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Il diritto all’equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo

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1. La Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo ed il termine ragionevole di durata del processo. La L. 89/2001.

2. Il processo presupposto: ambito di applicabilità oggettivo della L. 89/2001.

3. I legittimati alla domanda.

4. La natura dell’accertamento.

5. La ragionevole durata del processo. La complessità del caso, il comportamento delle parti e dell’autorità giudiziaria.

6. Il danno risarcibile. Il danno patrimoniale e non patrimoniale.

7. La proponibilità della domanda in corso di causa ed entro sei mesi dal termine del procedimento.

8. Aspetti processuali.

9. Alcune considerazioni conclusive.

1. La Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo ed il termine ragionevole di durata del processo. La L. 89/2001.

Uno dei problemi che da tempo assillano il sistema giudiziario italiano riguarda senza dubbio la durata eccessiva dei giudizi, che ha ripetutamente violato la Convenzione europea per i diritti dell’uomo (di seguito anche “Convenzione” o “CEDU”) e, di conseguenza, portato alla condanna della giustizia italiana da parte della Corte europea per i diritti umani (di seguito anche “Corte europea”).

L’art. 6, della Convenzione, al par. 1, recita infatti: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta”.

Il diritto ad un processo avente una durata ragionevole, che consiste nella garanzia di ottenere, in tempi “accettabili”, concreta soddisfazione in giudizio delle proprie ragioni (ovvero i motivi per cui queste non debbano essere accolte)[2], è stato recepito nell’ordinamento italiano con la L. 848 del 04/08/1955[3], ma ciò si è rivelato non sufficiente per assolvere l’impegno internazionalmente assunto.

La legge ordinaria di esecuzione di un accordo internazionale è infatti necessaria per recepire le disposizioni convenzionali nel nostro ordinamento, ma affinchè ciò permetta la diretta applicabilità di tali norme è altresì necessario che queste contengano elementi specifici, dai quali sia possibile desumere una loro applicazione senza dover ricorrere ad ulteriore attività di produzione giuridica.

Data la evidente generalità dell’art. 6, Convenzione, derivava pertanto che le “vittime” di procedimenti troppo lunghi dovevano utilizzare le vie previste dalla CEDU (art. 34[4] e 41[5]), ricorrendo direttamente alla tutela della Corte europea per ottenere, qualora ve ne fossero i presupposti, un’equa soddisfazione.

Una primo riconoscimento “interno” al diritto al risarcimento del danno nel caso di denegata o ritardata giustizia si è rinvenuto nell’art. 3, L. 13/04/1988, n. 117[6]. Tale norma, tuttavia, e la L. 117/1988 in generale, richiede l’accertamento della responsabilità del giudice secondo i criteri in essa stabiliti, ed è un procedimento a cognizione piena che, oltre ad essere caratterizzato da regole ad hoc[7] (stante il particolare oggetto, quello della responsabilità del giudice), può essere promosso di regola solo quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione, oltre a prevedere solo il risarcimento dei danni patrimoniali, giacché il risarcimento di quelli non patrimoniali viene riconosciuto solo in caso di colpevole privazione della libertà personale (articolo 2, comma I, L. 117/1988)[8].

In tale quadro normativo si è inserita la modifica dell’articolo 111 Cost.[9], ex L. Cost. 23/11/1999, n. 2[10]. Anche tale riconoscimento del rango costituzionale del diritto all’equo processo non ha reso però immediatamente attuabile l’impegno di cui alla Convenzione: la nuova norma, di carattere programmatico, era bisognosa di ulteriori disposizioni per l’attuazione concreta del principio affermato, essendo del resto più indirizzata al legislatore che all’applicazione diretta[11].

E’ in tale contesto che gli organi del Consiglio di Europa hanno “intimato” l’Italia a introdurre un rimedio interno alla irragionevole durata dei processi, con l’obiettivo di liberare la Corte europea delle migliaia di ricorsi provenienti dall’Italia, che avevano quasi monopolizzato e ingolfato il lavoro della Corte medesima.

Ecco dunque l’emanazione della L. 24/03/2001, n. 89[12], per garantire una tutela effettiva sia al termine di durata ragionevole dei procedimenti, sia - in caso di sua violazione - al diritto all’equa riparazione, prevedendo un meccanismo nazionale che consenta a tutti di avvalersi dei diritti e delle libertà della Convenzione. Alla stregua del principio di sussidiarietà sancito dall’art. 35[13], CEDU, la Corte europea può ora essere adita solo dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne introdotte con la L. 89/2001: la proposizione del ricorso avanti al giudice nazionale diventa così una condizione di ricevibilità della domanda alla Corte europea[14].

Certo la fonte del riconoscimento del diritto all’equa riparazione non deve essere ravvisata nella sola citata normativa nazionale, coincidendo il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge nazionale con la violazione della norma contenuta nell’art. 6 della Convenzione. Tuttavia, in caso di richiesta della riparazione, la normativa di riferimento deve essere quella interna: il giudice nazionale è tenuto ad applicare la legge dello Stato, senza possibilità di diretta applicazione della diversa giurisprudenza della Corte europea.

2. Il processo presupposto: ambito di applicabilità oggettivo della L. 89/2001.

La nozione di processo considerata dalla Convenzione – e, conseguentemente, anche dalla L. 89/2001 – si identifica con qualsiasi procedimento si svolga dinanzi agli organi pubblici di giustizia per l’affermazione o la negazione di una posizione giuridica di diritto facente capo a chi il processo promuova o subisca[15].

