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Il “nuovo” part-time dopo la riforma del Welfare

La legge 24 dicembre 2007, n. 47, recante “Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività” (di seguito anche “Pacchetto Welfare”) modifica nuovamente il decreto 25 febbraio 2000, n. 61, recante norme sul lavoro a tempo parziale.

Il “Pacchetto Welfare” interviene sulla regolamentazione delle clausole elastiche e flessibili, sulla regolamentazione della trasformazione del rapporto di lavoro e, infine, introduce una nuova tipologia di diritto di precedenza.


Premessa storica

Se facessimo un breve excursus storico sulla legislazione italiana che ha regolato il contratto di lavoro a tempo parziale, ci accorgeremmo che tale istituto contrattuale è stato più volte modificato ed integrato da una serie di norme nel corso del tempo. In particolare, il decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003 (c.d “riforma Biagi”) con l’articolo 46 ha apportato rilevanti modifiche alla disciplina del rapporto di lavoro a tempo parziale. Disciplina contenuta, come noto, nel decreto legislativo n. 61 del 2000 così come già modificato dal decreto legislativo n. 100 del 2001.

Le modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003 come precisato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con circolare del 18 marzo 2004, n. 9 “sono volte a favorire il ricorso a questa tipologia contrattuale, che in tutti i Paesi europei ha dimostrato di fornire occasione di lavoro di qualità rispetto a prestazioni flessibile o atipiche prive di tutele adeguate per i lavoratori, soprattutto per le fasce deboli altrimenti escluse dal mercato del lavoro (donne, giovani in cerca di prima occupazione e anziani). Tali modifiche sono attuate principalmente mediante una nuova regolamentazione degli strumenti di flessibilità del rapporto a tempo parziale, attraverso la valorizzazione del ruolo della autonomia collettiva e, in mancanza di questa, della autonomia individuale, fermo restando il rispetto di standard minimi di tutela del lavoratore secondo quanto previsto dalla direttiva 97/81/CE”.

Le clausole di flessibilità

In particolare il decreto legislativo 276 del 2003 aveva modificato la disciplina contenuta nell’articolo 3 del decreto legislativo n. 61 del 2000 conferendo, secondo alcuni, un potere troppo ampio al datore di lavoro di modificare l’orario pattuito con il lavoratore, grazie e soprattutto ad una nuova regolamentazione delle clausole elastiche e flessibili.

Al riguardo, si ricorda che l’adozione di clausole flessibili e/o elastiche permette di superare la rigida collocazione e la rigida misura oraria della prestazione lavorativa indicata nel contratto individuale di lavoro (1).

Infatti, la stipulazione della clausola flessibile permette al datore di lavoro di variare la collocazione temporale dell’orario di lavoro rispetto a quella contrattualmente stabilita, mentre grazie alla clausola elastica la prestazione lavorativa può essere variata in aumento. Tale clausola si differenzia dalla clausola flessibile perché non concerne dunque, semplicemente, la collocazione del monte ore concordato ma attiene invece alla possibilità di ampliare il numero di ore concordato (2).

Inoltre, fino al 31 dicembre 2007 anche in assenza di contratti collettivi, datore di lavoro e prestatore di lavoro potevano concordare direttamente l’adozione di clausole elastiche o flessibili (3). In questa ipotesi, come specificato dal Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali con del 18 marzo 2004, n. 9, le parti dovevano regolamentarne condizioni e modalità, stabilire le forme e la misura delle compensazioni economiche, nonché individuare i limiti entro cui fosse legittimo il ricorso al lavoro elastico.

Nel caso in cui il datore di lavoro applicasse un contratto che non regolamentasse il lavoro flessibile e/o elastico, lo stesso poteva mutuare la regolamentazione contenuta in un contratto diverso da quello applicato, indicando espressamente quale fosse il contratto collettivo cui intendeva far riferimento.

Il “Pacchetto Welfare”, novellando l’articolo 3 del decreto legislativo n. 61 del 2000, subordina la possibilità di adozione di tali clausole alla “volontà collettiva”. Infatti, affinché le parti del contratto di lavoro possano stipulare clausole elastiche e/o flessibili, è necessario che siano espressamente previste dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.Pertanto, il datore di lavoro e il lavoratore non potranno più concordare autonomamente le predette clausole in assenza di regolamentazione da parte della contrattazione collettiva.

Inoltre, ora esclusivamente agli stessi contratti collettivi è affidato il compito di stabilire:

- condizioni e modalità in relazione alle quali il datore di lavoro può modificare la collocazione temporale della prestazione lavorativa;

- condizioni e modalità in relazioni alle quali il datore di lavoro può variare in aumento la durata della prestazione lavorativa;

- i limiti massimi di variabilità in aumento della durata della prestazione lavorativa.

