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La colpa nel delitto di ingiuria

Sembrerà incredibile, ma non ho ricordo di aver udito, da alcun avvocato, un’arringa che abbia sviluppato il tema della colposità dell’ingiuria, reato di cui si dibatteva (sempre che di ingiuria si trattasse); è infatti pessima abitudine, secondo me di troppi, argomentare estensivamente solo il motivo principale di assoluzione (di solito, per non aver commesso il fatto o per non essersi raggiunta la prova), per poi citare gli altri in subordine, come una lista della spesa, senza dare sulla ravvedibilità della sussistenza degli stessi, una benché minima spiegazione.

Senza poter presentare statistiche, vi posso garantire per mia esperienza, creatasi con l’esame di centinaia e centinaia di casi di “ingiuria” proposti in giudizio, che quelli in cui, a mio avviso, poteva ravvisarsi palese colposità, erano la quasi totalità.

Se quindi, quest’importante elemento, che rende non punibile il fatto (non esiste un reato di ingiuria colposa), non viene esposto con il giusto risalto, le chances di assoluzione dell’imputato verranno ad essere sensibilmente menomate, per ingiustificabile mancanza di diligenza del legale, ma questa è solo una mia opinione.

Addentriamoci ora nell’elemento soggettivo colpa così come descritto dall’art. 43 c.p.: “Il delitto è colposo o contro l’intenzione, quando l’evento anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia...”.

L’Antolisei affermava che “Il soggetto aveva la possibilità ed il dovere di essere cauto ed attento, mentre ha agito con leggerezza”, vi è quindi da ritenere che il nisus voluntatis che avrebbe impedito l’accadimento, si può pretendere dalla persona che per pigrizia mentale lo ha commesso, ma per fare ciò questa deve essere stata nella condizione di poter vincere questa pigrizia, ponendo la giusta attenzione a quello che faceva. Nello scontro verbale o nella persona che aggredisce verbalmente chi le ha causato un danno ingiusto, nel senso non giuridico del termine, mi è facile vedere colpa, ma non altrettanto il dolo.

Quando lo scontro verbale sorge a fronte di uno stato di tensione di derivazione pregressa, si deve logicamente ritenere che la sola visione dell’“avversario” susciti spontaneamente un’irresistibile o comunque elevato sentimento di ostilità per cui, se per cause temporali si dovesse ritenere non applicabile il secondo comma dell’art. 599 c.p., comunque, deve ravvedersi, normalmente, la presenza di colpa, salvo prova contraria riesca a dimostrare il dolo. Ricordiamo che la non immediatezza non sempre significa “a sangue freddo” e non è indizio certo di dolo, non si cada in questo errore!

Essendo fondamentale la presenza della costituzionale presunzione di innocenza dell’imputato fino a prova contraria, nel giudizio per ingiuria, il principio si deve materializzare nella presunzione di colposità o se del caso, concolposità.

Dire che la consumazione del delitto non è voluta, significa che nell’animo dell’imputato, non vi era premeditazione né consapevolezza di menomare l’altrui opinione dell’offeso, consapevolezza di infliggergli danno all’immagine pubblica.

Come dicevo prima, pretendere da taluno perizia mentale (il nisus voluntatis) nel porsi un freno in uno scontro verbale, in un clima di conflittualità tra persone, durante uno stato di tensione, in un momento anche di vicinanza fisica tra le parti, durante il quale gli insulti sgorgano senza una preventiva preparazione di una loro selezione da somministrare all’offendendo, non è cosa facilmente pensabile, da un uomo medio.

E’ evidente quindi come in tali condizioni, non sia difficile vedere che l’elemento soggettivo sotteso alla condotta è la colpa.

Quindi, la colpa nell’ingiuria consiste nell’essere stati imperiti, ma si può affermare anche non diligenti, nel comportarsi nel frangente di un’aggressione verbale, da questo si deduce che nel caso d’ingiurie reciproche senza presenza di testi o con testi non dirimenti, il giudice dovrà confermare la presunzione di colposità o concolposità iniziale, trasferendola nel provvedimento definitivo, ossia la sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato.

