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Il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi alla luce delle recenti riforme

1. Considerazioni introduttive

2. Il problema della collocazione topografica e il rebus del bene giuridico tutelato

3. Il soggetto attivo del reato di maltrattamenti

4. La condotta di maltrattamenti: un’analisi

5. La cosiddetta relazione qualificata tra soggetto attivo e vittima dei maltrattamenti

6. Rilievi sul versante soggettivo

7. Il comma 2 dell’articolo 572 del Codice Penale e la problematica della responsabilità dell’autore dei maltrattamenti in caso di suicidio della persona offesa

8. Rapporti con altri reati: brevissimi cenni

 

1. Considerazioni introduttive

L’archetipo dei reati a danno delle fasce deboli è senza dubbio quello previsto dall’articolo 572 del Codice Penale, il quale al comma 1 punisce “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”; al comma 2 è prevista poi una forma di delitto aggravato dall’evento qualora dal fatto derivi una lesione personale grave, una lesione personale gravissima oppure la morte.

I maltrattamenti perpetrati all’interno dell’habitat familiare sono senz’altro uno di quei fatti che di più occupa gli sforzi degli addetti ai lavori nelle aule dei Palazzi di Giustizia italiani: essi, il più delle volte, traggono la loro origine da una degenerazione dei rapporti magari inizialmente neppure avvertita, da un reciproco malumore che poi, attraverso una più o meno lenta escalation, giunge ad un acme di violenza fisica e/o psichica assolutamente vile e censurabile, proprio perché esercitata nei confronti di soggetti che, a causa della loro personalità, non possono opporre adeguate resistenze; altre volte, invece, simili comportamenti sono nient’altro che il frutto di retaggi culturali di origine tribale, che vedono l’uomo come pater familiae investito da una specie di “missione” consistente nell’educazione della prole e – prima ancora –  della propria consorte, i quali, considerati a prescindere "sbagliati" nei loro atteggiamenti e nelle loro relazioni, vanno riportati sulla retta via a qualunque costo e con qualunque mezzo (ecco perché, in una sorta di furore categorizzatorio, la dottrina è usa farli rientrare nei c.d. delitti culturalmente orientati: a tal proposito si veda Cassazione, Sezione VI, 26 aprile 2011, n. 26153, secondo la quale “non rileva, ai fini dell’esclusione del dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia, la circostanza che il marito abbia agito sulla base della convinzione della superiorità della figura maschile all’interno della famiglia e della conseguente legittimità di atteggiamenti "padronali" nei confronti della moglie”).

La frequenza con la quale la pratica ripropone situazioni analoghe a quelle sopra descritte impone, quindi, un’accorta analisi degli aspetti fondamentali del delitto in questione, ponendo l’attenzione anche agli orientamenti giurisprudenziali formatisi sulla norma dell’articolo 572 del Codice Penale e agli interventi riformatori di cui si è reso protagonista il legislatore europeo negli ultimi due anni.

 

2. Il problema della collocazione topografica e il rebus del bene giuridico tutelato

La norma dell’articolo 572 è collocata nel Titolo XI del Libro II del Codice Penale, dedicato ai delitti contro la famiglia; all’interno del Titolo XI, poi, è collocata all’interno del Capo IV, che reca l’intestazione “Dei delitti contro l’assistenza famigliare”.

Questa collocazione  – giustificata da una dottrina minoritaria –  è stata criticata dalla maggioranza degli studiosi (su tutti si considerino MANZINI, Trattato di diritto penale, VII, Torino, 1963, 895 s. e MAGGIORE, Diritto penale, Parte speciale, Bologna, 1950, 695.), i quali rilevano come la sede più adatta ad accogliere questo reato sarebbe stata quella dei reati contro la persona, come peraltro stabiliva il Codice Zanardelli del 1889: secondo la prospettiva adottata dalla dottrina critica, il reato di cui all’articolo 572 si consumerebbe con condotte che ledono l’integrità fisica e morale della persona e che, conseguentemente, “danno luogo a veri e propri reati contro la libertà e la incolumità individuale”

(PISAPIA, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Novissimo Digesto Italiano, X, 1964, 73).

Si aggiunge, poi, che i maltrattamenti possono aver luogo anche tra persone che non sono legate da vincoli famigliari, come già si desume dalla rubrica dell’articolo 572 del Codice Penale e come emerge anche dalla lettura del disposto normativo (il quale richiama, oltre a “una persona della famiglia o comunque convivente”, anche altri soggetti del tutto estranei ad affetti di natura prettamente famigliare), con il che appare senz’altro esatta la considerazione per la quale il turbamento dell’habitat famigliare non emerge sempre e necessariamente come conseguenza delle condotte previste dall’articolo 572 del Codice Penale (ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, Milano, 1957, 315 ss., a tal proposito, ha esattamente osservato che l’unico reato che davvero si pone in contrasto con gli effettivi doveri di assistenza famigliare è l’articolo 570 Codice Penale).

Si badi che il dibattito in questione non è frutto di un capriccio esclusivamente accademico, dal momento che è anche dall’attenta analisi della collocazione topografica delle norme incriminatrici che si individua il bene giuridico oggetto di tutela – con inevitabili conseguenze a livello pratico, per esempio in campo processualpenalistico per quel che riguarda la titolarità di presentare opposizione alla richiesta di archiviazione, la quale, come noto, ai sensi dell’articolo 410 Codice Penale può essere avanzata solamente dalla persona offesa dal reato.

Ecco che allora sulla base delle considerazioni che si è cercato di illustrare brevemente sopra sono scaturiti tre diversi orientamenti: un primo filone dottrinale individua nella famiglia il bene giuridico primario, relegando l’incolumità fisica e psichica delle persone offese ad un ruolo di tutela subordinata (MANZINI, Trattato, cit., 920; lungo tale linea si pone anche la giurisprudenza, la quale ha stabilito che “oggetto della tutela non è solo l’interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia, intesa in senso lato, ma è anche l’interesse del soggetto passivo al rispetto della sua personalità”: cfr. Cassazione 9 novembre 2006, n. 3419 e Cassazione 15 giugno 2006, n. 20542): come osservato, però, questa ricostruzione del concetto di famiglia in senso ampio costituisce una vera e propria petizione di principio, dal momento che dà per dimostrato ciò che in realtà è tutto da dimostrare e che, anzi, elementi testuali e motivi storici sembrano smentire (COPPI, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Enciclopedia giuridica, 1975, § 3, Dejure), ovvero che tutte le persone richiamate dall’articolo 572 del Codice Penale siano da considerare “persone della famiglia” (PECORELLA, Famiglia (delitti contro la), in Enciclopedia giuridica, 1975, XVI, 798).

In secondo luogo, è stato evidenziato che il raggruppamento di alcuni reati all’interno del Titolo dedicato ai delitti contro la famiglia rappresenta in realtà lo scopo di tutela, vale a dire il fine che ha guidato il legislatore nella rilevazione dei beni ai quali accordare protezione: affermare, allora, coma fanno alcuni, che l’oggetto del reato di maltrattamenti è la famiglia significa incorrere nell’evidente equivoco di confondere lo scopo della tutela con il bene giuridico tutelato tralasciando, poi, l’ambiguità del concetto di “famiglia”, come risaputo insuscettibile di una definizione unitaria all’interno del sistema penalistico (COPPI, Maltrattamenti, cit., § 2, pag. 2).

Come evidenziato da dottrina autorevole e come emerge dallo stesso disposto della norma in esame, tuttavia, la formulazione dell’articolo 572 del Codice Penale – che abbraccia, come sopra accennato, nella propria tutela una categoria ampia di persone –  sembrerebbe porre, se non in secondo piano, sicuramente in rilievo meno accentuato i rapporti familiari intesi in senso, per così dire, puro (sul punto COPPI, Maltrattamenti, cit., § 1, pag. 3). Ecco che, allora, secondo un altro indirizzo interpretativo la tutela dei reati di maltrattamenti (e dei reati “famigliari” più in generale) sarebbe diretta non tanto ai beni o agli interessi della famiglia, bensì ai cosiddetti “rapporti di famigliarità”, ovvero quei “rapporti psicologici di varia natura intercorrenti anche tra persone, fra le quali non vi siano rapporti di coniugio, di parentela o di affinità” (PISAPIA, Maltrattamenti, cit., 521).

