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Il legislatore positivizza l’istituto della revoca del presidente dell’assemblea elettiva degli enti locali siciliani

Dopo alcuni lustri di reggenza del diritto vivente in materia di revoca del presidente dell’organo consiliare degli enti locali, il legislatore siciliano ha deciso di positivizzare il principio, introducendone l’istituto giuridico all’art. 11 bis della l.r. n. 35/97, attraverso l’art. 10, commi 1 e 2, della recente l.r. n. 6 del 11/04/2011. Sfuggono le ragioni per le quali il medesimo trattamento non è stato riservato anche alla figura del vice-presidente.

Il nuovo articolo 11 bis della l.r. n. 35/97, rubricato “Revoca del presidente del consiglio provinciale e del consiglio comunale”, al 1° comma, così recita: “Nei confronti del presidente del consiglio provinciale e del presidente del consiglio comunale può essere presentata, secondo le modalità previste nei rispettivi statuti, una mozione motivata di revoca. La mozione, votata per appello nominale ed approvata da almeno i due terzi dei componenti del consiglio, determina la cessazione dalla carica di presidente”. Il 2° comma così dispone: “Entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, i comuni e le province regionali adeguano i propri statuti alle disposizioni di cui all’art. 11 bis della legge regionale 15 settembre 1997, n. 35, introdotto dal comma 1”.

1. Il ruolo del presidente dell’assemblea elettiva

Né la riforma degli enti locali (l. n. 142/90 come recepita in Sicilia con la l.r. n. 48/91) né il successivo Testo Unico degli enti locali (ad eccezione dell’art. 39 del D.lgs. n. 267/2000) hanno inteso disciplinare compiutamente ruolo e funzioni del presidente del consiglio, forse perché ritenuto, nella prassi, pur sempre un consigliere, anche se “graduato” (il corsivo è nostro). L’art. 185 dell’Ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione Siciliana, approvato con legge regionale n. 16/1963, si limita a dire che “Chi preside le adunanze provvede a mantenere l’ordine, l’osservanza delle leggi e la regolarità delle discussioni e delle deliberazioni. Ha facoltà di sospendere e di sciogliere l’adunanza”. Statuti e regolamenti, nell’espressione dell’autonomia degli enti, disciplinano le restanti modalità di esercizio dei poteri e delle attribuzioni del Presidente del Consiglio “sia nei rapporti con gli organi di governo dell’ente che con le articolazioni interne del consiglio (commissioni, gruppi, conferenza dei capigruppo), sia quanto alle prerogative in ordine alla convocazione delle sedute, alla formazione dell’ordine del giorno, alla direzione della discussione e ai poteri di <<polizia>> dei lavori consiliari, con il limite invalicabile che non si comunque snaturata la funzione dell’organo e non ne siano compromesse le finalità di garanzia, come accadrebbe se, ad esempio, si istituisse un rapporto diretto di fiducia politica con la maggioranza consiliare”[1].

La dottrina se n’è occupata, ritenendo che la figura concentra su di sè tutti i compiti di programmazione dei lavori consiliari, di coordinamento e tutela dei diritti dei singoli consiglieri, sia in seduta che al di fuori, variamente collegati con il minus[2]. Per alcuni commentatori, “La finalità di direzione e coordinamento risponde, pertanto, ad esigenze di trasparenza, correttezza, autonomia degli Organi assembleari e del Sindaco (o Presidente della Provincia), controllo delle minoranze, come se il Presidente fosse un “primus inter pares”, affine alla figura dello speaker di stampo britannico, tant’è vero che la sua figura è stata paragonata ad una sorte di mediatore tra le forze in campo, senza connotazione politica”[3].

Ma il contributo di maggiore spessore è arrivato dalla giurisprudenza che, nel definire i contorni dell’organo consiliare, ne ha ritagliato il ruolo del suo presidente. Significativo risulta infatti quanto affermato dalla Corte Costituzionale che, pur sottolineando l’indissolubile collegamento esistente, nell’ambito degli enti locali, tra livello “amministrativo” e livello di “governo”, ha distinto tra “l’azione del governo” che, nelle democrazie parlamentari, è normalmente legata agli interessi di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza, e l’azione “dell’amministrazione” che, nell’attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall’ordinamento[4].