Facciamo un esempio ipotetico per maggiore chiarezza: una persona addetta all’assegnazione di alloggi residenziali pubblici, viene più volte contumeliata da persone con lei rapportatesi all’interno del suo ufficio e, decide, di mettere in pratica una politica di querele: gli insultanti che sorte avrebbero in un processo?

Dobbiamo chiederci, innanzi tutto, per quale motivo queste persone erano spinte ad aggredire verbalmente costei; viene logico supporre che queste si trovavano in stato di grave agitazione creata dallo spettro di non poter avere un tetto sopra la testa. In questo frangente, quale comportamento possiamo logicamente pretendere da loro a fronte del sentirsi opporre un fermo diniego da parte di chi hanno di fronte, forse un aplomb britannico?

La persona eventuale imputata, apre la bocca ma chi parla è la sua disperazione, il suo logico terrore: non vi può essere dolo nelle sue parole, dolo che si sostanzierebbe o nella programmazione da parte dell’agente di aggredire verbalmente (magari anche minacciare) l’impiegato qualora avesse respinto le sue istanze, ipotesi, mi si consenta dire, delirante, oppure nella consapevolezza dell’agente, attraverso un’aggressione con parole, di ledere l’opinione altrui su quell’impiegato il quale, chiaramente, è ritenuto dall’“ingiuriatore” operare un illecito ostacolo alle sue richieste.

Il medesimo esempio può essere letto anche in questo modo: una persona che rischia di finire in strada, angosciata e disperata, si reca nell’ufficio ove l’impiegato respinge le sue richieste; al rifiuto, ritenuto ingiusto, la paura aumenta e lo stato di acuto disagio soverchia la persona che contumelia chi le sta davanti: dovrebbe operare il combinato disposto degli artt. 599, comma secondo c.p. e 59, comma quarto, c.p. con il riconoscimento della scriminante putativa, in quanto l’aggressore riteneva di subire un’ingiustizia, oppure si dovrebbe riconoscere l’evidente colposità della condotta.

La colpa nell’ingiuria può ravvisarsi nel deficit di perizia nell’operare sul proprio autocontrollo o/e di prudenza nel non aver utilizzato il comodus discessus, per sottrarsi all’occasione di contrasto.

Notasi che mai si valuta nel processo la possibilità di affrontare il tema del comodus discessus, perché tale argomento non viene mai sfruttato dalla difesa, quanto meno per rafforzare le possibilità di ottenimento della declaratoria di concolposità. In estrema sintesi: occasione di diverbio > possibilità di comodus discessus > non esercizio di tale facoltà > scontro accettato > condolosità o concolposità > quindi o applicazione del 599 o dichiarazione che il fatto non costituisce reato.

Non dimentichiamo che la colpa equivale ad assoluzione.

Ecco un’altro esempio sempre ipotetico, che è bene fare perché, oggi giorno, di grande attualità. Abbiamo un giovane il quale rimane vittima di un “incintamento doloso”, ossia la ragazza con cui usciva, lo aveva garantito circa la propria (inesistente) infertilità cosicché ora, costui, si ritrova, per tutta la vita, a dover mantenere un figlio non voluto e dover rapportarsi con la di lui madre che diventa l’ultima donna che vorrebbe incontrare per la strada.

In un incontro chiarificatore tra i due scoppia un diverbio in seguito al quale il giovane si ritrova imputato per averla apostrofata quale ”donna di facili costumi”: questo epiteto, uscitogli in un chiaro momento di grave turbamento emotivo, sicuramente, gli costerà la pregiudicatezza, la multa e tutti gli altri annessi e connessi.