L’ampiezza della nozione ha permesso alla giurisprudenza di riconoscere esplicitamente l’applicabilità della L. 89/2001 alla procedura fallimentare[16], anche nel caso in cui il ritardo lamentato si riferisca al procedimento esecutivo concorsuale cui dà vita la dichiarazione di fallimento[17].

La ragionevole durata può pretendersi anche nel procedimento esecutivo[18], nel giudizio civile avente ad oggetto il risarcimento del danno da occupazione illegittima[19], nel procedimento esecutivo di sfratto[20] e di rilascio di immobile a seguito di sua convalida[21]. Sono ugualmente soggetti alla L. 89/2001 la domanda di accertamento della paternità o maternità naturale[22], il procedimento possessorio[23] e di opposizione a decreto ingiuntivo[24], il giudizio di divorzio[25].

La giurisprudenza più recente ritiene che il principio di ragionevole durata del processo trovi applicazione anche nel contenzioso tributario[26]. Non sono mancate tuttavia pronunce che hanno concluso diversamente, sostenendo che la disciplina dell’equa riparazione non è applicabile ai giudizi involgenti la potestà impositiva dello Stato[27]. Il fatto che la L. 89/2001 includa, fra i soggetti obbligati all’equa riparazione anche il Ministero delle finanze, andrebbe riferito esclusivamente alle controversie di competenza del Giudice tributario in cui non venga in evidenza l’esercizio da parte dell’Amministrazione del potere di determinare il contenuto concreto dell’obbligo tributario, o che riguardino sanzioni tributarie assimilabili, per la loro natura e gravità, a sanzioni penali[28].

Si ritiene in ogni caso applicabile la disciplina della L. 89/2001 qualora l’oggetto della controversia tributaria sia la richiesta del contribuente di rimborso di imposta indebitamente pagata[29], l’individuazione del soggetto di un credito di imposta non contestato nella sua esistenza[30], la controversia che riguardi l’applicazione (e quindi, la determinazione) delle sanzioni di carattere tributario[31], giudizi di natura civilistica[32] e di natura penale[33], le richieste di rimborso di somme rifluenti nell’area delle obbligazioni privatistiche o le pretese tributarie dell’amministrazione connesse a sanzioni[34].

II provvedimento cautelare, atto precario e rivedibile, non tocca il diritto dell’attore di ottenere la definizione, entro un termine ragionevole, della controversia, nè correlativamente esclude il dovere dello Stato di assicurare la conclusione del procedimento nel rispetto di quel termine. Detto provvedimento può incidere sul diverso versante della consistenza della conseguenze negative del ritardo, specie quando la protezione provvisoria della posizione dell’istante sia pari a quella reclamata con la domanda e poi accordata in via definitiva con la decisione, ma, anche in tale ipotesi, non osta alla configurabilità di un pregiudizio morale, pure se di entità ridotta, dato che la precarietà di quella protezione non elimina l’incertezza e la connessa sofferenza per l’attesa della definizione della lite, potendo solo diminuirne l’intensità[35].

L’eccessiva durata di un procedimento cautelare non può in ogni caso essere presa in considerazione in via autonoma, in quanto esso è strumentale rispetto al giudizio di merito in cui si inserisce; ne consegue che l’apprezzamento della necessità della cautela rispetto alla conclusione del processo investe valutazioni discrezionali che non possono essere riesaminate al di fuori del processo in cui hanno avuto luogo, e non rilevano ai fini della determinazione della ragionevole durata del processo se i limiti ragionevoli di tempo sono stati rispettati nel processo di merito nel quale il procedimento cautelare si è svolto[36].

La ragionevole durata è riferibile anche al processo amministrativo, anche se promosso per la tutela di una situazione di interesse legittimo. In generale, il diritto alla equa riparazione nei giudizi amministrativi va ravvisato ogni volta in cui la rivendicazione di un diritto patrimoniale verso la amministrazione sia prevalente rispetto ad ogni altra indagine, e va invece escluso allorchè il giudizio riguardi solo l’uso fatto dall’amministrazione dei suoi poteri discrezionali, salvo il limite preclusivo rappresentato dalla partecipazione attiva del ricorrente all’esercizio della potestà pubblica[37].

Processo è anche la fase delle indagini che precedono l’azione penale, le quali perciò, ove irragionevolmente protrattesi, ben possono assumere rilievo a partire dal momento in cui sia possibile identificare uno o più soggetti che di quel procedimento siano effettivamente divenuti parte per essere stati informati della pendenza del processo medesimo (e posti in grado di parteciparvi)[38]. Ne discende che - al fine del diritto ad equa riparazione - la fase anteriore al rinvio a giudizio è rilevante se e dalla data in cui vi sia stata accusa[39].

3. I legittimati alla domanda.

Il diritto all’equo indennizzo è previsto per chi, per effetto della violazione del termine ragionevole del processo, ha subito un danno patrimoniale e non patrimoniale: stante la genericità della formulazione dell’art. 2, L. 89/2001, la legittimazione attiva è pertanto attribuibile a tutti coloro che abbiano avuto in giudizio la veste tanto di parte in senso sostanziale che in senso formale. Ciò che rileva è che un determinato soggetto sia il destinatario degli effetti della sentenza: il fatto di essere parte soltanto in senso processuale rileva, invece, ai fini dell’accertamento in concreto della sussistenza della violazione[40].