Su una linea analoga si pone, poi, la manualistica corrente, che identifica il raggio di tutela della norma in esame nell’interesse del soggetto più debole – ovvero di “colui che si trova esposto alla supremazia o all’arbitrio di un familiare o di un soggetto preposto alla sua cura o educazione”(così FIANDACA– MUSCO, Diritto penale, Parte Speciale, II, I, Bologna, 2011, 378) –  contro le degenerazioni dell’autorità e, più nello specifico, nell’interesse del soggetto passivo al rispetto della propria personalità nello svolgimento del rapporto (ha inaugurato questo orientamento PANNAIN, La condotta nel delitto di maltrattamenti, Napoli, 1964, 40): la condotta di cui all’articolo 572 del Codice Penale, infatti, viene posta in essere all’interno delle relazioni interpersonali caratteristiche di un rapporto connotato dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra o, in alternativa, nella fiducia che un soggetto ripone nell’altro; all’interno di un rapporto che si delinea nei termini appena esposti, è fisiologico che ricorrano le circostanze per il verificarsi di atti di prepotenza e sopraffazione da un lato e di maggiore sofferenza e impotenza dall’altro, il quale, o perché è pesante il senso di subordinazione nei confronti dell’autorità o perché è avvinto da un invincibile “senso della famiglia”, non reagisce alle innumerevoli vessazioni che gli vengono impartite.

Si badi: nel reato in questione non si può escludere che venga lesa, in un certo senso, anche l’integrità fisica e/o psichica della vittima, ma questa viene tutelata solamente in via mediata: detto in altro modo, la – appunto –  integrità fisica e/o psichica del soggetto passivo può venire offesa anche dalla singola percossa, dalla singola lesione, dalla singola ingiuria o dalla singola minaccia; ma è la reiterazione di queste a spostare l’asse della risposta sanzionatoria del sistema penalistico verso una misura protettiva della – come anticipato sopra –  “personalità” della vittima (COPPI, Maltrattamenti, cit., § 2, pag. 7).

3. Il soggetto attivo del reato di maltrattamenti

Sebbene la lettera della norma si riferisca al soggetto attivo con il termine “chiunque”, si è di fronte ad un reato proprio – cioè di un reato che può essere commesso solamente da persone in possesso di determinate qualifiche o di uno status di volta in volta precisati dalla norma incriminatrice –  dal momento che il soggetto agente deve essere legato alla vittima da un rapporto famigliare o deve comunque essere investito di un’autorità nei suoi confronti o, in ogni caso, trovarsi in una delle situazioni di affidamento espressamente previste dalla norma.

Non ci si trova d’accordo con quanto sostenuto da pur autorevolissima dottrina, la quale – sotto la vigenza della previgente versione dell’articolo 572 del Codice Penale –  distingueva a seconda che il fatto venisse commesso nei confronti del minore di anni quattordici rispetto a tutte le altre situazioni contemplate dalla norma di cui all’articolo 572 del Codice Penale: mentre in questi ultimi casi il reato avrebbe dovuto di regola qualificarsi come proprio in virtù del rapporto di autorità  o dal vincolo famigliare sussistenti tra il soggetto attivo e la vittima del reato, nella situazione contemplata dall’articolo 572, comma 2, del Codice Penale il particolare vincolo appena citato non sarebbe stato richiesto e, di conseguenza, la cerchia dei possibili soggetti attivi sarebbe stata estesa a “chiunque” nel vero senso del termine.

Ad avviso di chi scrive, tuttavia, il suddetto rapporto di autorità o famigliare sussisteva anche nel caso in cui i maltrattamenti incidano sul minore di anni quattordici: il comma due dell’articolo 572 del Codice Penale, infatti, costituiva una circostanza aggravante ad effetto comune, che, quindi, accedeva al fatto (già perfetto) contemplato dal primo comma. Ma, per giurisprudenza granitica e dottrina consolidata, affinché una circostanza possa definirsi tale, condizione necessaria – ma non sufficiente –  è che la stessa si ponga in rapporto di specialità rispetto alla fattispecie base di reato: essa, in altri termini, deve essere costituita da tutti gli elementi del delitto o della contravvenzione cui inerisce più un elemento cosiddetto specializzante (nel caso in questione lo status di infraquattordicenne).

Allora, se così stanno le cose, perché escludere il rapporto di autorità o il vincolo famigliare dalla  (“vecchia”) fattispecie circostanziata di cui al comma 2? Lo stesso avrebbe dovuto sussistere anche in quel caso; la pena lì era aumentata solamente in virtù dell’ancor minorata difesa che un soggetto, in balia delle proprie passioni, dei propri bisogni e delle proprie inesperienza (riprendendo la locuzione utilizzata dall’articolo 643 del Codice Penale), avrebbe potuto predisporre verso gli atti prevaricatori del soggetto affidatario.

La questione, tuttavia, ha perso d’importanza successivamente all’introduzione nell’ordinamento giuridico della legge di ratifica della Convenzione di Istanbul: la Legge 15 ottobre 2013, n. 119 ha infatti abrogato il previgente comma 2 dell’articolo 572 del Codice Penale (dopo che il Decreto Legge 14 agosto 2013, n. 93 lo aveva modificato sostituendo le parole “minore degli anni quattordici” con “minore degli anni diciotto”) e ha contestualmente introdotto all’articolo 61, n. 11 quinquies, un aggravante comune per il caso di commissione del delitto di maltrattamenti (nonché di un delitto non colposo contro la vita e l’incolumità individuale ovvero contro la libertà personale) in danno o in presenza di un minore degli anni diciotto o in danno di una persona in stato di gravidanza.

4. La condotta di maltrattamenti: un’analisi

L’articolo 572 del Codice Penale delinea la condotta incriminata facendo semplicemente riferimento al nomen iuris della norma, giusto il fatto che si punisce chiunque maltratti una delle persone specificamente indicate dalla disposizione (tanto che più di qualcuno ha avanzato perplessità circa la compatibilità della fattispecie incriminatrice in esame con il – interpretativamente –  costituzionalizzato principio di determinatezza): se ne desume che il delitto in esame rientra a pieno titolo nella categoria cosiddetti dei reati a forma libera, ovvero in quei reati in cui il disvalore dell’illecito è tutto polarizzato sull’evento lesivo, a nulla rilevando le modalità con le quali ad esso si perviene.

Di qui, la condotta di “maltrattamenti” può assumere i significati più vari: può consistere in comportamenti violenti (per esempio: un soggetto che percuote il coniuge), ma anche in aggressioni verbali o di tipo “morale”; ciò che rileva al fine di vedere integrati gli estremi del reato punito dall’articolo 572 del Codice Penale è l’abitualità della condotta, ovvero la reiterazione della stessa in un determinato arco temporale (a riprova di ciò viene normalmente richiamata, oltre all’origine semantica del termine “trattare/maltrattare” – che evocano una condotta che si protrae nel tempo – , anche la tradizione giuridica, originatasi con il Codice Penale sardo del 1859 e poi proseguita con il Codice Zanardelli del 1889, sotto la vigenza dei quali non vi era dubbio alcuno che il reato di maltrattamenti consistesse in condotte reiterate nel tempo).