Al di là del fatto che si dovrebbero vedere gli accadimenti nell’ottica del secondo comma dell’articolo 599 c.p. (o 599+59), perché, non ci si prenda in giro, il giovane era stato vittima del fatto ingiusto di controparte, comunque perché non riconoscere almeno la diminuente di cui al secondo comma dell’articolo 62 c.p. ... perché non la colposità dei fatti e per completezza, perché la non punibilità per aver esercitato il proprio diritto di critica espresso in maniera non ortodossa?

Terzo ed ultimo esempio che chiamerò il caso della società finanziaria.

Tutti siamo a conoscenza che alcune società di intermediazione finanziaria (cioè che contattano le banche al posto dell’aspirante debitore), promettono prestiti anche a cattivi pagatori, protestati, ecc., salvo poi incamerare cifre non indifferenti, chiaramente corrisposte nella ragionevole certezza del buon esito dell’operazione, senza dare in cambio il positivo riscontro.

Quale è l’animo, l’elemento soggettivo di chi ha sborsato, avendo bisogno di soldi, per avere in mano un pugno di mosche?

Facciamo un’operazione che pochi svolgono, e ciò è male, immedesimandoci nella persona che si è rivolta a tale società: non ci sentiremmo presi in giro, raggirati, truffati, trovandoci normalmente con l’equivalente di uno stipendio in meno in tasca e privi dell’agognato prestito? E’ ragionevole pensare che nei reclami che presenteremmo nei confronti della società i toni possano accendersi? Possiamo noi depauperati, essere richiesti di uno sforzo tanto rilevante consistente nel trattenerci?

Verrebbe da rispondere senza tema, certo...ma non siamo stati periti nell’operare sui nostri freni inibitori, sul nostro autocontrollo, siamo stati negligenti e forse imprudenti nel non sfruttare un comodus discessus dall’occasione di scontro, residente nel rivolgersi ad un legale...ma di solito l’uomo medio, dati i costi, ricorre alle prestazioni di tale professionista solo se proprio costretto.

Trattenersi è operazione per forti non facilmente eseguibile dall’uomo medio, uomo medio per giunta in stato di difficoltà economiche, frustrato da condizioni di aggravato disagio, sicché in questo caso si deve ravvedere la colpa nell’imperizia nel non essere riusciti a tenersi a freno, del resto, lo stato d’animo di chi poi, nei contatti successivi con la finanziaria viene rimbalzato da un muro di gomma, non può essere pacato. È bene ricordare che l’uomo medio è meno del buon padre di famiglia, l’uomo medio non è flemmatico, non sempre sconfigge i propri istinti, mi si scusi il gergo brutale, ma chiarificatore: l’uomo medio si incazza!

IL FALSO INDIZIO

Ho assistito, attraverso la partecipazione ai processi, che spesso nell’organo giudicante, il confine tra dolo e colpa grave o gravissima è troppo labile, ovvero egli affronta psicologicamente il processo con una preconcetta presunzione di dolosità a carico dell’imputato nel caso in cui le presunte parole proferite siano molto volgari o corrispondenti ad affermazioni gravissime, ma la volgarità non è dolo così come non è dolo la gravità del proferito.

La gravità dell’“offesa”, causalmente provocata dall’agente, non comporta l’automatica responsabilità penale di costui; l’elemento soggettivo è fondamentale ed è dovere del giudice far si che la sua ricerca sia accurata ed approfondita e se questa non porta ad un’evidenza del dolo, alla sua prova, il giudice deve confermare in sentenza la presunzione di colposità o concolposità iniziale, reperita juvant.

Cari lettori immedesimatevi e pensatevi in tutte le situazioni che in questo scritto sono state portate ad esempio, come uomini medi, non come persone acculturate e controllate: se foste nella loro situazione e vi accadesse di contumeliare chi vi è davanti, le parole, come dissi all’inizio, non vi sgorgherebbero incontrollate e dove è il dolo se non sapete neppure cosa vi esce spontaneamente dalla bocca?