Per la giurisprudenza amministrativa l’importanza di tale alta funzione istituzionale (in quanto collegata all’Amministrazione e non al Governo dell’Ente) non può che essere assolta e disimpegnata nel più assoluto rigore ed imparzialità dal presidente del consiglio[5]. Peraltro, “Il Consiglio Comunale è infatti l’organo nel quale, a differenza della Giunta, sono presenti maggioranza e minoranza; nel suo ambito deve dunque equilibrarsi l’esercizio dei due distinti diritti, della maggioranza, all’attuazione dell’indirizzo politico sancito dall’elettorato, e della minoranza a rappresentare e svolgere la propria opposizione. Si tratta di un equilibrio posto a garanzia della corretta dialettica tra le parti e che richiede un sistema di regole a tutela di ciascuna parte, pur nella distinzione delle posizioni politiche, in quanto volto a consentire l’attività del Consiglio nella sua unitaria funzione istituzionale, <<di indirizzo e di controllo politico-amministrativo” (art. 32, l. n. 142 del 1990), indipendentemente dalle decisioni ch’esso di volta in volta esprima. Regole quindi a carattere neutrale e dal contenuto essenzialmente procedurale quali sono, tipicamente quelle sull’organizzazione dei lavori e lo svolgimento della discussione e delle votazioni, e la cui applicazione è coerente con la funzione di garanzia che per esse si concreta soltanto se svolta sopra partes e da un soggetto a ciò istituzionalmente preposto; e questi non può che essere, anzitutto, il Presidente dell’Assemblea, in quanto presidente di tutto il collegio, nella sua unità istituzionale, e suo rappresentante. La funzione del Presidente, di conseguenza, non è strumentale all’attuazione di un indirizzo politico ma al corretto funzionamento dell’istituzione in quanto tale; essa è perciò neutrale, e, ferma la necessaria cautela nel richiamo all’ordinamento di organi costituzionali, analoga è la funzione dei Presidenti della Camere, come consolidatasi nel tempo indipendentemente dalla provenienza politica e dalla maggioranza che li abbia eletti”[6].

2. Fiducia politica e istituzionale

Trattandosi di una carica di tipo mediato, cioè eletta dall’assemblea dei rappresentanti del popolo, il diritto di elettorato passivo di cui all’art. 51 della Costituzione viene in rilievo solo di riflesso. Infatti il requisito per essere eletto presidente è solo quello di avere già acquisito lo status di consigliere. Tuttavia, è diffusa nella prassi dei rapporti tra le forze politiche la pratica di individuare candidati alla carica di presidente dell’assemblea dotati certamente della necessaria “fiducia politica” ma anche della opportuna esperienza politica ed istituzionale, al fine di soddisfare le esigenze di terzietà che il ruolo impone. Non è un caso che sul candidato alla carica di presidente, che com’è noto può essere eletto con i soli voti della maggioranza, esprimono puntualmente le proprie valutazioni anche i gruppi consiliari di minoranza. Siamo quindi in presenza di una fattispecie complessa di “fiducia politica”, “Si tratta, beninteso, di fiducia in senso politico che, se pure si sostanzia in modo affatto diverso, sulla scorta eminentemente di valutazioni di carattere politico, di convenienza e opportunità, fatte dai partiti dove rilevano, con la personalità e le esperienze del candidato, la sua provenienza e collocazione politica, gli affidamenti che egli possa dare a questa o quella formazione politica circa la sua opera futura, l’opera prestata in qualità di uomo politico, e così via”[7].

Attesa la funzione prettamente istituzionale, il presidente del consiglio è tenuto a mantenere il rapporto di “fiducia politica”, inteso nei termini su argomentati, non solo con coloro che lo hanno eletto ma con tutti i consiglieri sia di maggioranza che di minoranza. In tale contesto, “il Presidente del Consiglio comunale deve arbitrare, nel rispetto della legge e dei valori della Costituzione repubblicana, l’agone politico e non giocarvi come qualunque altro uomo di partito o di fazione, a pena di spezzare i principi d’imparzialità e di neutralità della relativa funzione…”[8].

3. L’istituto della revoca

Opportunamente il legislatore regionale, all’art. 11 bis della l.r. n. 35/97, parla di “revoca” e non di “sfiducia”, ed ecco perché appare più corretto l’inquadramento giuridico della positivizzazione, attesa l’esistenza di un diritto vivente ed immanente nell’ordinamento. Viceversa, qualora il legislatore avesse parlato di sfiducia (rectius, sopravvenuta mancanza di fiducia politica) la disposizione normativa avrebbe avuto effetti innovativi nell’ordinamento. La giurisprudenza infatti, pur in assenza di una specifica disposizione legislativa, ha sempre ammesso l’ipotesi della cessazione del mandato di presidente per “revoca” del mandato e non anche per “sfiducia”, ipotesi quest’ultima, riconducibile ad un rapporto fondato sulla “fiducia politica” intesa nel senso più tradizionale del termine e come tale inidonea ad essere applicata per il caso che ci occupa.