E’ opportuno rilevare che il precedente riferimento ai contratti collettivi stipulati dai soggetti indicati nell’articolo 1, comma 3 del medesimo decreto (nazionali, territoriali e aziendali) non è più presente nella nuova formulazione del comma 7 dell’articolo 3 .A parere di chi scrive, ancora senza chiarimenti ministeriali, in assenza di espressa regolamentazione da parte dei contratti collettivi nazionali, i contratti collettivi di secondo livello non potranno prevedere autonomamente dette clausole.

Tuttavia, i contratti collettivi indicati al comma 3 dell’articolo 1 (nazionali, territoriali e aziendali) potranno continuare a stabilire la misura e le forme delle compensazioni dovute al prestatore a seguito dell’esercizio, da parte del datore di lavoro, delle clausole elastiche e flessibili.

Infine, il preavviso, nel rispetto del quale il datore di lavoro può esercitare le clausole, passa, fatte salve le intese tra le parti, da due a cinque giorni (4).

Per ciò che concerne le clausole stipulate ante 1 gennaio 2008, anche in assenza di regolamentazione collettiva, esse sono valide ed efficaci e resteranno tali sino a quando non interverrà una causa di estinzione del rapporto (5).

Trasformazione del rapporto di lavoro (6)

E’ riconosciuto il diritto alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale ai lavoratori del settore pubblico e del settore privato affetti da patologie oncologiche, per i quali residui una ridotta capacità lavorativa, anche a causa degli effetti invalidanti di terapie salvavita, accertata da una commissione medica istituita presso l’azienda unità sanitaria locale territorialmente competente. Il rapporto di lavoro a tempo parziale deve essere trasformato nuovamente in rapporto di lavoro a tempo pieno a richiesta del lavoratore. Restano in ogni caso salve disposizioni più favorevoli per il prestatore di lavoro

Invece, è riconosciuta la priorità della trasformazione del contratto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale :

- ai lavoratori che assistono quotidianamente un familiare o un convivente affetti da patologie oncologiche alla quale è stata riconosciuta una percentuale di invalidità pari al 100 per cento, con necessità di assistenza continua in quanto non in grado di compiere gli atti quotidiani della vita;

- su richiesta del lavoratore o della lavoratrice con figlio convivente di età non superiore agli anni tredici;

- su richiesta del lavoratore o della lavoratrice con figlio convivente portatore di handicap, ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104.

Par di capire, dallo stretto tenore letterale, che a tali soggetti è riconosciuta una priorità nella trasformazione del rapporto che li pone, nell’ambito della eventuale percentuale prevista dalla contrattazione collettiva, in posizione di preminenza.

Diritto di precedenza

A favore del lavoratore che abbia trasformato il rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale, viene introdotto il diritto di precedenza nelle assunzioni con contratto a tempo pieno per l’espletamento delle stesse mansioni o di quelle equivalenti a quelle oggetto del rapporto di lavoro a tempo parziale (7). Per ciò che concerne i criteri con i quali individuare le mansioni equivalenti non ci si può che riferire alla giurisprudenza di legittimità.

Al riguardo, in base al consolidato indirizzo della giurisprudenza si può affermare che “l’equivalenza delle mansioni che condiziona la legittimità dell’esercizio dello jus variandi ai sensi dell’art. 2103, c. 1, c. c., debba essere accertata sia sotto il profilo oggettivo, vale a dire sul piano dell’inclusione nella stessa area professionale e retributiva delle mansioni di provenienza e di quelle successivamente attribuite, sia sotto il profilo soggettivo in ordine al quale è necessario che entrambe siano professionalmente affini nel senso che le nuove mansioni appaiano congeniali e si armonizzino con la professionalità acquisita dal dipendente durante il precedente periodo di lavoro presso l’azienda, consentendo, altresì, ulteriori affinamenti professionali finalizzati a successivi sviluppi positivi nella vita di lavoro del prestatore. Nel rispetto di siffatte condizioni non si inserisce, viceversa, l’esigenza dell’identità delle mansioni precedenti e successive (ma solamente l’equivalenza secondo i criteri sopra esplicitati), né costituisce elemento necessario l’aggiornamento professionale in relazione ad innovazioni tecnologiche, esigenza che, conviene precisarlo, può essere soddisfatta in altro contesto, anche secondo la strumentazione prevista dalla contrattazione collettiva (cfr., tra le numerose decisioni, Cass. 15 febbraio 2003, n. 2328, in "Not. giurisp. lav." 2003, 438; Cass. 2 ottobre 2002, n. 14150, in "Rep. giurisp. lav. - Mass. giur. lav. - Guida al lav. 1991-2002", 127, n. 57; Cass. 1° settembre 2000, n. 11457, in "Not. giurisp. lav." 2001, 38; Cass. 3 novembre 1997, n. 10075, in questa rivista 1998, 6, n. 18; per la giurisprudenza di merito, v., in senso contrario al principio enunciato dalla sentenza in esame, App. L’Aquila, 26 marzo 2003, in "Not. giurisp. lav." 2003, 568)” (8).