Possiamo capirlo, siamo esseri umani, di fronte a certe bestialità proferite, viene subito da pensare “ha detto una cosa talmente grave che merita di essere punita (oppure: “...che il sistema giuridico non può non volerla punita”) ”: questo ragionamento, però, è giuridicamente inaccettabile, si addossa di fatto all’agente un “dolo a priori” lettura che non trova supporto alcuno nel nostro diritto e che non deve assolutamente trovare ospitalità nelle menti dei giudici di pace.

Per cui se non si dimostra per lo meno un eccesso doloso nella scriminante, ciò possibile nel caso si possa dimostrare che una parte ha trovato, nel diverbio, l’occasione per poter dolosamente diminuire l’altrui stima nell’offeso allora, il giudice, deve presumere persistere la colposità quindi operare nella giusta ottica del favor rei iniziale.

Adottando quest’ottica si capisce che la prova del dolo diventa veramente difficile da soddisfare però, perché una persona debba essere classificata quale ingiuriatore pregiudicato, è giusto che la soddisfazione dell’elemento soggettivo debba essere rigorosamente suffragata da elementi probatori certi così, nel procedimento per ingiuria, deve essere utilizzata la stessa puntualità che si opera nei delitti più gravi nella ricerca della conoscenza dell’elemento soggettivo.

Il fatto che l’ingiuria sia considerata un reato bagatellare, corrente di pensiero che di certo non sposo, non può in ogni caso far derivare che la ricerca dell’elemento soggettivo debba essere, per questo, meno penetrante ed accurata.

Giudice, avvocati e pubblici ministeri devono superare ingiustificabili pudori ed interrogare le persone alla ricerca degli indizi disvelatori del dolo che devono riuscire a superare la già detta presunzione.

Un’ultima osservazione riguardo i cultori del dolo presupposto che possono fare questo ragionamento: nel momento in cui avviene lo scontro verbale, a meno che non si sia incapaci di intendere e volere, ci si rende conto se si ha o meno varcata la soglia dell’illiceità.

Si potrebbe fare un esempio: in una diatriba una persona pronuncia parole gravemente lesive od esecrabili, oggettivamente di danno all’altrui onore: se era compos sui, non poteva non rendersi conto, non poteva non essere “consapevole” del suo andare oltre il lecito...non poteva non rendersi conto non funziona perché uno normalmente si accorge dopo, della gravità della bestialità proferita!

Secondo l’idea che si avversa, in base alla quale la persona “non poteva non rendersi conto” della rilevanza penale del suo agire (ragionamento che dalla gravità dell’elemento oggettivo desume quello soggettivo), possiamo utilizzare la gravità del detto come grave indizio di dolosità. Tale assunto non può essere accettato né accettabile, perché la gravità del fatto-reato, al più può essere grave indizio di colpevolezza, ossia essere interpretato nel senso secondo il quale la gravità è indizio di una grave o gravissima imperizia o negligenza nell’operare da parte del soggetto, a livello di padronanza dell’utilizzo dei propri freni inibitori, non certo essere elevata ad indizio certo, di una condotta dolosa.

Quindi, per concludere, perché una persona possa essere giustamente condannata per il delitto d’ingiuria deve:

1) aver danneggiato il bene onore quale reputazione di cui l’offeso godeva presso i terzi,

2) ciò in base ad una causalità a lui riconducibile ed in presenza dell’

3) elemento soggettivo doloso dimostrato attraverso la presentazione di prove od indizi gravi, precisi e concordanti, che si risolve

4) nella premeditazione della condotta delittuosa o nella

5) consapevolezza di menomare l’altrui reputazione o

6) nell’aver sfruttato l’occasione dello scontro verbale da altri iniziato, per danneggiare il bene protetto altrui.

Mi si consenta un’ultima considerazione: la differenza tra dolo e colpa è ben notevole, non fingiamo di non saper riconoscere immediatamente quale dei due elementi impermea i casi che ci vengono posti ad esame!