Si è, dunque, all’interno dei cosiddetti reati abituali (di segno diverso il rilievo di MANZINI, Trattato di diritto penale, cit., 929, il quale considera il reato di maltrattamenti in famiglia alla stregua di un reato permanente), i quali si distinguono a loro volta in due macro-categorie: i reati abituali propri sono quelli in cui le condotte, singolarmente prese, non integrano alcuna rilevanza penale, ma la acquistano solamente alla luce della reiterazione; i reati abituali impropri ricorrono, invece, quando le singole condotte costituiscono già di per sé reato, ma la loro ripetizione nel tempo dà luogo ad una figura di reato più grave (per la verità a monte i reati abituali si distinguono nella categoria del reato necessariamente abituale e del reato eventualmente abituale, il quale si può perfezionare anche con una sola condotta: per un maggiore approfondimento vedasi ALTAVILLA, Lineamenti di diritto criminale, Napoli, 1933, 90; LEONE, Del reato abituale, continuato e permanente, Napoli, 1933, 146; FORNASARI, Reato abituale, in Enc. Giur. Treccani, XXV, 9 ss.).

Il reato di cui si discute non può essere fatto rientrare a priori in una o in un’altra delle categorie appena descritte, dal momento che – a seconda dei casi e come si vedrà di seguito –  può assumere le vesti di reato abituale proprio o improprio (contra PANNAIN, La condotta, cit., 68 ss., secondo il quale, se si affermasse che la condotta tipica di maltrattamenti può esprimersi anche per il tramite di atti autonomamente non qualificabili come reato, si rischierebbe di “superare il limite del principio di legalità”; in ogni caso gli atti, pur non potendo essere qualificati autonomamente come illecito penale, dovranno assumere un carattere di oggettiva gravità quantomeno comparabile con gli altri atti costituenti di per sé fattispecie di reato; ne consegue che vanno esclusi dall’alveo applicativo dell’articolo 572 del Codice Penale gli sgarbi o le mere violazioni del galateo).

Per il primo caso si consideri la situazione nella quale la madre, ponendo in essere comportamenti iperprotettivi nei confronti del figlio (come l’esclusione da attività didattiche e di socializzazione, con privazione rispetto alla possibilità di frequentare altri bambini e riguardo al rapporto con il padre, descritto come una figura violenta e negativa), gli impedisca una normale socializzazione e un adeguato sviluppo psico-fisico, al netto di una possibile configurabilità della suddetta condotta alla stregua di una violenza privata rilevante ai sensi dell’articolo 610 del Codice Penale. Il caso in questione è stato realmente posto all’attenzione dei giudici di legittimità, i quali hanno stabilito che la condotta di maltrattamenti in famiglia non deve necessariamente consistere in atti connotati da un’accezione negativa – come atti di violenza o di mortificazione – ma può anche essere integrata, come nel caso concreto, da comportamenti iperprotettivi, giusta la considerazione per la quale il delitto de quo tutela – seppur in via mediata alla luce delle considerazioni fatte suora al § 2 – la salute psico-fisica della persona offesa (Cassazione pen., Sezione VI, 23 settembre 2011, n. 36503). Per quel concerne la concretizzazione del reato abituale improprio nel delitto in esame, si considerino le condotte di lesione, ingiuria, minaccia, percosse, etc. tutte volte alla mortificazione della persona offesa, cioè alla creazione di uno stato di sofferenza e di soggezione psicologica con effetti di prostrazione e avvilimento (si sarebbe trovato in disaccordo con una simile scelta legislativa CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Parte Speciale, II, Prato, 1883, 1399, il quale evidenziava come, a suo modo di vedere, un’incriminazione specifica per il reato di maltrattamenti in famiglia non fosse di per sé necessaria, visto che le singole condotte che andavano ad integrare un’eventualmente così qualificata fattispecie di reato erano già tutte punite a titolo, appunto, di ingiuria, minaccia, lesioni, etc.).

In quest’ultimo caso, poi, il fatto che le singole condotte già penalmente rilevanti vengano, in ragione dell’abitualità, elevate a rango di maltrattamenti in famiglia ha importanti conseguenze anche a livello di procedibilità: mentre, infatti, il reati di percosse, ingiuria, etc. sono perseguibili a querela della persona offesa, qualora esse vengano fatte assurgere a maltrattamenti in famiglia ex articolo 572 del Codice Penale si procederà d’ufficio.

Il reato di maltrattamenti verso famigliari e conviventi, poi, è indubbiamente costruito in forma commissiva, vista la semantica del termine “maltratta” cui l’articolo 572 del Codice Penale fa ricorso. Ciò non di meno sono emersi dei dubbi circa la possibilità di vedere configurato il reato in esame alla presenza di condotte omissive: i termini della questione, nello specifico, trovano il proprio humus in una recente pronuncia della Cassazione, Sezione VI, 28 febbraio 2013, n. 9724 con la quale i giudici di Piazza Cavour, ribadendo un orientamento consolidato presso i giudici di legittimità, hanno stabilito che “il reato di maltrattamenti è integrato non soltanto da specifici fatti commissivi direttamente opprimenti la persona fisica, sì da imporle un inaccettabile e penoso sistema di vita, ma altresì da fatti omissivi di deliberata indifferenza verso elementari bisogni assistenziali e affettivi di una persona disabile”.

La tesi, tuttavia, pur rispondendo ad esigenze etiche, morali e di tutela del tutto condivisibili, non è, ad avviso di chi scrive, giuridicamente corretta: come ben noto, infatti, qualora una fattispecie incriminatrice sia formulata sulla base di un paradigma di carattere commissivo, l’unico percorso per giungere a configurare la violazione di quella stessa norma in via omissiva è ricorrere alla clausola di equivalenza di cui all’articolo 40 cpv. del Codice Penale, secondo la quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”.

Seppur, nell’ambito dei rapporti di autorità o di famigliarità delineati dall’articolo 572 del Codice Penale, non sia particolarmente complesso ravvisare – almeno in alcune situazioni –  in capo al soggetto agente un obbligo giuridico di impedire l’evento dannoso (derivante dalla legge o da un contratto poco importa), il riconoscimento di una responsabilità penale ai sensi del combinato disposto degli articoli 40 cpv. e 572 del Codice Penale dovrebbe essere impedito in forza di un’altra ragione: l’estensione applicativa dei cosiddetti reati commissivi mediante omissione, infatti, non è illimitata, ma incontra degli ostacoli insormontabili nelle categorie dei reati a forma vincolata, dei reati di mano propria e con riguardo a numerose altre specifiche tipologie di reato, tra cui i reati abituali (l’esempio tipico nella manualistica corrente è quello dello sfruttamento della prostituzione: FIANDACA MUSCO, Diritto penale, cit. 595; ZANOTTI, Il reato omissivo improprio, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, II, Torino, 2001, 81) – nei quali il delitto in esame rientra a pieno titolo.

Occorre tuttavia sottolineare che autorevole dottrina ritiene al contrario che anche i reati abituali sottostiano alla regola della equivalenza e, quindi, siano integrabili per il mezzo di condotte omissive (COPPI, Maltrattamenti, cit. e PISAPIA, Maltrattamenti, cit., 523).

Questo orientamento – sebbene oggi prevalente –  non va esente da rilievi critici: infatti, presta fin troppo agevolmente il fianco ad obiezioni l’impostazione che ritiene che il reato di cui all’articolo 572 del Codice Penale, in quanto reato abituale, si caratterizzi sì per la reiterazione delle condotte, ma che potranno essere attive, purtuttavia, accompagnate in alcune ipotesi da altre di natura omissiva.

In altri termini, in questo modo verrà riconosciuta rilevanza causale alle condotte omissive, ma solo in quanto legate a condotte attive. La stessa sentenza della Cassazione, Sezione VI, 28 febbraio 2013, n. 9724 sembra alludere a ciò nel momento in cui i giudici affermano che “il reato di maltrattamenti è integrato non soltanto da specifici fatti commissivi direttamente [...] ma altresì da fatti omissivi di deliberata indifferenza verso elementari bisogni assistenziali e affettivi di una persona disabile. Indifferenza espressa con dissimulata severità e fonte di inutile mortificazione, tali da incidere – non meno di gesti di reale violenza –  sulla qualità di vita della persona offesa, contraddistinta da quotidiani atti commissivi (sgridate, rimproveri) ed omissivi (vestiario dismesso e sporco, scarsità del cibo, mancanza di igiene) producenti gratuite umiliazioni e durevoli sofferenze psicologiche della stessa persona offesa affidata per ragioni di cura e vigilanza al soggetto agente”.