Il diritto all’equa riparazione spetta dunque a tutte le parti del processo, attori o convenuti, indipendentemente dall’esito del giudizio presupposto e dal fatto che esse siano risultate (o siano destinate ad essere, se il giudizio presupposto è ancora in corso) vittoriose o soccombenti in sede civile o condannate in sede penale[41]. L’esito favorevole della causa non è infatti, di regola, condizione di azionabilità della pretesa indennitaria: esso, al più, potrà avere un indiretto riflesso sull’identificazione - o sulla misura - del pregiudizio sofferto in conseguenza della eccessiva durata della causa stessa[42].

Proprio perché l’equa riparazione viene accordata senza riguardo all’esito del giudizio, ove la parte invocante l’indennizzo sia addivenuta, nella pendenza di un processo di durata irragionevole, a transigere la controversia, il giudice del merito non può rinvenire in tale conclusione un ostacolo alla valutazione della domanda[43].

Allo stesso modo, il diritto all’equa riparazione compete anche quando la durata eccessiva abbia determinato l’estinzione del reato per prescrizione, salvo che l’effetto estintivo derivi dall’utilizzo, da parte dell’imputato, di tecniche dilatorie o di strategie sconfinanti nell’abuso del diritto di difesa[44].

Non incide sulla esistenza del diritto all’equa riparazione nemmeno la circostanza che il giudizio affetto da irragionevole ritardo si sia estinto a causa della tardività della sua riassunzione operata dalla medesima parte[45].

Il diritto alla trattazione delle cause entro un termine ragionevole è riconosciuto, come anzidetto, con riferimento alle cause “proprie” e, quindi, esclusivamente in favore delle parti in causa, e non anche di soggetti che siano ad essa rimasti estranei, essendo irrilevante che questi ultimi possano aver patito indirettamente dei danni dal protrarsi del processo[46].

Nel caso di un giudizio penale, pertanto, la persona offesa dal reato ed il querelante sono legittimati a chiedere l’indennizzo solo se si siano costituiti parte civile nel processo penale[47]. Se, infatti, i principi di buon andamento ed imparzialità riguardano l’organizzazione e il funzionamento della P.A., il rilievo costituzionale del principio di ragionevole durata attiene alla posizione di chi il processo promuova o subisca, e quindi alla posizione delle sole parti costituite in giudizio[48].

Consegue a ciò che la parte civile nel processo penale non può lamentarne l’irragionevole durata per il periodo anteriore alla sua costituzione, in quanto nei confronti della persona offesa il processo penale (al di là della consentita partecipazione a determinati atti nella fase delle indagini preliminari) non è volto a tutelare alcuna sua posizione di diritto[49].

Legittimato attivo è anche il fallito, anche se egli formalmente non è parte in giudizio (lo è il curatore): egli può esercitare in proprio l’azione per il risarcimento dei danni da equa riparazione, sia per i danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali, trattandosi di diritti di natura strettamente personale[50].

Il diritto all’equa ripartizione va riconosciuto anche in favore degli eredi della parte che abbia introdotto il giudizio nel quale si lamenta la non ragionevole durata, col solo limite che la domanda di equa riparazione non sia stata già proposta alla Corte europea e che questa si sia pronunciata sulla sua inammissibilità[51]. Nel caso di prolungamento della controversia oltre la scadenza ragionevole, si delinea in modo unitario il diritto ad un’equa riparazione e correlativamente l’azione con la quale il diritto medesimo è fatto valere[52].

L’erede della parte del processo affetto da ritardo, effettivo destinatario della sentenza che conclude il processo proposto da o contro il de cuius, quand’anche dopo la morte del dante causa non si sia costituito nel processo civile presupposto non interrotto (ma proseguito nei confronti delle parti originarie), è inoltre legittimato iure proprio a fare valere in giudizio il diritto all’equa riparazione anche per il periodo successivo alla morte del de cuius[53]. In tale ipotesi deve farsi riferimento, ai fini della determinazione dell’indennizzo, all’intero processo, e non valutare separatamente l’arco temporale riferibile al de cuius e quello riferibile all’erede. In termini di liquidazione della riparazione, va riconosciuto agli eredi, pro quota, l’equo indennizzo che sarebbe stato liquidato al loro dante causa per l’eccessiva durata del processo da lui promosso sino alla data della sua morte, al quale va aggiunto l’indennizzo eventualmente spettante per intero a ciascuno degli eredi per la eccessiva durata della fase del processo successiva alla sua riassunzione[54].

4. La natura dell’accertamento.

L’accertamento della violazione del termine di ragionevole durata rappresenta un elemento imprescindibile, logicamente e giuridicamente preliminare, per valutare l’esistenza del danno e per l’eventuale liquidazione dell’indennizzo[55].

Il diritto ad un’equa riparazione non richiede l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 c.c., né presuppone la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente, ma solo la effettiva violazione dell’art. 6, Convenzione: l’art. 2, L. 89/2001, ha infatti assunto come propri i parametri che la Corte europea ha elaborato al fine di decidere se nei casi di volta in volta sottoposti al suo esame fosse rimasta inappagata l’esigenza del rispetto della durata ragionevole del processo[56]. L’equa riparazione si configura, d’altronde, non già come obbligazione ex delicto, ma come obbligazione ex lege, riconducibile, in base all’art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico[57].