A tale riguardo, la giurisprudenza[9] in più d’una occasione ha avuto modo di rilevare che in relazione alle funzioni istituzionali demandate alle cariche apicali dell’assemblea consiliare, appare di dubbia legittimità la cessazione dalla carica a seguito di “mozione di sfiducia”, configurabile in termini di controllo politico che mal si attaglia alle prerogative e alle funzioni tutorie e di garanzia demandate a tali organi. In questo senso, si è quindi consolidato l’orientamento[10] che, al di là del nomen iuris utilizzato, vieta di deliberare una revoca del mandato del presidente dell’organo consiliare nei casi in cui sia venuto meno il rapporto di fiduciarietà politica.

4. La motivazione della revoca

Non a caso, quindi, il legislatore regionale prescrive che la mozione di revoca sia motivata. La motivazione risponde a due esigenze, una formale e l’altra sostanziale. Quella formale è riconducibile al principio generale previsto dall’art. 3 della l. n. 241/90, attesa l’inequivocabile natura provvedimentale della delibera con la quale l’organo consiliare dispone l’approvazione della mozione di revoca del presidente del consiglio. Quella sostanziale è invece sottesa alla funzione istituzionale che l’ordinamento riserva al presidente dell’assemblea elettiva e ricavabile dalla vasta giurisprudenza in materia. L’operato del presidente del consiglio va infatti sindacato dall’organo consiliare solo sulla base di atti e comportamenti strettamente connessi all’esercizio della funzione istituzionale. Da qui la conclusione secondo la quale “E’ legittima la delibera di revoca della carica di Presidente del Consiglio comunale, motivata con riferimento ad una serie di condotte realizzate all’interno del Consiglio comunale ed in altre sedi che dimostrano un atteggiamento poco compatibile con il ruolo istituzionale super partes che gli compete…”[11]. Ancora, “I gravi e comprovati motivi che giustificano la revoca del presidente e del vice presidente del consiglio comunale si riferiscono alle violazioni commesse nell’esercizio delle funzioni inerenti la carica, quali delineate dall’art. 31, comma 3 bis, della legge 8 giugno 1990, n. 142, che, nel prevedere l’istituzione di tale carica nei comuni con più di quindicimila abitanti, conferisce ad essa i poteri di convocazione e direzione dei lavori e delle attività del consiglio comunale; violazioni qualificabili come gravi possono essere solo le azioni o le omissioni che violino tale dovere di garanzia ovvero compromettono in modo grave l’attività istituzionale del consiglio, in quanto concretizzano disfunzioni sul piano organizzativo”[12].

5. La copertura statutaria

Una altro dei principi che il legislatore regionale ha inteso positivizzare è quello di dare copertura statutaria all’istituto della revoca del presidente dell’organo consiliare. Il citato comma 2° dell’art. 11 bis dispone infatti che gli enti locali adeguino i rispettivi statuti alle disposizioni di cui trattasi. Tale esigenza nasce dall’evoluzione del quadro normativo in materia di enti locali, puntualmente individuata dalla giurisprudenza, secondo cui “nel quadro istituzionale derivante dall’introduzione del nuovo Titolo V, anche alla luce della legge n. 131 del 2003, il T. U. degli enti locali n. 267 del 2000 ha perso l’originaria connotazione di legge organica di sistema, una volta venuta meno la norma costituzionale di riferimento costituita dall’art. 128 Cost. (che affidava a leggi generali dello Stato l’enunciazione dei principi nell’ambito dei quali l’autonomia degli enti locali poteva esplicarsi). Inoltre la previsione del potere normativo locale tra le prerogative contemplate direttamente dalla Costituzione ha ulteriormente rafforzato il valore degli statuti locali nella gerarchia delle fonti: adesso esso si configura come atto formalmente amministrativo, ma sostanzialmente come atto normativo atipico, posto in posizione di primazia rispetto alle fonti secondarie dei regolamenti e al di sotto delle leggi di principio, in quanto diretto a fissare le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente ed a porre i criteri generali per il suo funzionamento, da svilupparsi in sede regolamentare”[13].