In conclusione, dalla lettura del richiamato passaggio motivazionale è data licenza di cogliere l’intenzione dei giudici della Sesta Sezione Penale di fotografare i maltrattamenti quale risultanza sia di condotte attive (sgridate, rimproveri) sia di condotte omissive (mancanza di igiene, ecc.), queste ultime, tuttavia, inevitabilmente legate alle prime. Così argomentando, i Giudici di Piazza Cavour sembrano rievocare la tesi, inizialmente sostenuta da autorevole dottrina e oggi unanimemente ripudiata, del c.d. aliud agere: i fautori di questa impostazione, nello specifico, alla ricerca di una “fisicità nella omissione” (in quanto ex nihilo nihil fit) ebbero a sostenere che nei reati omissivi la condotta non si esaurirebbe in un mero fatto negativo, ma sarebbe pur sempre accompagnata da un fatto positivo. Insomma, il soggetto agente (rectius: omittente) deve aver fatto "qualcosa in più" rispetto a quanto previsto dal comando normativo, l’omissione potendo avere rilevanza causale solo se legata ad un’azione (così DONOFRIO, Maltrattamenti in famiglia è configurabile il reato mediante omissione, in Diritto24, http://www.diritto24.ilsole24ore.com).

Tuttavia, questa impostazione deve ritenersi oggi completamente superata e, alla luce di ciò, di conseguenza, si può agevolmente concludere che il reato di maltrattamenti in famiglia non si può configurare in nessun caso in forma omissiva.

5. La c.d. relazione qualificata tra soggetto attivo e vittima dei maltrattamenti 

Altra peculiarità della fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 572 del Codice Penale è il fatto di delineare precisamente le caratteristiche di cui deve essere in possesso la persona offesa: si potrebbe asserire che il delitto di maltrattamenti in famiglia è un “reato a vittima determinata”, dal momento che soggetto attivo e passivo devono essere legati da una relazione “qualificata”.

La norma stabilisce che il punto di incidenza della condotta illecita deve essere “una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un arte” (come si legge in Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo, in Lavori preparatori al Codice Penale e al Codice di Procedura Penale, V, II, Roma, 1929, § 642, 358 ss.. Le ragioni dell’ampliamento dei soggetti del reato rispetto alla fattispecie vigente il codice Zanardelli furono sostanzialmente due: da un lato una sorta di livellamento con il delitto di cui all’articolo 571 del Codice Penale – da sempre contiguo a quello di maltrattamenti in famiglia – , il quale contemplava una categoria di soggetti ben più ampia rispetto a quella delineata dall’articolo che, al tempo, incriminava il delitto di maltrattamenti in famiglia; dall’altro lato la dimostrazione del riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico di una tutela alla famiglia come società coniugale e parentale).

Sotto la vigenza della norma così come formulata prima delle modifiche intervenute in forza della Legge 1 ottobre 2012, n. 172 (di ratifica della Convenzione di Lanzarote), si erano formati diversi orientamenti giurisprudenziali tutti tesi a dimostrare un approccio interpretativo di tipo – per così dire –  evolutivo del concetto di “famiglia”: prima che la legge di riforma appena citata intervenisse introducendo all’interno dell’articolo 572 del Codice Penale la tutela dei soggetti (anche solo) conviventi (“o comunque convivente”), i giudici di legittimità avevano garantito l’applicazione della norma de qua anche ai maltrattamenti avvenuti in ambiti che con il concetto tradizionale di famiglia non avevano alcuna relazione, purché comunque fosse ravvisabile una comunione di affetti analoga a quella che emerge normalmente dal matrimonio.

In altri termini, per i giudici di Piazza Cavour, ai fini di ritenere configurato il reato di maltrattamenti in famiglia era sufficiente che ricorresse un “consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, [fossero] sorti rapporti di assistenza o solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo” (Così Cassazione, Sezione IV, n. 20647/2008).

Insomma, la tutela penalistica disposta dall’articolo 572 del Codice Penale veniva accordata – in linea con quanto stava avvenendo anche negli altri ambiti dell’ordinamento giuridico sulla base dell’applicazione dell’articolo 2 della Costituzione nella parte in cui fa riferimento alle “formazioni sociali ove si svolge la […] personalità” del singolo individuo –  anche nell’ambito della cosiddetta famiglia di fatto, purché i relativi rapporti fossero caratterizzati da una stabile convivenza e da una comunanza di vita e interessi (in questo senso, ex multis, Cassazione, Sezione VI, 24 novembre 2009, n. 4390; si era espresso in senso contrario COPPI, Maltrattamenti, cit., § 3, il quale riteneva che la tutela di cui all’articolo 572 del Codice Penale fosse da riservarsi solamente alla famiglia intesa come “società naturale fondata sul matrimonio” – così come sancisce l’articolo 29 della Costituzione –  sulla base della considerazione per la quale il disvalore della condotta nasce in ragione di una duplicità di motivi, nello specifico l’assidua intimità dei rapporti e l’esistenza alla loro base di una relazione formale e giuridicamente rilevante; per la medesima ragione giungeva anche ad escludere – per quel che concerne l’altro tipo di rapporti previsti dal coma 1 dell’articolo 572 del Codice Penale –  la rilevanza di una mera “autorità di fatto”, riconoscendo come necessario al fine della integrazione del delitto di cui all’articolo 572 del Codice Penale un rapporto di tipo formale).

Il pericolo in cui si incorre, però, nell’intraprendere simili percorsi interpretativi di carattere estensivo della punibilità è quella di incappare nel cosiddetto slippery slope: in altri termini, se non vengono posti dei paletti fermi e irremovibili – come peraltro aveva fatto, si badi, la giurisprudenza richiamata, nel momento in cui aveva fatto riferimento alla “comunanza di vita e interessi” –  il passo tra l’interpretazione estensiva e l’analogia in malam partem è ben più breve di quel che in apparenza si può credere.

Una dimostrazione in tal senso fu data da alcuni orientamenti successivi, in cui i giudici, spingendosi ben oltre il punto di approdo sopra delineato, arrivarono a configurare il reato in esame persino nei casi in cui non sussisteva alcuna convivenza more uxorio, ma solamente “una relazione sentimentale, che [aveva] comportato un’assidua frequentazione della […] abitazione [del partner], trattandosi di un rapporto abituale tale da far sorgere sentimenti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale” (in questi precisi termini Cassazione Sezione V, 17 marzo 2010, n. 24688).

Si era giunti, quindi, a ritenere non necessaria la sussistenza della convivenza o, quantomeno, della coabitazione per considerare integrato il delitto de quo: tale requisito, infatti, a detta dei giudici dell’epoca, non era esplicitamente previsto dalla norma incriminatrice i maltrattamenti in famiglia.

Ancor più problematica era apparsa, poi, la statuizione con la quale i giudici di legittimità avevano implicitamente riconosciuto dignità di tutela anche alla relazione extraconiugale: il caso, nel dettaglio, riguardava i maltrattamenti posti in essere da un uomo nei confronti dell’amante. Condannato sia in primo grado che in appello, l’uomo presentava ricorso in Cassazione con il quale contestava la violazione di legge e la mancanza o manifesta illogicità della motivazione, sulla base della considerazione per la quale lo stesso viveva ancora con la moglie e i figli nell’abitazione coniugale e la relazione adulterina – secondo, certo, le considerazioni sue personali –  non sarebbe mai potuta sfociare in uno stabile rapporto di comunità famigliare suscettibile di determinare reciproci rapporti e obblighi di solidarietà e di assistenza: il ricorrente – in altri termini –  contestava apertamente la mancanza dei requisiti necessari affinché potesse ritenersi integrato il delitto di cui all’articolo 572 del Codice Penale

La Cassazione, dal canto suo, dichiarando inammissibile il ricorso sulla base della motivazione per cui la ricostruzione del rapporto in termini di relazione stabile costituisce una questio facti e, come tale, inidoneo a formare oggetto di giudizio in Cassazione, pare implicitamente affermare che anche una relazione adulterina, qualora sia connotata dall’elemento della stabilità, sia in grado di costituire presupposto rilevante per l’applicazione dell’articolo 572 del Codice Penale (Cassazione Pen., Sezione VI, 10 febbraio 2011, n. 7929, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di MALLAMACI, Anche la relazione adulterina può rientrare nel concetto di famiglia oggetto di tutela nel reato di maltrattamenti).