Ciò che rileva, pertanto, è il dato oggettivo del tempo trascorso fra l’inizio del procedimento e la sua conclusione (o, se ancora in corso, la proposizione del ricorso ex L. 89/2001), abbracciando tutte le “violazioni di sistema”, ivi incluse quelle riconducibili a scelte legislative che determinino o concorrano a determinare l’eccessivo protrarsi della lite[58].

Sono di conseguenza irrilevanti – ovvero non esentano lo Stato da responsabilità - le disfunzioni e i ritardi riconducibili all’organizzazione amministrativa e al sistema processuale, la mancata predisposizione di misure idonee alla sollecita definizione delle cause mediante una adeguata predisposizione di risorse umane e materiali e una efficiente organizzazione degli uffici[59]: l’autorità ha l’obbligo di organizzare il sistema giudiziario in modo tale che i tribunali possano soddisfare tutti i requisiti del giusto processo previsti[60].

Consegue che la parte istante l’indennizzo può limitarsi ad addurre l’obiettivo dato del ritardo, essendo poi questione di merito verificare se detto dato sussista o meno, anche in relazione al parametro del comportamento serbato dagli uffici giudiziari e, più in generale, da tutte le altre autorità chiamate a concorrere ed a contribuire alla definizione della lite[61].

In altri termini, con l’allegazione e dimostrazione del protrarsi della controversia oltre il termine mediamente qualificabile come ragionevole, l’istante offre il titolo della propria richiesta indennitaria: spetta all’Amministrazione convenuta di dedurre e provare eventuali peculiarità della vicenda giustificative di un prolungamento di detto termine, ovvero atte ad escludere la riferibilità del ritardo a disfunzioni dell’organizzazione giudiziaria[62].

5. La ragionevole durata del processo. La complessità del caso, il comportamento delle parti e dell’autorità giudiziaria.

La nozione di “ragionevole durata” è ontologicamente diversa da quella di “tempo strettamente necessario per la trattazione della causa”. La prima, infatti, è sì un valore da perseguire ed attuare ai sensi della CEDU, ma non fino al punto di trasformarla in una giustizia affrettata e sommaria[63].

La ragionevole durata non ha carattere assoluto, ma relativo, ed è condizionata da parametri fattuali strettamente legati alla singola fattispecie, che impediscono di fissarla facendo riferimento a cadenze temporali rigide. La durata ragionevole del processo va dunque misurata in concreto (secondo la complessità della fattispecie, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione: cfr infra), attraverso l’esame specifico della singola vicenda processuale, sia pure avendo come parametro un modello di durata “media”, ma senza risolversi nella semplice sintesi meccanicistica del cadenzamento dei termini processuali[64].

Il concetto di ragionevole durata va ricondotto al procedimento nel suo complesso, e non ai singoli termini interni. Certo il giudice può condurre la propria indagine con riferimento alle singole fasi processuali, ma resta ferma la necessità che egli pervenga ad una valutazione della durata complessiva del processo[65].

Diversamente opinando, si perverrebbe alla conclusione che qualsiasi inosservanza di un termine interno al processo sia irragionevole, conclusione non coerente con la normativa de qua[66].

Il giudice italiano è poi tenuto ad interpretare la L. 89/2001 in modo conforme alla Convenzione, per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea[67]. Le sentenze della Corte europea in tema di interpretazione dell’art. 6, par. 1 della Convenzione, d’altronde, pur non avendo efficacia immediatamente vincolante, costituiscono la prima e più importante guida ermeneutica, consentendo la corretta applicazione di un criterio, la “ragionevolezza”, che ha in sé insiti margini di elasticità[68].

A ciò si accompagna l’obbligo specifico di prendere in esame, e di farsi carico criticamente, dei precedenti della Corte europea che si assumano pronunciati su casi identici o analoghi (anche nel caso in cui essa abbia, in un caso dedotto come analogo, riconosciuto la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione[69]), eventualmente esponendo i motivi in base ai quali, e in relazione alle circostanze del caso concreto, si ritiene di dovere pervenire a un risultato ermeneutico diverso[70].

Ne consegue che i parametri cronologici elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea (che ha ritenuto che può essere considerato ragionevole il termine di tre anni per la durata del giudizio di primo grado e di due anni per la durata del secondo grado[71]) hanno valore orientativo, ma non tassativo[72].

Per il superamento della soglia di ragionevolezza della durata del processo è necessaria una indagine specifica che dovrà essere condotta in rapporto ai parametri di cui l’art. 2 della legge 89/2001, a mezzo di un giudizio comparativo delle suddette circostanze[73].

Il giudice, una volta individuato l’intero arco temporale del processo, deve operare una selezione tra i segmenti temporali attribuibili alle parti e quelli riferibili all’operato del giudice, sottraendo i primi alla durata complessiva del procedimento. Ciò che risulta da tale sottrazione, costituisce il tempo complessivo imputabile al giudice inteso come “apparato giustizia”, in relazione al quale dovrà essere emesso il giudizio inerente alla ragionevolezza o meno della durata del processo[74].