Sembrerà incredibile, ma non ho ricordo di aver udito, da alcun avvocato, un’arringa che abbia sviluppato il tema della colposità dell’ingiuria, reato di cui si dibatteva (sempre che di ingiuria si trattasse); è infatti pessima abitudine, secondo me di troppi, argomentare estensivamente solo il motivo principale di assoluzione (di solito, per non aver commesso il fatto o per non essersi raggiunta la prova), per poi citare gli altri in subordine, come una lista della spesa, senza dare sulla ravvedibilità della sussistenza degli stessi, una benché minima spiegazione.

Senza poter presentare statistiche, vi posso garantire per mia esperienza, creatasi con l’esame di centinaia e centinaia di casi di “ingiuria” proposti in giudizio, che quelli in cui, a mio avviso, poteva ravvisarsi palese colposità, erano la quasi totalità.

Se quindi, quest’importante elemento, che rende non punibile il fatto (non esiste un reato di ingiuria colposa), non viene esposto con il giusto risalto, le chances di assoluzione dell’imputato verranno ad essere sensibilmente menomate, per ingiustificabile mancanza di diligenza del legale, ma questa è solo una mia opinione.

Addentriamoci ora nell’elemento soggettivo colpa così come descritto dall’art. 43 c.p.: “Il delitto è colposo o contro l’intenzione, quando l’evento anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia...”.

L’Antolisei affermava che “Il soggetto aveva la possibilità ed il dovere di essere cauto ed attento, mentre ha agito con leggerezza”, vi è quindi da ritenere che il nisus voluntatis che avrebbe impedito l’accadimento, si può pretendere dalla persona che per pigrizia mentale lo ha commesso, ma per fare ciò questa deve essere stata nella condizione di poter vincere questa pigrizia, ponendo la giusta attenzione a quello che faceva. Nello scontro verbale o nella persona che aggredisce verbalmente chi le ha causato un danno ingiusto, nel senso non giuridico del termine, mi è facile vedere colpa, ma non altrettanto il dolo.

Quando lo scontro verbale sorge a fronte di uno stato di tensione di derivazione pregressa, si deve logicamente ritenere che la sola visione dell’“avversario” susciti spontaneamente un’irresistibile o comunque elevato sentimento di ostilità per cui, se per cause temporali si dovesse ritenere non applicabile il secondo comma dell’art. 599 c.p., comunque, deve ravvedersi, normalmente, la presenza di colpa, salvo prova contraria riesca a dimostrare il dolo. Ricordiamo che la non immediatezza non sempre significa “a sangue freddo” e non è indizio certo di dolo, non si cada in questo errore!

Essendo fondamentale la presenza della costituzionale presunzione di innocenza dell’imputato fino a prova contraria, nel giudizio per ingiuria, il principio si deve materializzare nella presunzione di colposità o se del caso, concolposità.

Dire che la consumazione del delitto non è voluta, significa che nell’animo dell’imputato, non vi era premeditazione né consapevolezza di menomare l’altrui opinione dell’offeso, consapevolezza di infliggergli danno all’immagine pubblica.

Come dicevo prima, pretendere da taluno perizia mentale (il nisus voluntatis) nel porsi un freno in uno scontro verbale, in un clima di conflittualità tra persone, durante uno stato di tensione, in un momento anche di vicinanza fisica tra le parti, durante il quale gli insulti sgorgano senza una preventiva preparazione di una loro selezione da somministrare all’offendendo, non è cosa facilmente pensabile, da un uomo medio.

E’ evidente quindi come in tali condizioni, non sia difficile vedere che l’elemento soggettivo sotteso alla condotta è la colpa.

Quindi, la colpa nell’ingiuria consiste nell’essere stati imperiti, ma si può affermare anche non diligenti, nel comportarsi nel frangente di un’aggressione verbale, da questo si deduce che nel caso d’ingiurie reciproche senza presenza di testi o con testi non dirimenti, il giudice dovrà confermare la presunzione di colposità o concolposità iniziale, trasferendola nel provvedimento definitivo, ossia la sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato.