Il principio, già esistente nel diritto vivente, prevede infatti che “L’istituto della revoca del Presidente del Consiglio comunale può essere legittimamente disciplinato solo dallo Statuto dell’Ente locale e, in tale ambito, eventuali norme regolamentari possono determinare esclusivamente le procedure relative all’applicazione dell’istituto; è pertanto illegittima, in assenza di una specifica fonte normativa statutaria, una norma regolamentare approvata con deliberazione di Consiglio comunale, secondo cui il Presidente del Consiglio comunale può essere revocato con il voto favorevole del 65% dei consiglieri assegnati per ripetute violazioni di legge, dello Statuto e dei regolamenti e per duplice mancata convocazione del Consiglio nei termini”[14]. Non mancano, tuttavia, orientamenti diversi che, viceversa, hanno ritenuto legittima la revoca del presidente del consiglio “…pur mancando nello Statuto comunale ogni previsione sul punto, allorchè venga meno la neutralità e la correttezza della funzione, si formi una maggioranza di consiglieri comunali ch s’esprima in senso favorevole alla revoca e vi sia una funzione di garanzia super partes, estranei alle competenze proprie del ruolo istituzionale del Presidente medesimo”[15].

6. La natura obbligatoria dell’adeguamento statutario

L’elemento di novità rispetto al passato, in cui la revoca del presidente del consiglio in assenza di adeguata copertura statutaria poteva anche trovare spazi nelle pieghe della giurisprudenza, è che l’adeguamento dello Statuto alle previsioni dell’art. 11 bis diventa conditio sine qua non perché l’organo consiliare possa revocare il mandato al proprio presidente. L’adeguamento in questione, anche se il termine dei 90 giorni previsto dal 2° comma del citato art. 11 bis è da considerarsi ordinatorio, è un adempimento tutt’altro che facoltativo. Al contrario, l’adeguamento dello Statuto, attraverso l’introduzione dell’istituto della revoca della figura apicale dell’organo consiliare, ha natura vincolata e di conseguenza non è ipotizzabile pensare ad alcun margine di discrezionalità riservato al potere normativo dell’Ente locale, trattandosi di materia sottratta alla potestà regolamentare e statutaria degli Enti locali, se non nel contesto della disciplina di dettaglio. La natura vincolata e obbligatoria di tale adempimento ha, di conseguenza, delle implicazioni sull’esercizio del controllo sostitutivo regionale. Deve, infatti, rilevarsi che l’esercizio del controllo sostitutivo regionale sugli enti locali ex art. 24 l.r. n. 44/91 sorge a causa dell’omissione o del ritardo nel compimento di “atti obbligatori per legge”, degli atti, cioè, la cui emanazione trova la sua fonte esclusiva in una disposizione normativa. Pertanto, nel caso che ci occupa, qualora l’organo consiliare non deliberasse il citato adeguamento statutario, tale adempimento potrà essere adottato, in via sostitutiva, dalla Regione attraverso l’invio di un Commissario ad acta.

Rimane privo di disciplina legislativa (e di conseguenza lasciato alla fisiologia del sistema giurisprudenziale, che com’è noto si basa sul limite soggettivo del giudicato per le sole parti del procedimento) l’istituto della revoca del vice-presidente dell’organo consiliare, la cui sorte, per inspiegate motivazioni, non è stata accomunata dal legislatore regionale a quella del presidente, pur avendone le medesime caratteristiche istituzionali.



[1] Tar Puglia-Bari, Sez. I°, sent. 04/11/2002 n. 4719.

[2] Si veda Tessaro e Randelli, Organi e sistema elettorale, Maggioli Rimini 2001.

[3] Paola Minetti, “La revoca del Presidente del Consiglio comunale: atto sempre in bilico tra la funzione politica e funzione amministrativa”, in LexItalia n. 11/2004.

[4] Corte Cost. sent. 15/10/1990 n. 453.

[5] Tar Catania, sent. 09/03/2006 n. 1181.

[6] Cons. Stato, Sez. V°, sent. 25/11/1999 n. 1983.

[7] Tar Veneto, Sez. I°, sent. 21/12/2005 n. 4359.

[8] Tar Lazio, Roma, Sez. II°, sent. 13/10/2008 n. 8881.

[9] Tar Palermo, Sez. I°, sent. n. 3025/2006 relativa alla legittimità di una norma statutaria che prevede tale facoltà; Tar Palermo, Sez. I°, sent. 2019/2007.

[10] Tar Campania-Napoli, Sez. I°, sent. 17/12/2004 n. 19384; Tar Abruzzo-L’Aquila, sent. 02/07/2008 n. 865.

[11] Tra Abruzzo-L’Aquila, Sez. I°, sent. 02/07/2008 n. 865.

[12] Cons. Stato, Sez. V°, sent. 20/10/2004 n. 6838.

[13] Cass. SS.UU. 16.06.2005, nr.12868.

[14] C.G.A. sez. giurisd. Sent. 31/12/2007 n. 1175.