L’accertamento relativo alla ragionevolezza della durata de

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1. La Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo ed il termine ragionevole di durata del processo. La L. 89/2001.

2. Il processo presupposto: ambito di applicabilità oggettivo della L. 89/2001.

3. I legittimati alla domanda.

4. La natura dell’accertamento.

5. La ragionevole durata del processo. La complessità del caso, il comportamento delle parti e dell’autorità giudiziaria.

6. Il danno risarcibile. Il danno patrimoniale e non patrimoniale.

7. La proponibilità della domanda in corso di causa ed entro sei mesi dal termine del procedimento.

8. Aspetti processuali.

9. Alcune considerazioni conclusive.

1. La Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo ed il termine ragionevole di durata del processo. La L. 89/2001.

Uno dei problemi che da tempo assillano il sistema giudiziario italiano riguarda senza dubbio la durata eccessiva dei giudizi, che ha ripetutamente violato la Convenzione europea per i diritti dell’uomo (di seguito anche “Convenzione” o “CEDU”) e, di conseguenza, portato alla condanna della giustizia italiana da parte della Corte europea per i diritti umani (di seguito anche “Corte europea”).

L’art. 6, della Convenzione, al par. 1, recita infatti: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta”.

Il diritto ad un processo avente una durata ragionevole, che consiste nella garanzia di ottenere, in tempi “accettabili”, concreta soddisfazione in giudizio delle proprie ragioni (ovvero i motivi per cui queste non debbano essere accolte)[2], è stato recepito nell’ordinamento italiano con la L. 848 del 04/08/1955[3], ma ciò si è rivelato non sufficiente per assolvere l’impegno internazionalmente assunto.

La legge ordinaria di esecuzione di un accordo internazionale è infatti necessaria per recepire le disposizioni convenzionali nel nostro ordinamento, ma affinchè ciò permetta la diretta applicabilità di tali norme è altresì necessario che queste contengano elementi specifici, dai quali sia possibile desumere una loro applicazione senza dover ricorrere ad ulteriore attività di produzione giuridica.

Data la evidente generalità dell’art. 6, Convenzione, derivava pertanto che le “vittime” di procedimenti troppo lunghi dovevano utilizzare le vie previste dalla CEDU (art. 34[4] e 41[5]), ricorrendo direttamente alla tutela della Corte europea per ottenere, qualora ve ne fossero i presupposti, un’equa soddisfazione.

Una primo riconoscimento “interno” al diritto al risarcimento del danno nel caso di denegata o ritardata giustizia si è rinvenuto nell’art. 3, L. 13/04/1988, n. 117[6]. Tale norma, tuttavia, e la L. 117/1988 in generale, richiede l’accertamento della responsabilità del giudice secondo i criteri in essa stabiliti, ed è un procedimento a cognizione piena che, oltre ad essere caratterizzato da regole ad hoc[7] (stante il particolare oggetto, quello della responsabilità del giudice), può essere promosso di regola solo quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione, oltre a prevedere solo il risarcimento dei danni patrimoniali, giacché il risarcimento di quelli non patrimoniali viene riconosciuto solo in caso di colpevole privazione della libertà personale (articolo 2, comma I, L. 117/1988)[8].

In tale quadro normativo si è inserita la modifica dell’articolo 111 Cost.[9], ex L. Cost. 23/11/1999, n. 2[10]. Anche tale riconoscimento del rango costituzionale del diritto all’equo processo non ha reso però immediatamente attuabile l’impegno di cui alla Convenzione: la nuova norma, di carattere programmatico, era bisognosa di ulteriori disposizioni per l’attuazione concreta del principio affermato, essendo del resto più indirizzata al legislatore che all’applicazione diretta[11].

E’ in tale contesto che gli organi del Consiglio di Europa hanno “intimato” l’Italia a introdurre un rimedio interno alla irragionevole durata dei processi, con l’obiettivo di liberare la Corte europea delle migliaia di ricorsi provenienti dall’Italia, che avevano quasi monopolizzato e ingolfato il lavoro della Corte medesima.

Ecco dunque l’emanazione della L. 24/03/2001, n. 89[12], per garantire una tutela effettiva sia al termine di durata ragionevole dei procedimenti, sia - in caso di sua violazione - al diritto all’equa riparazione, prevedendo un meccanismo nazionale che consenta a tutti di avvalersi dei diritti e delle libertà della Convenzione. Alla stregua del principio di sussidiarietà sancito dall’art. 35[13], CEDU, la Corte europea può ora essere adita solo dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne introdotte con la L. 89/2001: la proposizione del ricorso avanti al giudice nazionale diventa così una condizione di ricevibilità della domanda alla Corte europea[14].

Certo la fonte del riconoscimento del diritto all’equa riparazione non deve essere ravvisata nella sola citata normativa nazionale, coincidendo il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge nazionale con la violazione della norma contenuta nell’art. 6 della Convenzione. Tuttavia, in caso di richiesta della riparazione, la normativa di riferimento deve essere quella interna: il giudice nazionale è tenuto ad applicare la legge dello Stato, senza possibilità di diretta applicazione della diversa giurisprudenza della Corte europea.

2. Il processo presupposto: ambito di applicabilità oggettivo della L. 89/2001.

La nozione di processo considerata dalla Convenzione – e, conseguentemente, anche dalla L. 89/2001 – si identifica con qualsiasi procedimento si svolga dinanzi agli organi pubblici di giustizia per l’affermazione o la negazione di una posizione giuridica di diritto facente capo a chi il processo promuova o subisca[15].