Facciamo un esempio ipotetico per maggiore chiarezza: una persona addetta all’assegnazione di alloggi residenziali pubblici, viene più volte contumeliata da persone con lei rapportatesi all’interno del suo ufficio e, decide, di mettere in pratica una politica di querele: gli insultanti che sorte avrebbero in un processo?

Dobbiamo chiederci, innanzi tutto, per quale motivo queste persone erano spinte ad aggredire verbalmente costei; viene logico supporre che queste si trovavano in stato di grave agitazione creata dallo spettro di non poter avere un tetto sopra la testa. In questo frangente, quale comportamento possiamo logicamente pretendere da loro a fronte del sentirsi opporre un fermo diniego da parte di chi hanno di fronte, forse un aplomb britannico?

La persona eventuale imputata, apre la bocca ma chi parla è la sua disperazione, il suo logico terrore: non vi può essere dolo nelle sue parole, dolo che si sostanzierebbe o nella programmazione da parte dell’agente di aggredire verbalmente (magari anche minacciare) l’impiegato qualora avesse respinto le sue istanze, ipotesi, mi si consenta dire, delirante, oppure nella consapevolezza dell’agente, attraverso un’aggressione con parole, di ledere l’opinione altrui su quell’impiegato il quale, chiaramente, è ritenuto dall’“ingiuriatore” operare un illecito ostacolo alle sue richieste.

Il medesimo esempio può essere letto anche in questo modo: una persona che rischia di finire in strada, angosciata e disperata, si reca nell’ufficio ove l’impiegato respinge le sue richieste; al rifiuto, ritenuto ingiusto, la paura aumenta e lo stato di acuto disagio soverchia la persona che contumelia chi le sta davanti: dovrebbe operare il combinato disposto degli artt. 599, comma secondo c.p. e 59, comma quarto, c.p. con il riconoscimento della scriminante putativa, in quanto l’aggressore riteneva di subire un’ingiustizia, oppure si dovrebbe riconoscere l’evidente colposità della condotta.

La colpa nell’ingiuria può ravvisarsi nel deficit di perizia nell’operare sul proprio autocontrollo o/e di prudenza nel non aver utilizzato il comodus discessus, per sottrarsi all’occasione di contrasto.

Notasi che mai si valuta nel processo la possibilità di affrontare il tema del comodus discessus, perché tale argomento non viene mai sfruttato dalla difesa, quanto meno per rafforzare le possibilità di ottenimento della declaratoria di concolposità. In estrema sintesi: occasione di diverbio > possibilità di comodus discessus > non esercizio di tale facoltà > scontro accettato > condolosità o concolposità > quindi o applicazione del 599 o dichiarazione che il fatto non costituisce reato.

Non dimentichiamo che la colpa equivale ad assoluzione.

Ecco un’altro esempio sempre ipotetico, che è bene fare perché, oggi giorno, di grande attualità. Abbiamo un giovane il quale rimane vittima di un “incintamento doloso”, ossia la ragazza con cui usciva, lo aveva garantito circa la propria (inesistente) infertilità cosicché ora, costui, si ritrova, per tutta la vita, a dover mantenere un figlio non voluto e dover rapportarsi con la di lui madre che diventa l’ultima donna che vorrebbe incontrare per la strada.

In un incontro chiarificatore tra i due scoppia un diverbio in seguito al quale il giovane si ritrova imputato per averla apostrofata quale ”donna di facili costumi”: questo epiteto, uscitogli in un chiaro momento di grave turbamento emotivo, sicuramente, gli costerà la pregiudicatezza, la multa e tutti gli altri annessi e connessi.

