritiene necessari, su richiesta della parte, che può fornire gli elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità” (quinto comma). In tal guisa si realizza una lettura-contestazione con acquisizione al fascicolo per il dibattimento: le dichiarazioni rese in sede predibattimentale, pertanto, potranno essere utilizzate dal giudice per la decisione e valutate secondo i consueti canoni interpretativi.

La norma in realtà traduce la deroga alla formazione della prova in contraddittorio prevista dall’art. 111, 5° co., Cost., il quale, oltre al “consenso dell’imputato” e alla “accertata impossibilità di natura oggettiva”, contempla l’ipotesi della “provata condotta illecita”.

Ebbene, al fine di acclarare i condizionamenti subiti dal testimone, facendo riferimento al dato letterale, è possibile ritenere che siano bastevoli elementi concreti, il che se da una parte esclude la necessità di una prova dotata del grado di consistenza necessario per fondare un giudizio di condanna, dall’altra, esclude che il giudice si possa accontentare di meri postulati.

La prova della coartazione può ritenersi raggiunta anche sulla base della sola modalità dell’esame ed è chiarificatore – seppur con le opportune cautele – l’esame critico della ritrattazione dibattimentale, poiché qualora essa non venisse chiosata con adeguatezza e non potesse essere intesa quale manifestazione dell’intento di ristabilire tardivamente una verità adombrata nella fase delle indagini preliminari, il contegno dibattimentale del dichiarante diventerebbe ad un tempo il presupposto per l’applicazione della norma in esame ed uno degli elementi di convincimento di un probabile intervento inquinante.

Esclusa pertanto la necessità di una piena prova (vale a dire della stessa consistenza di quella richiesta per il giudizio di condanna), al giudicante è riconosciuto un modesto margine di elasticità al fine di accertare che il teste non sia stato vittima di pressioni illecite, fondando la propria decisione su elementi concreti, dei quali dovrà dare adeguata spiegazione in motivazione ex art. 546, comma 1, lett. e), c.p.p..

Come ricordato da Ferrua “il grado della prova va individuato tra due estremi: da un lato, sarebbe insensato pretendere che lo standard debba essere rappresentato dalla prova al di là di ogni ragionevole dubbio, necessaria una pronuncia di condanna; dall’altro, occorre evitare che gli elementi concreti si tramutino in vaghe ragioni, in semplici motivi di sospetto”.

Altra ipotesi di acquisizione è quella configurata dal 6° comma dell’art. 500 c.p.p., in vista del quale è consentito acquisire al fascicolo del dibattimento, a richiesta di parte, le dichiarazioni assunte dal giudice nell’udienza preliminare se utilizzate per le contestazioni. Queste – oltre alle ipotesi già enucleate – entreranno nel bagaglio conoscitivo del giudice e saranno da questi valutate nei confronti delle parti che hanno partecipato alla loro assunzione.

L’ipotesi conclusiva di acquisizione probatoria è quella collocata nel comma 7 dell’art. 500, secondo cui “su accordo delle parti le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento”. Essa esprime un aspetto della regola generale già stabilita dall’art. 493, comma 3, c.p.p., e disciplina la c.d. acquisizione concordata al fascicolo dibattimentale di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. È possibile che il consenso venga prestato, oltre che dal p.m., da alcuni imputati e non da altri; in siffatto caso gli effetti dell’atto ricadranno unicamente su quelle parti che hanno manifestato il consenso. Si tratta di un caso di utilizzazione relativa in chiave soggettiva dell’atto. Non è escluso, inoltre, che il giudice possa officiosamente disporre l’assunzione di mezzi di prova relativi agli atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento. Controverso è il caso in cui la parte civile non presti il consenso; invero, la dizione generica dell’espressione utilizzata dal legislatore indurrebbe a ritenere che l’atto non possa venire acquisito.