L’indomani la pronuncia la dottrina pressoché unanime riservò ampie e aspre critiche alla statuizione: non vi fu, infatti, chi non evidenziò come il riconoscimento del reato di maltrattamenti in famiglia nel caso di relazioni adulterine costituisse un evidente ipotesi di analogia in malam partem, in considerazione del fatto che veniva applicata una norma regolante casi simili a situazioni ivi non espressamente previste.

In secondo luogo, si è altresì evidenziato che in tal modo il compito del Giudice si sarebbe fatto oltremodo arduo, essendo costui, nei casi analoghi a quello oggetto della sentenza sopra citata, chiamato a ricostruire le relazioni che intercorrono tra due soggetti e stabilire se siano o meno suscettibili di produrre vincoli di solidarietà ed assistenza in mancanza di un presupposto fondamentale quale è la convivenza (MALLAMACI, Anche la relazione adulterina, cit.).

Allo stato, in seguito alla riforma operata con la l’articolo 4, comma 1, lettera d) della Legge 1 ottobre 2012, n. 172, la validità dell’assunto di quei giudici parrebbe a prima vista venir meno: il fatto che l’articolo 572 del Codice Penale preveda che soggetto passivo e vittima dei soprusi siano “comunque conviventi” sembrerebbe impedire – esclusa la sussistenza di un rapporto di autorità o di un affidamento per le ragioni esposte dalla norma –  di ritenere configurato il delitto in esame nel caso in cui non sussista una comunanza di tetto.

In altri termini, la fattispecie incriminatrice così come formulata successivamente alla legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote, parrebbe porre degli argini invalicabili alla deriva interpretativa di cui si erano resi protagonisti quei giudici: allo stato, secondo una prima e superficiale lettura, il giudicante dovrebbe valutare se, nel caso concreto, ricorra o meno una situazione di convivenza: nel primo caso potrà ritenersi applicabile il disposto normativo di cui all’articolo 572 del Codice Penale, nel secondo caso al contrario non potrà pervenirsi alla medesima conclusione e si dovrà procedere all’individuazione delle altre norme all’uopo confacenti (per esempio: lesioni, percosse, ingiurie, etc., con tutta probabilità unite sotto il vincolo della continuazione).

In realtà ad avviso di chi scrive pare maggiormente persuasiva quell’interpretazione dottrinale che ritiene che si rimasta inalterata la possibilità di includere tra i familiari anche coloro che non siano legati al soggetto attivo dalla convivenza (VALLINI, Nuove norme a salvaguardia del minore, della sua libertà (integrità) sessuale e del minore nella famiglia, in DPP, 2013, 152; su questa linea pare essersi posta la giurisprudenza, la quale, in una recente pronuncia, ha sostenuto che “il delitto di maltrattamenti è configurabile pure se con la vittima degli abusi vi sia un rapporto familiare di mero fatto, desumibile, anche in assenza di una stabile convivenza, dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza”: v. Cassazione, Sezione VI, 27 maggio 2013, n. 22915, così massimata da Studium Iuris, 2014, 106). Il legislatore, insomma, introducendo la locuzione “comunque conviventi” avrebbe inteso estendere l’alveo applicativo dell’articolo 572 del Codice Penale anche a soggetti che sono uniti all’autore dei maltrattamenti da rapporti diversi e ben distanti da quelli famigliari (come per esempio i legami di coabitazione tra persone che condividono spazi comuni – le cosiddette unioni di mutuo aiuto; potrebbe addirittura non apparire così scandaloso – alla luce del disposto normativo così come novellati nel 2012 –  il riconoscimento di una responsabilità per il reato di maltrattamenti nell’ambito di una convivenza sviluppatasi fra studenti universitari fuori sede).

6. Rilievi sul versante soggettivo

L’analisi dell’aspetto psicologico nel reati di maltrattamenti in famiglia consente, essendo i due temi in buona sostanza sovrapponibili, di affrontare – seppur con le restrizioni che impongono i limiti connaturati a quello che deve essere l’approfondimento che si richiede a questo breve excursus sul delitto in rassegna –  il più esteso tema dell’elemento soggettivo nel reato abituale.

Secondo una prima linea interpretativa, adottata in larga parte da una risalente giurisprudenza (ex multis Cassazione Sezione I, 7 giugno 1942, P.M. e Frank, in Ann. dir. e proc. pen., 1943, 251), affinché siano integrati gli estremi del delitto di maltrattamenti in famiglia occorrerebbe un dolo specifico, consistente nello scopo di commettere nei confronti del soggetto passivo una serie di fatti produttivi di sofferenze psicologiche e/o morali e dettati da nessun plausibile motivo se non quello dell’odio o del disprezzo. Tralasciando l’annotazione per la quale nella norma in esame è assente qualsiasi appiglio di tipo letterale che consenta di rilevare un dolo specifico (le classiche locuzioni “allo scopo di […]”, “al fine di […]”), l’orientamento in esame si rivela irrimediabilmente fallace ove si considera che, normalmente, nei reati abituali – e tanto più nel caso dell’articolo 572 Codice Penale –  non è previsto alcuno scopo esterno alla cui realizzazione la condotta del reo deve tendere: il risultato del provocare sofferenze psichiche e/o morali, infatti, ben lungi dal collocarsi in una prospettiva esterna alla condotta criminosa, è al contrario parte integrante di essa e, di conseguenza, costituisce oggetto della volizione dell’azione integrante il delitto (PETTENATI, Sulla struttura del delitto di maltrattamenti in famiglia, in RIDPP, 1961, 1107).

Un altro autorevole orientamento ha sostenuto che la caratteristica saliente del reato abituale non è tanto la reiterazione delle condotte, bensì l’inclinazione dell’autore di siffatte condotte (CONTENTO, Corso di diritto penale, Roma, 1989, 717): in altri termini il reo che commette un reato abituale agirebbe con colpa d’autore, con la conseguenza che chi dovesse commettere reiterate condotte di maltrattamenti senza presentare quel determinato habitus mentale andrebbe esente da pena.

Questa opzione interpretativa che, peraltro, si pone sul solco di uno studio del GROSSO, il quale aveva impostato l’analisi del reato di maltrattamenti come delitto connotato da una medesima Gesinnung, è da ritenersi assolutamente inaccoglibile per due ordini di ragioni: innanzitutto perché introdurrebbe all’interno dell’ordinamento una forma di Gesinnungsstrafrecht del tutto incompatibile con l’impostazione impressa al nostro sistema penalistico dall’articolo 25, comma 2, della Costituzione nella parte in cui fa riferimento al “fatto commesso”. In secondo luogo, un’analisi che facesse perno sulla cosiddetta colpa d’autore andrebbe a confondere due piani che dovrebbero rimanere ben separati: mentre questa, infatti, attiene alla sfera della colpevolezza, il dolo e la colpa appartengono alla fattispecie (ANGELINI, Sull’elemento soggettivo nel reato abituale, in Cassazione pen., 1993, 464).

Che il dolo non ha nulla a che fare con la colpevolezza e con l’immutabilità, infatti, è ampiamente dimostrato dal fatto che anche il soggetto incapace di intendere e volere – pertanto non “colpevole”, nel senso di “non rimproverabile” (nel significato attribuito al concetto di colpevolezza dalla cosiddetta concezione normativa della stessa inaugurata dal Reinhard Frank) – può commettere il fatto con (un seppur distorto) animus nocendi (COLACCI, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, Napoli, 1963, 100 ss.), come suggerisce anche una lettura degli articoli 222 e 224 del Codice Penale

In ogni caso è innegabile che tutti gli episodi criminosi uniti sotto il vincolo dell’abitualità debbano essere attinti da un dolo unitario.