[15] Tar Lazio-Roma, Sez. II°, sent. 13/10/2008 n. 8881.

Dopo alcuni lustri di reggenza del diritto vivente in materia di revoca del presidente dell’organo consiliare degli enti locali, il legislatore siciliano ha deciso di positivizzare il principio, introducendone l’istituto giuridico all’art. 11 bis della l.r. n. 35/97, attraverso l’art. 10, commi 1 e 2, della recente l.r. n. 6 del 11/04/2011. Sfuggono le ragioni per le quali il medesimo trattamento non è stato riservato anche alla figura del vice-presidente.

Il nuovo articolo 11 bis della l.r. n. 35/97, rubricato “Revoca del presidente del consiglio provinciale e del consiglio comunale”, al 1° comma, così recita: “Nei confronti del presidente del consiglio provinciale e del presidente del consiglio comunale può essere presentata, secondo le modalità previste nei rispettivi statuti, una mozione motivata di revoca. La mozione, votata per appello nominale ed approvata da almeno i due terzi dei componenti del consiglio, determina la cessazione dalla carica di presidente”. Il 2° comma così dispone: “Entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, i comuni e le province regionali adeguano i propri statuti alle disposizioni di cui all’art. 11 bis della legge regionale 15 settembre 1997, n. 35, introdotto dal comma 1”.

1. Il ruolo del presidente dell’assemblea elettiva

Né la riforma degli enti locali (l. n. 142/90 come recepita in Sicilia con la l.r. n. 48/91) né il successivo Testo Unico degli enti locali (ad eccezione dell’art. 39 del D.lgs. n. 267/2000) hanno inteso disciplinare compiutamente ruolo e funzioni del presidente del consiglio, forse perché ritenuto, nella prassi, pur sempre un consigliere, anche se “graduato” (il corsivo è nostro). L’art. 185 dell’Ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione Siciliana, approvato con legge regionale n. 16/1963, si limita a dire che “Chi preside le adunanze provvede a mantenere l’ordine, l’osservanza delle leggi e la regolarità delle discussioni e delle deliberazioni. Ha facoltà di sospendere e di sciogliere l’adunanza”. Statuti e regolamenti, nell’espressione dell’autonomia degli enti, disciplinano le restanti modalità di esercizio dei poteri e delle attribuzioni del Presidente del Consiglio “sia nei rapporti con gli organi di governo dell’ente che con le articolazioni interne del consiglio (commissioni, gruppi, conferenza dei capigruppo), sia quanto alle prerogative in ordine alla convocazione delle sedute, alla formazione dell’ordine del giorno, alla direzione della discussione e ai poteri di <<polizia>> dei lavori consiliari, con il limite invalicabile che non si comunque snaturata la funzione dell’organo e non ne siano compromesse le finalità di garanzia, come accadrebbe se, ad esempio, si istituisse un rapporto diretto di fiducia politica con la maggioranza consiliare”[1].

La dottrina se n’è occupata, ritenendo che la figura concentra su di sè tutti i compiti di programmazione dei lavori consiliari, di coordinamento e tutela dei diritti dei singoli consiglieri, sia in seduta che al di fuori, variamente collegati con il minus[2]. Per alcuni commentatori, “La finalità di direzione e coordinamento risponde, pertanto, ad esigenze di trasparenza, correttezza, autonomia degli Organi assembleari e del Sindaco (o Presidente della Provincia), controllo delle minoranze, come se il Presidente fosse un “primus inter pares”, affine alla figura dello speaker di stampo britannico, tant’è vero che la sua figura è stata paragonata ad una sorte di mediatore tra le forze in campo, senza connotazione politica”[3].

Ma il contributo di maggiore spessore è arrivato dalla giurisprudenza che, nel definire i contorni dell’organo consiliare, ne ha ritagliato il ruolo del suo presidente. Significativo risulta infatti quanto affermato dalla Corte Costituzionale che, pur sottolineando l’indissolubile collegamento esistente, nell’ambito degli enti locali, tra livello “amministrativo” e livello di “governo”, ha distinto tra “l’azione del governo” che, nelle democrazie parlamentari, è normalmente legata agli interessi di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza, e l’azione “dell’amministrazione” che, nell’attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall’ordinamento[4].