Al di là del fatto che si dovrebbero vedere gli accadimenti nell’ottica del secondo comma dell’articolo 599 c.p. (o 599+59), perché, non ci si prenda in giro, il giovane era stato vittima del fatto ingiusto di controparte, comunque perché non riconoscere almeno la diminuente di cui al secondo comma dell’articolo 62 c.p. ... perché non la colposità dei fatti e per completezza, perché la non punibilità per aver esercitato il proprio diritto di critica espresso in maniera non ortodossa?

Terzo ed ultimo esempio che chiamerò il caso della società finanziaria.

Tutti siamo a conoscenza che alcune società di intermediazione finanziaria (cioè che contattano le banche al posto dell’aspirante debitore), promettono prestiti anche a cattivi pagatori, protestati, ecc., salvo poi incamerare cifre non indifferenti, chiaramente corrisposte nella ragionevole certezza del buon esito dell’operazione, senza dare in cambio il positivo riscontro.

Quale è l’animo, l’elemento soggettivo di chi ha sborsato, avendo bisogno di soldi, per avere in mano un pugno di mosche?

Facciamo un’operazione che pochi svolgono, e ciò è male, immedesimandoci nella persona che si è rivolta a tale società: non ci sentiremmo presi in giro, raggirati, truffati, trovandoci normalmente con l’equivalente di uno stipendio in meno in tasca e privi dell’agognato prestito? E’ ragionevole pensare che nei reclami che presenteremmo nei confronti della società i toni possano accendersi? Possiamo noi depauperati, essere richiesti di uno sforzo tanto rilevante consistente nel trattenerci?

Verrebbe da rispondere senza tema, certo...ma non siamo stati periti nell’operare sui nostri freni inibitori, sul nostro autocontrollo, siamo stati negligenti e forse imprudenti nel non sfruttare un comodus discessus dall’occasione di scontro, residente nel rivolgersi ad un legale...ma di solito l’uomo medio, dati i costi, ricorre alle prestazioni di tale professionista solo se proprio costretto.

Trattenersi è operazione per forti non facilmente eseguibile dall’uomo medio, uomo medio per giunta in stato di difficoltà economiche, frustrato da condizioni di aggravato disagio, sicché in questo caso si deve ravvedere la colpa nell’imperizia nel non essere riusciti a tenersi a freno, del resto, lo stato d’animo di chi poi, nei contatti successivi con la finanziaria viene rimbalzato da un muro di gomma, non può essere pacato. È bene ricordare che l’uomo medio è meno del buon padre di famiglia, l’uomo medio non è flemmatico, non sempre sconfigge i propri istinti, mi si scusi il gergo brutale, ma chiarificatore: l’uomo medio si incazza!

IL FALSO INDIZIO

Ho assistito, attraverso la partecipazione ai processi, che spesso nell’organo giudicante, il confine tra dolo e colpa grave o gravissima è troppo labile, ovvero egli affronta psicologicamente il processo con una preconcetta presunzione di dolosità a carico dell’imputato nel caso in cui le presunte parole proferite siano molto volgari o corrispondenti ad affermazioni gravissime, ma la volgarità non è dolo così come non è dolo la gravità del proferito.

La gravità dell’“offesa”, causalmente provocata dall’agente, non comporta l’automatica responsabilità penale di costui; l’elemento soggettivo è fondamentale ed è dovere del giudice far si che la sua ricerca sia accurata ed approfondita e se questa non porta ad un’evidenza del dolo, alla sua prova, il giudice deve confermare in sentenza la presunzione di colposità o concolposità iniziale, reperita juvant.

Cari lettori immedesimatevi e pensatevi in tutte le situazioni che in questo scritto sono state portate ad esempio, come uomini medi, non come persone acculturate e controllate: se foste nella loro situazione e vi accadesse di contumeliare chi vi è davanti, le parole, come dissi all’inizio, non vi sgorgherebbero incontrollate e dove è il dolo se non sapete neppure cosa vi esce spontaneamente dalla bocca?