Procedendo ad una sommaria analisi degli orientamenti sul punto (e rinviando il lettore alle note bibliografiche per un maggiore e più puntuale approfondimento della questione), una primo filone dottrinale ha sostenuto che, affinché possa affermarsi senza dubbio che ricorra l’elemento soggettivo occorre che l’autore si sia rappresentato ab initio la serie dei maltrattamenti: detto in altro modo, mentre normalmente il dolo deve essere considerato come previsione e volizione di un determinato evento e della coscienza e volontà della condotta da cui l’evento stesso deriva (secondo l’icastica definizione fornitaci dall’articolo 43 Codice Penale), nel reato abituale il dolo si fraziona nella coscienza e volontà di una pluralità di azioni e omissioni e nella previsione e volizione di una pluralità di eventi. Insomma, esso si presenterebbe fin dall’inizio come un’entità fissa e precisa (cfr. ad esempio LEONE, Del reato abituale, continuato e permanente, Napoli, 1933, 127 ss.; PETTENATI, Sulla struttura del delitto di maltrattamenti in famiglia, cit., 1111; MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, VII, 1984, 937 ss.).

Pur dovendosi riconoscere a questa ricostruzione dell’elemento soggettivo nel reato abituale l’indiscutibile pregio di fornire una reale autonoma collocazione della categoria in rassegna all’interno del sistema penale, non può non rilevarsi come una posizione di questo tipo sia ben lontana dalla quotidiana realtà: è improbabile, infatti, che l’autore dei maltrattamenti compia il primo atto nella piena consapevolezza di aver intrapreso un percorso che sfocerà nella volontaria provocazione di uno stato di degradazione fisica e/o psichica della vittima.

In secondo luogo, è stato esattamente evidenziato che la configurazione dell’elemento soggettivo come coscienza e volontà ab initio dell’evento conclusivo della serie di condotte illecite si pone in una posizione di radicale e insanabile incompatibilità con l’elemento soggettivo della colpa: posto che nel tessuto normativo del nostro ordinamento esistono dei reati abituali colposi, “come può ritenersi compatibile quel legame psicologico con la struttura della colpa?”(PETRONE, voce Reato abituale, in Noviss. Dig. It., XIV, 1974, 954).

Proprio il PETRONE, in seguito alla critica mossa all’orientamento sopra brevemente esposto, asserisce che l’unità dell’elemento psicologico può sì essere presente fin dall’inizio dell’esecuzione della condotta abituale, ma può anche “svilupparsi in itinere, in concomitanza con il ripetersi degli episodi componenti la serie, sorreggendosi sulla costante consapevolezza dei precedenti attacchi e dell’apporto che ognuno di essi arreca all’offesa dell’interesse”(Idem, 955).

Sennonché anche questa ricostruzione, pur apprezzabile, presta il fianco a delle critiche: come è stato evidenziato, “sul piano pratico il richiedere che il soggetto agente abbia la consapevolezza delle proprie precedenti azioni e la volontà, con il nuovo atto, di persistere in un’azione criminosa, non elimina la possibilità di negare il reato abituale nei casi, frequenti, in cui la reiterazione degli atti venga decisa di volta in volta, al di fuori di qualsiasi programma sia esso preordinato o a formazione progressiva. Ben raramente un marito “manesco” nell’atto di picchiare la moglie si rappresenta la propria precedente condotta e si rende consapevole di concorrere, con questa nuova azione, a realizzare l’offesa al bene protetto dal delitto di maltrattamenti” (in questi precisi termini ANGELINI, Sull’elemento soggettivo nel reato abituale, cit. 466). In altre parole il reo, nel mettere in atto la sua risoluzione criminosa, non può certo rappresentarsi tutti gli elementi che costituiscono la condotta e le relazioni che li legano e che fondano il tipo delittuoso (sarebbe oltremodo arduo nel caso in cui, ad esempio, i singoli maltrattamenti vengano posto in essere a distanza di anni l’uno dall’altro); eppure non può affermarsi dubbio alcuno circa la sussistenza del dolo (PULITANÒ, voce Ignoranza, dir. pen., in Enc. dir., XX, 1970, 43).

La consapevolezza dei singoli elementi del reato, allora, “non deve necessariamente essere attuale ed effettiva: è sufficiente una con– coscienza, rectius, una coscienza latente”(così MORSELLI, Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, Padova, 1989, 82); in altri termini, non è necessario che il soggetto si soffermi a pensare a questi elementi, in quanto “essi sono già acquisiti mediante l’interiorizzazione di esperienze pregresse”(Idem, 84).

Con una precisazione: il mero fatto di percuotere ricordando di avere percosso non configura il reato di cui all’articolo 572 Codice Penale, ma al più un concorso materiale di diversi reati di percosse (o una serie di percosse unite sotto il vincolo della continuazione, qualora si riconosca la sussistenza del medesimo disegno criminoso); solamente qualora nella seconda percossa il giudice ravvisi non un dolo di percuotere, bensì un dolo di maltrattare, si potrà contestare il reato previsto e punito dall’articolo 572 del Codice Penale, ricorrendo il diverso atteggiamento psicologico delineato dalla norma appena citata (così ANGELINI, Sull’elemento soggettivo nel reato abituale, cit., 467; Cassazione 2 dicembre 2010, n. 45037 ha, a tal proposito, evidenziato come non integra il delitto di maltrattamenti in famiglia la consumazione di episodici atti lesivi di diritti fondamentali della persona non inquadrabili in una cornice unitaria caratterizzata dall’imposizione ai soggetti passivi di un regime di vita oggettivamente vessatorio).

In questa indagine a sfondo psicologico, comunque, occorrerà fare attenzione a non addentrarsi nel terreno scivoloso abitato dai concetti di “indole perversa”, “malvagità” o simili e aggirare queste e altre concretizzazioni di quel Gesinnungsstrafrecht di cui si è sopra evidenziata l’incompatibilità costituzionale.

7. Il comma 2 dell’articolo 572 del Codice Penale e la problematica della responsabilità dell’autore dei maltrattamenti in caso di suicidio della persona offesa

Come anticipato in principio di questo lavoro, al comma 2 dell’articolo 572 del Codice Penale è prevista un aggravamento della risposta sanzionatoria (con pene modulate diversamente a seconda della gravità dell’evento) nel caso in cui dal fatto derivi una lesione personale grave, una lesione gravissima o la morte.

Occorre in primo luogo chiedersi se la disposizione in esame configura una circostanza aggravante ad effetto speciale o una fattispecie autonoma di reato. Seppur sia vero che in seguito alla riforma operata con la Legge 7 febbraio 1990, n. 19 le due costruzioni dogmatiche hanno subito un sensibile avvicinamento dal punto di vista del versante soggettivo (ai sensi dell’articolo 59, comma 2 le circostanze aggravanti, affinché possano essere contestate al reo, devono essere state dall’autore conosciute o ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa: badili che la contiguità temporale della citata riforma con le sentenza della Corte costituzionale nn. 364/1988 e 1085/1988 non è affatto casuale), non ci si trova d’accordo con quelle posizioni che ritengono che, proprio alla luce del riformato regime dell’imputabilità delle circostanze, interrogarsi sulla natura della disposizione in rassegna sia superfluo.

In seguito alla riforma operata con il Decreto Legge 11 aprile 1974, n. 99 (convertito con modificazioni nella Legge 7 giugno 1974, n. 220), infatti, è divenuto possibile per il giudice procedere al bilanciamento delle circostanze anche qualora tra di esse ve ne sia una ad effetto speciale: in altri termini, mentre prima della  risalente novella il giudice non avrebbe mai potuto effettuare un giudizio di valore tra una circostanza aggravante ad effetto speciale (o inerente la persona del colpevole) e una circostanza attenuante, allo stato della legislazione una simile operazione gli è concessa, fatti salvi i limiti di cui all’articolo 69, comma 4.