Per la giurisprudenza amministrativa l’importanza di tale alta funzione istituzionale (in quanto collegata all’Amministrazione e non al Governo dell’Ente) non può che essere assolta e disimpegnata nel più assoluto rigore ed imparzialità dal presidente del consiglio[5]. Peraltro, “Il Consiglio Comunale è infatti l’organo nel quale, a differenza della Giunta, sono presenti maggioranza e minoranza; nel suo ambito deve dunque equilibrarsi l’esercizio dei due distinti diritti, della maggioranza, all’attuazione dell’indirizzo politico sancito dall’elettorato, e della minoranza a rappresentare e svolgere la propria opposizione. Si tratta di un equilibrio posto a garanzia della corretta dialettica tra le parti e che richiede un sistema di regole a tutela di ciascuna parte, pur nella distinzione delle posizioni politiche, in quanto volto a consentire l’attività del Consiglio nella sua unitaria funzione istituzionale, <<di indirizzo e di controllo politico-amministrativo” (art. 32, l. n. 142 del 1990), indipendentemente dalle decisioni ch’esso di volta in volta esprima. Regole quindi a carattere neutrale e dal contenuto essenzialmente procedurale quali sono, tipicamente quelle sull’organizzazione dei lavori e lo svolgimento della discussione e delle votazioni, e la cui applicazione è coerente con la funzione di garanzia che per esse si concreta soltanto se svolta sopra partes e da un soggetto a ciò istituzionalmente preposto; e questi non può che essere, anzitutto, il Presidente dell’Assemblea, in quanto presidente di tutto il collegio, nella sua unità istituzionale, e suo rappresentante. La funzione del Presidente, di conseguenza, non è strumentale all’attuazione di un indirizzo politico ma al corretto funzionamento dell’istituzione in quanto tale; essa è perciò neutrale, e, ferma la necessaria cautela nel richiamo all’ordinamento di organi costituzionali, analoga è la funzione dei Presidenti della Camere, come consolidatasi nel tempo indipendentemente dalla provenienza politica e dalla maggioranza che li abbia eletti”[6].

2. Fiducia politica e istituzionale

Trattandosi di una carica di tipo mediato, cioè eletta dall’assemblea dei rappresentanti del popolo, il diritto di elettorato passivo di cui all’art. 51 della Costituzione viene in rilievo solo di riflesso. Infatti il requisito per essere eletto presidente è solo quello di avere già acquisito lo status di consigliere. Tuttavia, è diffusa nella prassi dei rapporti tra le forze politiche la pratica di individuare candidati alla carica di presidente dell’assemblea dotati certamente della necessaria “fiducia politica” ma anche della opportuna esperienza politica ed istituzionale, al fine di soddisfare le esigenze di terzietà che il ruolo impone. Non è un caso che sul candidato alla carica di presidente, che com’è noto può essere eletto con i soli voti della maggioranza, esprimono puntualmente le proprie valutazioni anche i gruppi consiliari di minoranza. Siamo quindi in presenza di una fattispecie complessa di “fiducia politica”, “Si tratta, beninteso, di fiducia in senso politico che, se pure si sostanzia in modo affatto diverso, sulla scorta eminentemente di valutazioni di carattere politico, di convenienza e opportunità, fatte dai partiti dove rilevano, con la personalità e le esperienze del candidato, la sua provenienza e collocazione politica, gli affidamenti che egli possa dare a questa o quella formazione politica circa la sua opera futura, l’opera prestata in qualità di uomo politico, e così via”[7].

Attesa la funzione prettamente istituzionale, il presidente del consiglio è tenuto a mantenere il rapporto di “fiducia politica”, inteso nei termini su argomentati, non solo con coloro che lo hanno eletto ma con tutti i consiglieri sia di maggioranza che di minoranza. In tale contesto, “il Presidente del Consiglio comunale deve arbitrare, nel rispetto della legge e dei valori della Costituzione repubblicana, l’agone politico e non giocarvi come qualunque altro uomo di partito o di fazione, a pena di spezzare i principi d’imparzialità e di neutralità della relativa funzione…”[8].

3. L’istituto della revoca

Opportunamente il legislatore regionale, all’art. 11 bis della l.r. n. 35/97, parla di “revoca” e non di “sfiducia”, ed ecco perché appare più corretto l’inquadramento giuridico della positivizzazione, attesa l’esistenza di un diritto vivente ed immanente nell’ordinamento. Viceversa, qualora il legislatore avesse parlato di sfiducia (rectius, sopravvenuta mancanza di fiducia politica) la disposizione normativa avrebbe avuto effetti innovativi nell’ordinamento. La giurisprudenza infatti, pur in assenza di una specifica disposizione legislativa, ha sempre ammesso l’ipotesi della cessazione del mandato di presidente per “revoca” del mandato e non anche per “sfiducia”, ipotesi quest’ultima, riconducibile ad un rapporto fondato sulla “fiducia politica” intesa nel senso più tradizionale del termine e come tale inidonea ad essere applicata per il caso che ci occupa.

