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La correlazione tra accusa e sentenza tra passato e presente

Nel sistema processuale nel 1930, la fase dell’istruzione cristallizzava l’accusa sulla quale il giudice doveva pronunciarsi; talché, se nel dibattimento l’addebito risultava diverso da come ipotizzato, il rito regrediva alla fase anteriore al giudizio, che doveva essere incardinato ex novo ridefinendone l’oggetto.

Diversa impostazione nell’attuale modello, il quale implica imputazioni fluide nel corso dibattimentale, sensibili a quanto rivelano le prove, poiché da queste affiora l’autentico accertamento.

Ma alla fine è d’uopo che l’accusa si consolidi: il giudice non potrà decidere su fatti non contestati formalmente e se riterrà che quelli emersi siano dissonanti da quelli descritti nell’atto imputativo o addebitati in itinere, dovrà necessariamente restituire le carte al p.m. ex art. 521, primo comma, c.p.p.

Una differenza rispetto al passato può sin da subito cogliersi. Se ieri il principio di correlazione riguardava solo il rapporto tra l’accusa determinata nel decreto che dispone il giudizio e la sentenza, oggi, oltre a questo, il rapporto deve riguardare anche quello tra l’addebito che si delinea al termine dell’istruzione dibattimentale e la sentenza medesima.

Il fondamento va rinvenuto nel principio del contraddittorio, che impedisce la pronuncia di una sentenza di condanna in relazione a un fatto non contestato, sia esso diverso o nuovo rispetto a quello enunciato nel capo di imputazione o risultante a seguito delle nuove contestazioni di cui agli artt. 516 e seguenti.

In questa visuale, il principio di correlazione costituisce, in particolare, una garanzia per l’imputato, un presidio che lo pone al riparo dal rischio di essere giudicato per episodi che non gli sono stati formalmente resi noti e di vedere, dunque, polverizzata la difesa allestita in rapporto agli addebiti “ufficiali”.

Tuttavia, la norma, limitando i poteri decisori del giudice, si pone anche a baluardo dell’imparzialità e della neutralità dell’organo giudicante, garantendo al contempo il rispetto delle prerogative del p.m., unico soggetto deputato alla ricerca e alla individuazione del fatto oggetto del thema decidendum.

Avendo individuato la ragion d’essere del principio in esame nella indefettibile esigenza di salvaguardia del diritto di difesa, la cui espressione è sancita al più alto livello (art. 24 Cost.), la giurisprudenza prevalente ha affermato che il vaglio in ordine al rispetto di tale principio va effettuato in concreto, con riguardo non al “pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza” ma alla circostanza che “l’imputato, attraverso l’iter processuale, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione”.

Per aversi mutamento del fatto, infatti, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta, sì da pervenire a un’incertezza dell’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti di difesa. Orientamento definito teleologico o sostanzialistico, in quanto misura il rispetto del principio di correlazione con la verifica del rispetto in concreto del diritto di difesa dell’imputato, incentrandosi così sul fine della norma: assicurare la salvaguardia del contraddittorio tra le parti.

Di segno opposto è la dominante dottrina, la quale obietta che la possibilità della difesa deve essere garantita, ancor prima che in concreto, in astratto, rilevando che l’apprezzamento compiuto dal giudice in sede di decisione, a causa degli ampi margini di discrezionalità che lo contraddistinguono, comporta sempre un’alea di lesione del diritto di difesa.

Può dirsi, con ragionevolezza, che l’accusa oggetto del processo, intesa quale “episodio della vita umana”, è rimessa al potere di precisazione e di modificazione del giudice, attraverso l’utilizzazione degli atti compiuti nel procedimento, in relazione ai quali l’imputato sia stato posto nell’effettiva condizione di difendersi, con il limite dato dall’impossibilità per il giudice di incidere sugli elementi costitutivi del reato formalmente contestato.

Per questa via si è fatta strada una teorizzazione, quella della “contestazione implicita”, volendosi riferire con tale espressione alla possibilità riconosciuta in capo al giudice di addebitare all’imputato una fattispecie di reato non emersa dall’imputazione ma ricostruita sulla base di tutte le emergenze del processo, col rischio, per taluni, di configurare in capo al prevenuto un onere di difendersi rispetto a ogni possibile ricostruzione storica del fatto processuale.

La Corte di legittimità ha ribadito che l’indagine circa la lesione del principio di correlazione non può limitarsi a verificare se vi sia stato o meno un mutamento essenziale dell’accusa, ma deve accertare se sia stato intaccato il diritto di difesa dell’imputato. Con ulteriori argomenti afferma che il principio è rispettato quando la prospettazione del fatto diverso provenga dallo stesso imputato.

Si è precisato, però, che del criterio teleologico non può darsi un’interpretazione troppo ampia, non potendo concernere le ipotesi in cui tra i due fatti vi sia un rapporto di “piena e irriducibile alterità”, ma solo quelle in cui il fatto contestato e quello diverso abbiano una matrice unitaria.

Sforzandosi così di elaborare un criterio capace di vagliare la violazione del principio in esame, fatto consistere ora nella trasformazione ora nella variazione o sostituzione degli elementi essenziali dell’addebito, la giurisprudenza si è concentrata sul rapporto di continenza sussistente tra le due condotte, escludendo la violazione ogniqualvolta quella ritenuta in sentenza abbia mantenuto i connotati distintivi della prima, contenendo profili solo più specifici rispetto agli elementi di portata più generale dell’ipotesi contestata ab origine.