L’ampiezza della nozione ha permesso alla giurisprudenza di riconoscere esplicitamente l’applicabilità della L. 89/2001 alla procedura fallimentare[16], anche nel caso in cui il ritardo lamentato si riferisca al procedimento esecutivo concorsuale cui dà vita la dichiarazione di fallimento[17].

La ragionevole durata può pretendersi anche nel procedimento esecutivo[18], nel giudizio civile avente ad oggetto il risarcimento del danno da occupazione illegittima[19], nel procedimento esecutivo di sfratto[20] e di rilascio di immobile a seguito di sua convalida[21]. Sono ugualmente soggetti alla L. 89/2001 la domanda di accertamento della paternità o maternità naturale[22], il procedimento possessorio[23] e di opposizione a decreto ingiuntivo[24], il giudizio di divorzio[25].

La giurisprudenza più recente ritiene che il principio di ragionevole durata del processo trovi applicazione anche nel contenzioso tributario[26]. Non sono mancate tuttavia pronunce che hanno concluso diversamente, sostenendo che la disciplina dell’equa riparazione non è applicabile ai giudizi involgenti la potestà impositiva dello Stato[27]. Il fatto che la L. 89/2001 includa, fra i soggetti obbligati all’equa riparazione anche il Ministero delle finanze, andrebbe riferito esclusivamente alle controversie di competenza del Giudice tributario in cui non venga in evidenza l’esercizio da parte dell’Amministrazione del potere di determinare il contenuto concreto dell’obbligo tributario, o che riguardino sanzioni tributarie assimilabili, per la loro natura e gravità, a sanzioni penali[28].

Si ritiene in ogni caso applicabile la disciplina della L. 89/2001 qualora l’oggetto della controversia tributaria sia la richiesta del contribuente di rimborso di imposta indebitamente pagata[29], l’individuazione del soggetto di un credito di imposta non contestato nella sua esistenza[30], la controversia che riguardi l’applicazione (e quindi, la determinazione) delle sanzioni di carattere tributario[31], giudizi di natura civilistica[32] e di natura penale[33], le richieste di rimborso di somme rifluenti nell’area delle obbligazioni privatistiche o le pretese tributarie dell’amministrazione connesse a sanzioni[34].

II provvedimento cautelare, atto precario e rivedibile, non tocca il diritto dell’attore di ottenere la definizione, entro un termine ragionevole, della controversia, nè correlativamente esclude il dovere dello Stato di assicurare la conclusione del procedimento nel rispetto di quel termine. Detto provvedimento può incidere sul diverso versante della consistenza della conseguenze negative del ritardo, specie quando la protezione provvisoria della posizione dell’istante sia pari a quella reclamata con la domanda e poi accordata in via definitiva con la decisione, ma, anche in tale ipotesi, non osta alla configurabilità di un pregiudizio morale, pure se di entità ridotta, dato che la precarietà di quella protezione non elimina l’incertezza e la connessa sofferenza per l’attesa della definizione della lite, potendo solo diminuirne l’intensità[35].

L’eccessiva durata di un procedimento cautelare non può in ogni caso essere presa in considerazione in via autonoma, in quanto esso è strumentale rispetto al giudizio di merito in cui si inserisce; ne consegue che l’apprezzamento della necessità della cautela rispetto alla conclusione del processo investe valutazioni discrezionali che non possono essere riesaminate al di fuori del processo in cui hanno avuto luogo, e non rilevano ai fini della determinazione della ragionevole durata del processo se i limiti ragionevoli di tempo sono stati rispettati nel processo di merito nel quale il procedimento cautelare si è svolto[36].

La ragionevole durata è riferibile anche al processo amministrativo, anche se promosso per la tutela di una situazione di interesse legittimo. In generale, il diritto alla equa riparazione nei giudizi amministrativi va ravvisato ogni volta in cui la rivendicazione di un diritto patrimoniale verso la amministrazione sia prevalente rispetto ad ogni altra indagine, e va invece escluso allorchè il giudizio riguardi solo l’uso fatto dall’amministrazione dei suoi poteri discrezionali, salvo il limite preclusivo rappresentato dalla partecipazione attiva del ricorrente all’esercizio della potestà pubblica[37].

Processo è anche la fase delle indagini che precedono l’azione penale, le quali perciò, ove irragionevolmente protrattesi, ben possono assumere rilievo a partire dal momento in cui sia possibile identificare uno o più soggetti che di quel procedimento siano effettivamente divenuti parte per essere stati informati della pendenza del processo medesimo (e posti in grado di parteciparvi)[38]. Ne discende che - al fine del diritto ad equa riparazione - la fase anteriore al rinvio a giudizio è rilevante se e dalla data in cui vi sia stata accusa[39].

3. I legittimati alla domanda.

Il diritto all’equo indennizzo è previsto per chi, per effetto della violazione del termine ragionevole del processo, ha subito un danno patrimoniale e non patrimoniale: stante la genericità della formulazione dell’art. 2, L. 89/2001, la legittimazione attiva è pertanto attribuibile a tutti coloro che abbiano avuto in giudizio la veste tanto di parte in senso sostanziale che in senso formale. Ciò che rileva è che un determinato soggetto sia il destinatario degli effetti della sentenza: il fatto di essere parte soltanto in senso processuale rileva, invece, ai fini dell’accertamento in concreto della sussistenza della violazione[40].