Ecco che allora, qualificato il comma 2 come una circostanza aggravante ad effetto speciale, il giudice potrebbe, riconosciute prevalenti le attenuanti, “derubricare” il fatto a maltrattamenti semplici (comma 1), applicando quindi un regime sanzionatorio nettamente più favorevole; diversamente – nel caso si ritenga il disposto in esame una fattispecie autonoma di reato –  non si potrebbe intraprendere un simile percorso valutativo e l’autorità giudicante potrebbe, al più, operare una diminuzione di pena sulla forbice edittale stabilita dal comma 2.

L’opinione prevalente in dottrina e giurisprudenza ritiene che la norma in esame costituisca una circostanza aggravante (cfr. MANZINI, Trattato di diritto penale, cit., 920; MAZZA, Maltrattamenti in famiglia e abuso dei mezzi di correzione, in Enc. giur., XIX, Roma, 1990, 26; in giurisprudenza, a titolo esemplificativa, si veda Cassazione, Sezione III, 19 settembre 2008, n. 39338); tuttavia esistono valide ragioni di carattere interpretativo– sistematico per ritenere il contrario.

Come argutamente evidenziato, infatti, il raffronto del comma 2 dell’articolo 572 del Codice Penale con gli articoli 584 e 586 del Codice Penale – che costituiscono ipotesi connotate da analogie assai pronunciate con la norma in esame–  sembrerebbe far propendere per la soluzione della fattispecie autonoma di reato (COPPI, Maltrattamenti, § 6, cit.).

Si pensi alle lesioni o alle percosse inferte nell’ambito di un contesto di maltrattamenti a cui segua la morte della vittima come conseguenza non voluta e all’ipotesi in cui la morte, sempre come conseguenza non voluta, segua a percosse e lesioni “pure”: se si configurasse il comma 2 dell’articolo 572 del Codice Penale come un’aggravante si creerebbe un’inaccettabile disparità di trattamento con la fattispecie dell’omicidio preterintenzionale – che costituisce per certo un autonomo titolo di reato – , soprattutto alla luce della voluntas legis che, stando alla reazione di stampo punitivo predisposta per i due casi, ha ritenuto più grave quella di cui all’articolo 572 del Codice Penale dal momento che, in quella situazione, la morte segue al regime di vita vessatorio imposto alla vittima.

Altro argomento a favore delle considerazioni sopra svolte è quello che fa perno sul disposto dell’articolo 586 Codice Penale: per la dottrina non vi è alcun dubbio che, nel caso del reato di “Morte o lesioni come conseguenza di altro reato”, l’evento non voluto non può essere ridotto a mero elemento accidentale (SPASANI, Osservazioni sulla natura giuridica del cosiddetto delitto preterintenzionale, in Arch. pen., 1957, 268). Ma l’articolo 586 del Codice Penale è proprio la norma a cui si sarebbe dovuto far riferimento nel caso in cui fosse mancato il comma 2 dell’articolo 572 del Codice Penale: e allora, perché mai si dovrebbe considerare l’uno una fattispecie autonoma di reato e l’altro una circostanza aggravante (ad effetto speciale)?

Approfondendo il livello di analisi della fattispecie in rassegna, si noterà come l’incipit della stessa sia del seguente tenore: “Se dal fatto deriva […]”. Ma quando si può effettivamente dire che la lesione personale grave o gravissima o la morte della vittima siano derivate dai maltrattamenti perpetrati dal soggetto agente? È in questo ambito che si innesta la tematica dell’imputabilità del suicidio della vittima all’autore dei maltrattamenti: secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza, infatti, il delitto in esame ricorrerebbe non solo quando la morte o le lesioni siano conseguenza di un trauma fisico inferto direttamente dall’autore dei maltrattamenti, ma anche allorquando l’evento lesivo sia l’effetto dello stato di prostrazione in cui è stato ridotto la vittima delle vessazioni, la quale non vede altre vie d’uscita dalle insopportabili sofferenze che è costretto a patire (Cassazione 28 giugno 1971, in Giust. Pen., 1972, II, c. 708 e, soprattutto, Cassazione 19 febbraio 1990, in Cassazione pen., 1991, 1987; recentemente v. anche Cassazione 29 novembre 2007, n. 12129, in Cassazione pen., 2008, 4069, con nota di CARLONI, La responsabilità dell’autore di maltrattamenti in famiglia nel caso di suicidio della persona offesa).

La giurisprudenza, invero, non ha mai accolto le posizioni espresse da certa dottrina, la quale ha  sostenuto che “l’evento morte […] deve trovare la sua origine nella intrinseca attitudine dei maltrattamenti ad espandere la loro potenzialità lesiva e a rendere concreta la loro capacità di offendere anche il bene vita. Esso, quindi, deriva dal fatto dei maltrattamenti in quanto ha in questi la sua causa fisica diretta, immediata, esclusiva”(COPPI, Maltrattamenti in famiglia, ult. cit.): in altre parole, nel caso in esame il nesso di causa tra il fatto dei maltrattamenti e la morte come conseguenza non voluta sarebbe interrotto dall’atto volontario del suicidio in quanto causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare rilevante ai sensi dell’articolo 41, comma 2, Codice Penale.

Tuttavia una tale interpretazione non sarebbe consona con quanto si deduce da una lettura sistematica del codice penale.

Innanzitutto – come ben noto –  i redattori del codice Rocco hanno legislativamente accolto al comma 1 dell’articolo 41 l’impostazione interpretativa per la quale, in rerum natura, un evento non è mai prodotto da una sola causa, ma è l’effetto combinato di diverse concause: è questo, infatti, il significato del riferimento al “concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute”. Appare decisamente improbabile, quindi, che per il delitto di maltrattamenti in famiglia – ritenuto dai compilatori particolarmente grave –  il legislatore abbia inteso riconoscere “a tutte le concause che si aggiungono alla condotta dell’autore un’efficacia impeditiva dell’imputazione oggettiva all’autore dei maltrattamenti della lesione o della morte conseguenti alle sofferenze da lui causate alla persona offesa” (DELOGU, Diritto penale, in Commentario di diritto italiano della famiglia, diretto da Cian, Oppo e Trabucchi, VII, Padova, 1995, 652).

In secondo luogo anche sondando altri lidi del contesto normativo si rinvengono dati utili a confutare la tesi autorevolmente sostenuta da Coppi: se si guarda all’articolo 564 del Codice Penale (“Incesto”) si rileverà che anche lì si fa uso del verbo “derivare”; di tale espressione mai né la dottrina né la giurisprudenza hanno dato una lettura così restrittiva da escludere il nesso eziologico tra la condotta incestuosa e il pubblico scandalo nel caso di intervento di concause. Ne deriva – vista la necessità, per quanto possibile, di attribuire un significato unitario ai concetti cui fa riferimento il legislatore nell’ambito di un medesimo sistema normativo –  che la teoria per la quale la morte deve trovare la propria causa esclusiva e immediata nei maltrattamenti poggia su premesse di dubbia correttezza.

Il punto fondamentale, come è già stato da altri sottolineato, è quello di ricercare il criterio per il quale è possibile attribuire un fatto ad un soggetto diverso da quello che lo ha prodotto per una propria e personale decisione (CARLONI, La responsabilità dell’autore di maltrattamenti, cit. 4077). La fattispecie in esame, per la verità, parrebbe – almeno di primo acchito –  configurare una forma di responsabilità oggettiva (sulla falsa riga dell’ipotesi di cui all’articolo 630, comma 2, del Codice Penale); tenendo, però, nella dovuta considerazione quanto sancisce l’articolo 27 della Costituzione nella lettura fornita dalla Corte costituzionale nelle sentenza n. 364/1988 e 1085/1988, al fine di salvare il comma 2 dell’articolo 572 Codice Penale da una sicura censura da parte della Corte Suprema occorre colorare la disposizione di un minimum di soggettività.