A tale riguardo, la giurisprudenza[9] in più d’una occasione ha avuto modo di rilevare che in relazione alle funzioni istituzionali demandate alle cariche apicali dell’assemblea consiliare, appare di dubbia legittimità la cessazione dalla carica a seguito di “mozione di sfiducia”, configurabile in termini di controllo politico che mal si attaglia alle prerogative e alle funzioni tutorie e di garanzia demandate a tali organi. In questo senso, si è quindi consolidato l’orientamento[10] che, al di là del nomen iuris utilizzato, vieta di deliberare una revoca del mandato del presidente dell’organo consiliare nei casi in cui sia venuto meno il rapporto di fiduciarietà politica.

4. La motivazione della revoca

Non a caso, quindi, il legislatore regionale prescrive che la mozione di revoca sia motivata. La motivazione risponde a due esigenze, una formale e l’altra sostanziale. Quella formale è riconducibile al principio generale previsto dall’art. 3 della l. n. 241/90, attesa l’inequivocabile natura provvedimentale della delibera con la quale l’organo consiliare dispone l’approvazione della mozione di revoca del presidente del consiglio. Quella sostanziale è invece sottesa alla funzione istituzionale che l’ordinamento riserva al presidente dell’assemblea elettiva e ricavabile dalla vasta giurisprudenza in materia. L’operato del presidente del consiglio va infatti sindacato dall’organo consiliare solo sulla base di atti e comportamenti strettamente connessi all’esercizio della funzione istituzionale. Da qui la conclusione secondo la quale “E’ legittima la delibera di revoca della carica di Presidente del Consiglio comunale, motivata con riferimento ad una serie di condotte realizzate all’interno del Consiglio comunale ed in altre sedi che dimostrano un atteggiamento poco compatibile con il ruolo istituzionale super partes che gli compete…”[11]. Ancora, “I gravi e comprovati motivi che giustificano la revoca del presidente e del vice presidente del consiglio comunale si riferiscono alle violazioni commesse nell’esercizio delle funzioni inerenti la carica, quali delineate dall’art. 31, comma 3 bis, della legge 8 giugno 1990, n. 142, che, nel prevedere l’istituzione di tale carica nei comuni con più di quindicimila abitanti, conferisce ad essa i poteri di convocazione e direzione dei lavori e delle attività del consiglio comunale; violazioni qualificabili come gravi possono essere solo le azioni o le omissioni che violino tale dovere di garanzia ovvero compromettono in modo grave l’attività istituzionale del consiglio, in quanto concretizzano disfunzioni sul piano organizzativo”[12].

5. La copertura statutaria

Una altro dei principi che il legislatore regionale ha inteso positivizzare è quello di dare copertura statutaria all’istituto della revoca del presidente dell’organo consiliare. Il citato comma 2° dell’art. 11 bis dispone infatti che gli enti locali adeguino i rispettivi statuti alle disposizioni di cui trattasi. Tale esigenza nasce dall’evoluzione del quadro normativo in materia di enti locali, puntualmente individuata dalla giurisprudenza, secondo cui “nel quadro istituzionale derivante dall’introduzione del nuovo Titolo V, anche alla luce della legge n. 131 del 2003, il T. U. degli enti locali n. 267 del 2000 ha perso l’originaria connotazione di legge organica di sistema, una volta venuta meno la norma costituzionale di riferimento costituita dall’art. 128 Cost. (che affidava a leggi generali dello Stato l’enunciazione dei principi nell’ambito dei quali l’autonomia degli enti locali poteva esplicarsi). Inoltre la previsione del potere normativo locale tra le prerogative contemplate direttamente dalla Costituzione ha ulteriormente rafforzato il valore degli statuti locali nella gerarchia delle fonti: adesso esso si configura come atto formalmente amministrativo, ma sostanzialmente come atto normativo atipico, posto in posizione di primazia rispetto alle fonti secondarie dei regolamenti e al di sotto delle leggi di principio, in quanto diretto a fissare le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente ed a porre i criteri generali per il suo funzionamento, da svilupparsi in sede regolamentare”[13].