Il diritto all’equa riparazione spetta dunque a tutte le parti del processo, attori o convenuti, indipendentemente dall’esito del giudizio presupposto e dal fatto che esse siano risultate (o siano destinate ad essere, se il giudizio presupposto è ancora in corso) vittoriose o soccombenti in sede civile o condannate in sede penale[41]. L’esito favorevole della causa non è infatti, di regola, condizione di azionabilità della pretesa indennitaria: esso, al più, potrà avere un indiretto riflesso sull’identificazione - o sulla misura - del pregiudizio sofferto in conseguenza della eccessiva durata della causa stessa[42].

Proprio perché l’equa riparazione viene accordata senza riguardo all’esito del giudizio, ove la parte invocante l’indennizzo sia addivenuta, nella pendenza di un processo di durata irragionevole, a transigere la controversia, il giudice del merito non può rinvenire in tale conclusione un ostacolo alla valutazione della domanda[43].

Allo stesso modo, il diritto all’equa riparazione compete anche quando la durata eccessiva abbia determinato l’estinzione del reato per prescrizione, salvo che l’effetto estintivo derivi dall’utilizzo, da parte dell’imputato, di tecniche dilatorie o di strategie sconfinanti nell’abuso del diritto di difesa[44].

Non incide sulla esistenza del diritto all’equa riparazione nemmeno la circostanza che il giudizio affetto da irragionevole ritardo si sia estinto a causa della tardività della sua riassunzione operata dalla medesima parte[45].

Il diritto alla trattazione delle cause entro un termine ragionevole è riconosciuto, come anzidetto, con riferimento alle cause “proprie” e, quindi, esclusivamente in favore delle parti in causa, e non anche di soggetti che siano ad essa rimasti estranei, essendo irrilevante che questi ultimi possano aver patito indirettamente dei danni dal protrarsi del processo[46].

Nel caso di un giudizio penale, pertanto, la persona offesa dal reato ed il querelante sono legittimati a chiedere l’indennizzo solo se si siano costituiti parte civile nel processo penale[47]. Se, infatti, i principi di buon andamento ed imparzialità riguardano l’organizzazione e il funzionamento della P.A., il rilievo costituzionale del principio di ragionevole durata attiene alla posizione di chi il processo promuova o subisca, e quindi alla posizione delle sole parti costituite in giudizio[48].

Consegue a ciò che la parte civile nel processo penale non può lamentarne l’irragionevole durata per il periodo anteriore alla sua costituzione, in quanto nei confronti della persona offesa il processo penale (al di là della consentita partecipazione a determinati atti nella fase delle indagini preliminari) non è volto a tutelare alcuna sua posizione di diritto[49].

Legittimato attivo è anche il fallito, anche se egli formalmente non è parte in giudizio (lo è il curatore): egli può esercitare in proprio l’azione per il risarcimento dei danni da equa riparazione, sia per i danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali, trattandosi di diritti di natura strettamente personale[50].

Il diritto all’equa ripartizione va riconosciuto anche in favore degli eredi della parte che abbia introdotto il giudizio nel quale si lamenta la non ragionevole durata, col solo limite che la domanda di equa riparazione non sia stata già proposta alla Corte europea e che questa si sia pronunciata sulla sua inammissibilità[51]. Nel caso di prolungamento della controversia oltre la scadenza ragionevole, si delinea in modo unitario il diritto ad un’equa riparazione e correlativamente l’azione con la quale il diritto medesimo è fatto valere[52].

L’erede della parte del processo affetto da ritardo, effettivo destinatario della sentenza che conclude il processo proposto da o contro il de cuius, quand’anche dopo la morte del dante causa non si sia costituito nel processo civile presupposto non interrotto (ma proseguito nei confronti delle parti originarie), è inoltre legittimato iure proprio a fare valere in giudizio il diritto all’equa riparazione anche per il periodo successivo alla morte del de cuius[53]. In tale ipotesi deve farsi riferimento, ai fini della determinazione dell’indennizzo, all’intero processo, e non valutare separatamente l’arco temporale riferibile al de cuius e quello riferibile all’erede. In termini di liquidazione della riparazione, va riconosciuto agli eredi, pro quota, l’equo indennizzo che sarebbe stato liquidato al loro dante causa per l’eccessiva durata del processo da lui promosso sino alla data della sua morte, al quale va aggiunto l’indennizzo eventualmente spettante per intero a ciascuno degli eredi per la eccessiva durata della fase del processo successiva alla sua riassunzione[54].

4. La natura dell’accertamento.

L’accertamento della violazione del termine di ragionevole durata rappresenta un elemento imprescindibile, logicamente e giuridicamente preliminare, per valutare l’esistenza del danno e per l’eventuale liquidazione dell’indennizzo[55].

Il diritto ad un’equa riparazione non richiede l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 c.c., né presuppone la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente, ma solo la effettiva violazione dell’art. 6, Convenzione: l’art. 2, L. 89/2001, ha infatti assunto come propri i parametri che la Corte europea ha elaborato al fine di decidere se nei casi di volta in volta sottoposti al suo esame fosse rimasta inappagata l’esigenza del rispetto della durata ragionevole del processo[56]. L’equa riparazione si configura, d’altronde, non già come obbligazione ex delicto, ma come obbligazione ex lege, riconducibile, in base all’art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico[57].