Nel sistema processuale nel 1930, la fase dell’istruzione cristallizzava l’accusa sulla quale il giudice doveva pronunciarsi; talché, se nel dibattimento l’addebito risultava diverso da come ipotizzato, il rito regrediva alla fase anteriore al giudizio, che doveva essere incardinato ex novo ridefinendone l’oggetto.

Diversa impostazione nell’attuale modello, il quale implica imputazioni fluide nel corso dibattimentale, sensibili a quanto rivelano le prove, poiché da queste affiora l’autentico accertamento.

Ma alla fine è d’uopo che l’accusa si consolidi: il giudice non potrà decidere su fatti non contestati formalmente e se riterrà che quelli emersi siano dissonanti da quelli descritti nell’atto imputativo o addebitati in itinere, dovrà necessariamente restituire le carte al p.m. ex art. 521, primo comma, c.p.p.

Una differenza rispetto al passato può sin da subito cogliersi. Se ieri il principio di correlazione riguardava solo il rapporto tra l’accusa determinata nel decreto che dispone il giudizio e la sentenza, oggi, oltre a questo, il rapporto deve riguardare anche quello tra l’addebito che si delinea al termine dell’istruzione dibattimentale e la sentenza medesima.

Il fondamento va rinvenuto nel principio del contraddittorio, che impedisce la pronuncia di una sentenza di condanna in relazione a un fatto non contestato, sia esso diverso o nuovo rispetto a quello enunciato nel capo di imputazione o risultante a seguito delle nuove contestazioni di cui agli artt. 516 e seguenti.

In questa visuale, il principio di correlazione costituisce, in particolare, una garanzia per l’imputato, un presidio che lo pone al riparo dal rischio di essere giudicato per episodi che non gli sono stati formalmente resi noti e di vedere, dunque, polverizzata la difesa allestita in rapporto agli addebiti “ufficiali”.

Tuttavia, la norma, limitando i poteri decisori del giudice, si pone anche a baluardo dell’imparzialità e della neutralità dell’organo giudicante, garantendo al contempo il rispetto delle prerogative del p.m., unico soggetto deputato alla ricerca e alla individuazione del fatto oggetto del thema decidendum.

Avendo individuato la ragion d’essere del principio in esame nella indefettibile esigenza di salvaguardia del diritto di difesa, la cui espressione è sancita al più alto livello (art. 24 Cost.), la giurisprudenza prevalente ha affermato che il vaglio in ordine al rispetto di tale principio va effettuato in concreto, con riguardo non al “pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza” ma alla circostanza che “l’imputato, attraverso l’iter processuale, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione”.

Per aversi mutamento del fatto, infatti, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta, sì da pervenire a un’incertezza dell’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti di difesa. Orientamento definito teleologico o sostanzialistico, in quanto misura il rispetto del principio di correlazione con la verifica del rispetto in concreto del diritto di difesa dell’imputato, incentrandosi così sul fine della norma: assicurare la salvaguardia del contraddittorio tra le parti.

Di segno opposto è la dominante dottrina, la quale obietta che la possibilità della difesa deve essere garantita, ancor prima che in concreto, in astratto, rilevando che l’apprezzamento compiuto dal giudice in sede di decisione, a causa degli ampi margini di discrezionalità che lo contraddistinguono, comporta sempre un’alea di lesione del diritto di difesa.

Può dirsi, con ragionevolezza, che l’accusa oggetto del processo, intesa quale “episodio della vita umana”, è rimessa al potere di precisazione e di modificazione del giudice, attraverso l’utilizzazione degli atti compiuti nel procedimento, in relazione ai quali l’imputato sia stato posto nell’effettiva condizione di difendersi, con il limite dato dall’impossibilità per il giudice di incidere sugli elementi costitutivi del reato formalmente contestato.

Per questa via si è fatta strada una teorizzazione, quella della “contestazione implicita”, volendosi riferire con tale espressione alla possibilità riconosciuta in capo al giudice di addebitare all’imputato una fattispecie di reato non emersa dall’imputazione ma ricostruita sulla base di tutte le emergenze del processo, col rischio, per taluni, di configurare in capo al prevenuto un onere di difendersi rispetto a ogni possibile ricostruzione storica del fatto processuale.

La Corte di legittimità ha ribadito che l’indagine circa la lesione del principio di correlazione non può limitarsi a verificare se vi sia stato o meno un mutamento essenziale dell’accusa, ma deve accertare se sia stato intaccato il diritto di difesa dell’imputato. Con ulteriori argomenti afferma che il principio è rispettato quando la prospettazione del fatto diverso provenga dallo stesso imputato.

Si è precisato, però, che del criterio teleologico non può darsi un’interpretazione troppo ampia, non potendo concernere le ipotesi in cui tra i due fatti vi sia un rapporto di “piena e irriducibile alterità”, ma solo quelle in cui il fatto contestato e quello diverso abbiano una matrice unitaria.

Sforzandosi così di elaborare un criterio capace di vagliare la violazione del principio in esame, fatto consistere ora nella trasformazione ora nella variazione o sostituzione degli elementi essenziali dell’addebito, la giurisprudenza si è concentrata sul rapporto di continenza sussistente tra le due condotte, escludendo la violazione ogniqualvolta quella ritenuta in sentenza abbia mantenuto i connotati distintivi della prima, contenendo profili solo più specifici rispetto agli elementi di portata più generale dell’ipotesi contestata ab origine.