Il principio, già esistente nel diritto vivente, prevede infatti che “L’istituto della revoca del Presidente del Consiglio comunale può essere legittimamente disciplinato solo dallo Statuto dell’Ente locale e, in tale ambito, eventuali norme regolamentari possono determinare esclusivamente le procedure relative all’applicazione dell’istituto; è pertanto illegittima, in assenza di una specifica fonte normativa statutaria, una norma regolamentare approvata con deliberazione di Consiglio comunale, secondo cui il Presidente del Consiglio comunale può essere revocato con il voto favorevole del 65% dei consiglieri assegnati per ripetute violazioni di legge, dello Statuto e dei regolamenti e per duplice mancata convocazione del Consiglio nei termini”[14]. Non mancano, tuttavia, orientamenti diversi che, viceversa, hanno ritenuto legittima la revoca del presidente del consiglio “…pur mancando nello Statuto comunale ogni previsione sul punto, allorchè venga meno la neutralità e la correttezza della funzione, si formi una maggioranza di consiglieri comunali ch s’esprima in senso favorevole alla revoca e vi sia una funzione di garanzia super partes, estranei alle competenze proprie del ruolo istituzionale del Presidente medesimo”[15].

6. La natura obbligatoria dell’adeguamento statutario

L’elemento di novità rispetto al passato, in cui la revoca del presidente del consiglio in assenza di adeguata copertura statutaria poteva anche trovare spazi nelle pieghe della giurisprudenza, è che l’adeguamento dello Statuto alle previsioni dell’art. 11 bis diventa conditio sine qua non perché l’organo consiliare possa revocare il mandato al proprio presidente. L’adeguamento in questione, anche se il termine dei 90 giorni previsto dal 2° comma del citato art. 11 bis è da considerarsi ordinatorio, è un adempimento tutt’altro che facoltativo. Al contrario, l’adeguamento dello Statuto, attraverso l’introduzione dell’istituto della revoca della figura apicale dell’organo consiliare, ha natura vincolata e di conseguenza non è ipotizzabile pensare ad alcun margine di discrezionalità riservato al potere normativo dell’Ente locale, trattandosi di materia sottratta alla potestà regolamentare e statutaria degli Enti locali, se non nel contesto della disciplina di dettaglio. La natura vincolata e obbligatoria di tale adempimento ha, di conseguenza, delle implicazioni sull’esercizio del controllo sostitutivo regionale. Deve, infatti, rilevarsi che l’esercizio del controllo sostitutivo regionale sugli enti locali ex art. 24 l.r. n. 44/91 sorge a causa dell’omissione o del ritardo nel compimento di “atti obbligatori per legge”, degli atti, cioè, la cui emanazione trova la sua fonte esclusiva in una disposizione normativa. Pertanto, nel caso che ci occupa, qualora l’organo consiliare non deliberasse il citato adeguamento statutario, tale adempimento potrà essere adottato, in via sostitutiva, dalla Regione attraverso l’invio di un Commissario ad acta.

Rimane privo di disciplina legislativa (e di conseguenza lasciato alla fisiologia del sistema giurisprudenziale, che com’è noto si basa sul limite soggettivo del giudicato per le sole parti del procedimento) l’istituto della revoca del vice-presidente dell’organo consiliare, la cui sorte, per inspiegate motivazioni, non è stata accomunata dal legislatore regionale a quella del presidente, pur avendone le medesime caratteristiche istituzionali.



[1] Tar Puglia-Bari, Sez. I°, sent. 04/11/2002 n. 4719.

[2] Si veda Tessaro e Randelli, Organi e sistema elettorale, Maggioli Rimini 2001.

[3] Paola Minetti, “La revoca del Presidente del Consiglio comunale: atto sempre in bilico tra la funzione politica e funzione amministrativa”, in LexItalia n. 11/2004.

[4] Corte Cost. sent. 15/10/1990 n. 453.

[5] Tar Catania, sent. 09/03/2006 n. 1181.

[6] Cons. Stato, Sez. V°, sent. 25/11/1999 n. 1983.

[7] Tar Veneto, Sez. I°, sent. 21/12/2005 n. 4359.

[8] Tar Lazio, Roma, Sez. II°, sent. 13/10/2008 n. 8881.

[9] Tar Palermo, Sez. I°, sent. n. 3025/2006 relativa alla legittimità di una norma statutaria che prevede tale facoltà; Tar Palermo, Sez. I°, sent. 2019/2007.

[10] Tar Campania-Napoli, Sez. I°, sent. 17/12/2004 n. 19384; Tar Abruzzo-L’Aquila, sent. 02/07/2008 n. 865.

[11] Tra Abruzzo-L’Aquila, Sez. I°, sent. 02/07/2008 n. 865.

[12] Cons. Stato, Sez. V°, sent. 20/10/2004 n. 6838.

[13] Cass. SS.UU. 16.06.2005, nr.12868.

[14] C.G.A. sez. giurisd. Sent. 31/12/2007 n. 1175.

[15] Tar Lazio-Roma, Sez. II°, sent. 13/10/2008 n. 8881.