Possiamo capirlo, siamo esseri umani, di fronte a certe bestialità proferite, viene subito da pensare “ha detto una cosa talmente grave che merita di essere punita (oppure: “...che il sistema giuridico non può non volerla punita”) ”: questo ragionamento, però, è giuridicamente inaccettabile, si addossa di fatto all’agente un “dolo a priori” lettura che non trova supporto alcuno nel nostro diritto e che non deve assolutamente trovare ospitalità nelle menti dei giudici di pace.

Per cui se non si dimostra per lo meno un eccesso doloso nella scriminante, ciò possibile nel caso si possa dimostrare che una parte ha trovato, nel diverbio, l’occasione per poter dolosamente diminuire l’altrui stima nell’offeso allora, il giudice, deve presumere persistere la colposità quindi operare nella giusta ottica del favor rei iniziale.

Adottando quest’ottica si capisce che la prova del dolo diventa veramente difficile da soddisfare però, perché una persona debba essere classificata quale ingiuriatore pregiudicato, è giusto che la soddisfazione dell’elemento soggettivo debba essere rigorosamente suffragata da elementi probatori certi così, nel procedimento per ingiuria, deve essere utilizzata la stessa puntualità che si opera nei delitti più gravi nella ricerca della conoscenza dell’elemento soggettivo.

Il fatto che l’ingiuria sia considerata un reato bagatellare, corrente di pensiero che di certo non sposo, non può in ogni caso far derivare che la ricerca dell’elemento soggettivo debba essere, per questo, meno penetrante ed accurata.

Giudice, avvocati e pubblici ministeri devono superare ingiustificabili pudori ed interrogare le persone alla ricerca degli indizi disvelatori del dolo che devono riuscire a superare la già detta presunzione.

Un’ultima osservazione riguardo i cultori del dolo presupposto che possono fare questo ragionamento: nel momento in cui avviene lo scontro verbale, a meno che non si sia incapaci di intendere e volere, ci si rende conto se si ha o meno varcata la soglia dell’illiceità.

Si potrebbe fare un esempio: in una diatriba una persona pronuncia parole gravemente lesive od esecrabili, oggettivamente di danno all’altrui onore: se era compos sui, non poteva non rendersi conto, non poteva non essere “consapevole” del suo andare oltre il lecito...non poteva non rendersi conto non funziona perché uno normalmente si accorge dopo, della gravità della bestialità proferita!

Secondo l’idea che si avversa, in base alla quale la persona “non poteva non rendersi conto” della rilevanza penale del suo agire (ragionamento che dalla gravità dell’elemento oggettivo desume quello soggettivo), possiamo utilizzare la gravità del detto come grave indizio di dolosità. Tale assunto non può essere accettato né accettabile, perché la gravità del fatto-reato, al più può essere grave indizio di colpevolezza, ossia essere interpretato nel senso secondo il quale la gravità è indizio di una grave o gravissima imperizia o negligenza nell’operare da parte del soggetto, a livello di padronanza dell’utilizzo dei propri freni inibitori, non certo essere elevata ad indizio certo, di una condotta dolosa.

Quindi, per concludere, perché una persona possa essere giustamente condannata per il delitto d’ingiuria deve:

1) aver danneggiato il bene onore quale reputazione di cui l’offeso godeva presso i terzi,

2) ciò in base ad una causalità a lui riconducibile ed in presenza dell’

3) elemento soggettivo doloso dimostrato attraverso la presentazione di prove od indizi gravi, precisi e concordanti, che si risolve

4) nella premeditazione della condotta delittuosa o nella

5) consapevolezza di menomare l’altrui reputazione o

6) nell’aver sfruttato l’occasione dello scontro verbale da altri iniziato, per danneggiare il bene protetto altrui.

Mi si consenta un’ultima considerazione: la differenza tra dolo e colpa è ben notevole, non fingiamo di non saper riconoscere immediatamente quale dei due elementi impermea i casi che ci vengono posti ad esame!