Ciò che rileva, pertanto, è il dato oggettivo del tempo trascorso fra l’inizio del procedimento e la sua conclusione (o, se ancora in corso, la proposizione del ricorso ex L. 89/2001), abbracciando tutte le “violazioni di sistema”, ivi incluse quelle riconducibili a scelte legislative che determinino o concorrano a determinare l’eccessivo protrarsi della lite[58].

Sono di conseguenza irrilevanti – ovvero non esentano lo Stato da responsabilità - le disfunzioni e i ritardi riconducibili all’organizzazione amministrativa e al sistema processuale, la mancata predisposizione di misure idonee alla sollecita definizione delle cause mediante una adeguata predisposizione di risorse umane e materiali e una efficiente organizzazione degli uffici[59]: l’autorità ha l’obbligo di organizzare il sistema giudiziario in modo tale che i tribunali possano soddisfare tutti i requisiti del giusto processo previsti[60].

Consegue che la parte istante l’indennizzo può limitarsi ad addurre l’obiettivo dato del ritardo, essendo poi questione di merito verificare se detto dato sussista o meno, anche in relazione al parametro del comportamento serbato dagli uffici giudiziari e, più in generale, da tutte le altre autorità chiamate a concorrere ed a contribuire alla definizione della lite[61].

In altri termini, con l’allegazione e dimostrazione del protrarsi della controversia oltre il termine mediamente qualificabile come ragionevole, l’istante offre il titolo della propria richiesta indennitaria: spetta all’Amministrazione convenuta di dedurre e provare eventuali peculiarità della vicenda giustificative di un prolungamento di detto termine, ovvero atte ad escludere la riferibilità del ritardo a disfunzioni dell’organizzazione giudiziaria[62].

5. La ragionevole durata del processo. La complessità del caso, il comportamento delle parti e dell’autorità giudiziaria.

La nozione di “ragionevole durata” è ontologicamente diversa da quella di “tempo strettamente necessario per la trattazione della causa”. La prima, infatti, è sì un valore da perseguire ed attuare ai sensi della CEDU, ma non fino al punto di trasformarla in una giustizia affrettata e sommaria[63].

La ragionevole durata non ha carattere assoluto, ma relativo, ed è condizionata da parametri fattuali strettamente legati alla singola fattispecie, che impediscono di fissarla facendo riferimento a cadenze temporali rigide. La durata ragionevole del processo va dunque misurata in concreto (secondo la complessità della fattispecie, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione: cfr infra), attraverso l’esame specifico della singola vicenda processuale, sia pure avendo come parametro un modello di durata “media”, ma senza risolversi nella semplice sintesi meccanicistica del cadenzamento dei termini processuali[64].

Il concetto di ragionevole durata va ricondotto al procedimento nel suo complesso, e non ai singoli termini interni. Certo il giudice può condurre la propria indagine con riferimento alle singole fasi processuali, ma resta ferma la necessità che egli pervenga ad una valutazione della durata complessiva del processo[65].

Diversamente opinando, si perverrebbe alla conclusione che qualsiasi inosservanza di un termine interno al processo sia irragionevole, conclusione non coerente con la normativa de qua[66].

Il giudice italiano è poi tenuto ad interpretare la L. 89/2001 in modo conforme alla Convenzione, per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea[67]. Le sentenze della Corte europea in tema di interpretazione dell’art. 6, par. 1 della Convenzione, d’altronde, pur non avendo efficacia immediatamente vincolante, costituiscono la prima e più importante guida ermeneutica, consentendo la corretta applicazione di un criterio, la “ragionevolezza”, che ha in sé insiti margini di elasticità[68].

A ciò si accompagna l’obbligo specifico di prendere in esame, e di farsi carico criticamente, dei precedenti della Corte europea che si assumano pronunciati su casi identici o analoghi (anche nel caso in cui essa abbia, in un caso dedotto come analogo, riconosciuto la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione[69]), eventualmente esponendo i motivi in base ai quali, e in relazione alle circostanze del caso concreto, si ritiene di dovere pervenire a un risultato ermeneutico diverso[70].

Ne consegue che i parametri cronologici elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea (che ha ritenuto che può essere considerato ragionevole il termine di tre anni per la durata del giudizio di primo grado e di due anni per la durata del secondo grado[71]) hanno valore orientativo, ma non tassativo[72].

Per il superamento della soglia di ragionevolezza della durata del processo è necessaria una indagine specifica che dovrà essere condotta in rapporto ai parametri di cui l’art. 2 della legge 89/2001, a mezzo di un giudizio comparativo delle suddette circostanze[73].

Il giudice, una volta individuato l’intero arco temporale del processo, deve operare una selezione tra i segmenti temporali attribuibili alle parti e quelli riferibili all’operato del giudice, sottraendo i primi alla durata complessiva del procedimento. Ciò che risulta da tale sottrazione, costituisce il tempo complessivo imputabile al giudice inteso come “apparato giustizia”, in relazione al quale dovrà essere emesso il giudizio inerente alla ragionevolezza o meno della durata del processo[74].

L’accertamento relativo alla ragionevolezza della durata de