A tal proposito la sopra citata sentenza Magurno è stata aspramente criticata dalla dottrina nella parte in cui ha riconosciuto la responsabilità dell’autore della condotta nel caso di suicidio della vittima qualora questo sia stato commesso per sottrarsi alle indicibili sofferenze patite: è stato esattamente rilevato, infatti, che una simile presa di posizione “porta praticamente alla conclusione che l’autore dei maltrattamenti debba sempre rispondere delle conseguenze del suicidio quando esso risulti motivato dalle sofferenze subite dalla persona offesa” (DELOGU, Diritto penale, cit., 667).

Secondo l’orientamento prevalente, al fine di accertare la sussistenza o meno del nesso causale occorre applicare i parametri della c.d. teoria della causalità adeguata: in altri termini, dal momento che la condotta suicidaria consiste in una concausa sopravvenuta, facendo una corretta applicazione del disposto di cui al comma 2 dell’articolo 41 del Codice Penale, essa rileva come causa da sola sufficiente a causare la morte della vittima nel caso in cui l’esito fosse del tutto imprevedibile secondo l’id quod plerumque accidit. Insomma: se il suicidio del soggetto passivo era del tutto imprevedibile secondo i canoni della comune coscienza e conoscenza, l’autore dei maltrattamenti sarà esente da pena; viceversa, risponderà del reato di cui al comma 2 dell’articolo 572 del Codice Penale.

Occorrerà a questi fini indagare facendo ricorso ad un giudizio di tipo prognostico volto ad accertare se si erano presentati degli indici concreti attraverso la cui comprensione il soggetto agente avrebbe potuto prevedere il gesto estremo della vittima: “tali sintomi possono essere di varia natura come, ad esempio, la gravità e la frequenza dei maltrattamenti, le circostanze di ambiente e di tempo in cui venivano inflitti, la natura e l’intensità del rapporto esistente tra autore e vittima, i dati personologici, fisici, psichici e morali della stessa” (CARLONI, La responsabilità dell’autore di maltrattamenti, cit., 4082).

L’attribuzione di un profilo di carattere psicologico alla norma di cui al comma 2 dell’articolo 572 del Codice Penale costituisce compito nettamente più arduo, però, nel caso in cui le lesioni o la morte siano conseguenza diretta dei maltrattamenti: è evidente, infatti, che in questi casi, qualora il soggetto agente si fosse rappresentanti la possibilità di verificazione degli eventi infausti e ciononostante avesse agito o accettando il rischio del loro ricorrere o escludendone la verificazione, risponderebbe dei delitti corrispondenti (lesioni o omicidio) nella forma, rispettivamente, dolosa (nelle vesti del dolo eventuale) e colposa ex articolo 61, n. 3, del Codice Penale.

Esemplificando: nel caso in cui l’autore di maltrattamenti, ad esempio, percuota la vittima rappresentandosi la possibilità che ne derivi una malattia nel corpo e nella mente e nonostante ciò agisca accettando deliberatamente il rischio che questo avvenga, risponderà del reato doloso di cui all’articolo 582 del Codice Penale in concorso con quello previsto e punito dall’articolo 572 del Codice Penale (in questi termini anche Cassazione, Sezione VI, 3 maggio 2011, n. 19700). Se, invece, uguale la situazione appena descritta, il soggetto agente si rappresenta e accetta il rischio che si verifichi l’evento morte, il reato che dovrà essergli ascritto è quello delineato dall’articolo 575 del Codice Penale (peraltro punibile con l’ergastolo a causa dell’intervento dell’aggravante introdotta all’articolo 576, comma 1, n. 5, del Codice Penale così come riformato dalla Legge 1 ottobre 2012, n. 172, la quale – oltre a predisporre un generale aumento della pena per il reato di maltrattamenti –  ha aggiunto l’articolo 572 del Codice Penale all’elenco prima previsto: per una puntuale analisi di tale aspetto della riforma del 2012 v. CASSANI, La nuova disciplina dei maltrattamenti contro familiari e conviventi. Spunti di riflessione, in Arch. pen., 2013, 3, 6 ss., www.archiviopenale.it).

Ma allora si possono ancora ritagliare degli spazi di applicabilità al comma 2 dell’articolo 572 del Codice Penale nel caso in cui la morte o le lesioni siano conseguenza diretta dei maltrattamenti? Ad avviso di chi scrive la risposta è negativa: l’unico spiraglio ancora ravvisabile potrebbe essere quello dei maltrattamenti dolosamente volti a commettere percosse o lesioni, da cui deriva la morte della vittima come conseguenza non voluta: ma non è forse questa la condotta di omicidio preterintenzionale così come mirabilmente descritta dall’articolo 584 del Codice Penale?

Ecco che, allora, in definitiva, potrebbe sembrare non del tutto peregrino affermare che l’intenzione del legislatore nel porre una norma come quella del comma 2 dell’articolo 572 del Codice Penale fosse proprio quella di sanzionare i maltrattamenti a cui fosse seguito il suicidio della vittima e che, quindi, i giudici, inaugurando il filone sopra recensito, si sono fatti autentici interpreti della voluntas legislatoris.

8. Rapporti con altri reati: brevissimi cenni

Si analizzeranno di seguito in maniera estremamente sommaria i rapporti che possono intercorrere tra il delitto di maltrattamenti verso famigliari e conviventi e altre fattispecie di reato.

Per quel che riguarda il delitto di “Abuso di mezzi di correzione o di disciplina”, il crinale con il reato di maltrattamenti non va ricercato nell’animus corrigendi come a lungo la dottrina aveva fatto, bensì nell’idoneità e/o liceità dello strumento a fini correttivi; così dovrà escludersi, ad esempio, che l’uso della violenza possa integrare il reato di cui all’articolo 571 del Codice Penale, dal momento che essa non può mai considerarsi come uno strumento educativo di carattere lecito e, quindi, il suo ricorso integrerà sempre e comunque il delitto di maltrattamenti verso famigliari o conviventi (ex multis Cassazione, Sezione VI, 18 marzo 1996, n. 4904 e Cassazione, Sezione VI, 23 novembre 2010, n. 45467).

Per quel che riguarda la violenza sessuale, gli articoli 572 e 609 bis del Codice Penale “possono concorrere tra loro, salvo che nel caso in cui ci sia la piena coincidenza tra le due condotte, nel senso che il delitto di maltrattamenti sia consistito nella mera reiterazione degli atti di violenza sessuale” (così Cassazione, Sezione III, 12 luglio 2007, n. 36962). Insomma, affinché si possa configurare un concorso fra il reato di maltrattamenti e quello di violenza sessuale occorre che siano stati posti in essere altri comportamenti vessatori e che, quindi, la violenza necessaria a vincere la resistenza della vittima per abusarne sessualmente si inserisca in un più ampio contesto di sopraffazione, minacce e angherie: diversamente, sarebbe ovvia l’applicazione del criterio dirimente stabilito dall’articolo 15 Codice Penale

In ultimo – dato per assodato che i delitti di ingiurie, percosse, etc. restano assorbiti nei maltrattamenti in quanto elementi costitutivi degli stessi –  resta un accenno alle relazioni che intercorrono con il reato di atti persecutori di cui all’articolo 612 bis Codice Penale: in questo caso, come stabilito Cassazione, Sezione V, 7 maggio 2013, n. 19545, “è applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie”; diversamente, ricorrerebbe l’ipotesi aggravata del delitto di atti persecutori in presenza di comportamenti che, sorti in senso alla comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare e/o affettivo, o comunque della sua attualità temporale.

Ulteriormente e per concludere: il delitto di maltrattamenti in famiglia in danno del coniuge assorbe il reato di atti persecutori anche in caso di separazione e di conseguente cessazione della convivenza, rimanendo integri i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale (in questo senso Cassazione, Sezione VI, 13 novembre 2012, n. 7369).

Il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi alla luce delle recenti riforme