(1) l’articolo 2 comma 2 del decreto legislativo n. 61/2000 stabilisce che nel contratto di lavoro a tempo parziale deve essere contenuta la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno;

(2) cfr. Circolare Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 18 marzo 2004, n. 9;

(3) comma 2-ter dell’articolo 8 decreto legislativo n. 61/2000 abrogato dalla legge 24 dicembre 2007, n. 47

(4) comma 8 articolo 3 del decreto legislativo n. 61/2000 così come modificato ed integrato dalla legge 24 dicembre 2007, n. 47

(5)si veda circolare Fondazione Studi Consulenti del Lavoro n. 1/2008

(6) nuovo articolo 12-bis decreto legislativo n. 61/2000 così come modificato ed integrato dalla legge 24 dicembre 2007, n. 47

(7) nuovo articolo 12-ter decreto legislativo n. 61/2000  introdotto dalle legge 24 dicembre 2007, n. 47

(8) cfr. Gramiccia Giorgio - Massimario di Giurisprudenza del Lavoro n. 4 del 1 aprile 2004 Edizione Sole 24 ore.

La legge 24 dicembre 2007, n. 47, recante “Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività” (di seguito anche “Pacchetto Welfare”) modifica nuovamente il decreto 25 febbraio 2000, n. 61, recante norme sul lavoro a tempo parziale.

Il “Pacchetto Welfare” interviene sulla regolamentazione delle clausole elastiche e flessibili, sulla regolamentazione della trasformazione del rapporto di lavoro e, infine, introduce una nuova tipologia di diritto di precedenza.


Premessa storica

Se facessimo un breve excursus storico sulla legislazione italiana che ha regolato il contratto di lavoro a tempo parziale, ci accorgeremmo che tale istituto contrattuale è stato più volte modificato ed integrato da una serie di norme nel corso del tempo. In particolare, il decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003 (c.d “riforma Biagi”) con l’articolo 46 ha apportato rilevanti modifiche alla disciplina del rapporto di lavoro a tempo parziale. Disciplina contenuta, come noto, nel decreto legislativo n. 61 del 2000 così come già modificato dal decreto legislativo n. 100 del 2001.

Le modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003 come precisato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con circolare del 18 marzo 2004, n. 9 “sono volte a favorire il ricorso a questa tipologia contrattuale, che in tutti i Paesi europei ha dimostrato di fornire occasione di lavoro di qualità rispetto a prestazioni flessibile o atipiche prive di tutele adeguate per i lavoratori, soprattutto per le fasce deboli altrimenti escluse dal mercato del lavoro (donne, giovani in cerca di prima occupazione e anziani). Tali modifiche sono attuate principalmente mediante una nuova regolamentazione degli strumenti di flessibilità del rapporto a tempo parziale, attraverso la valorizzazione del ruolo della autonomia collettiva e, in mancanza di questa, della autonomia individuale, fermo restando il rispetto di standard minimi di tutela del lavoratore secondo quanto previsto dalla direttiva 97/81/CE”.

Le clausole di flessibilità

In particolare il decreto legislativo 276 del 2003 aveva modificato la disciplina contenuta nell’articolo 3 del decreto legislativo n. 61 del 2000 conferendo, secondo alcuni, un potere troppo ampio al datore di lavoro di modificare l’orario pattuito con il lavoratore, grazie e soprattutto ad una nuova regolamentazione delle clausole elastiche e flessibili.

Al riguardo, si ricorda che l’adozione di clausole flessibili e/o elastiche permette di superare la rigida collocazione e la rigida misura oraria della prestazione lavorativa indicata nel contratto individuale di lavoro (1).

Infatti, la stipulazione della clausola flessibile permette al datore di lavoro di variare la collocazione temporale dell’orario di lavoro rispetto a quella contrattualmente stabilita, mentre grazie alla clausola elastica la prestazione lavorativa può essere variata in aumento. Tale clausola si differenzia dalla clausola flessibile perché non concerne dunque, semplicemente, la collocazione del monte ore concordato ma attiene invece alla possibilità di ampliare il numero di ore concordato (2).

Inoltre, fino al 31 dicembre 2007 anche in assenza di contratti collettivi, datore di lavoro e prestatore di lavoro potevano concordare direttamente l’adozione di clausole elastiche o flessibili (3). In questa ipotesi, come specificato dal Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali con del 18 marzo 2004, n. 9, le parti dovevano regolamentarne condizioni e modalità, stabilire le forme e la misura delle compensazioni economiche, nonché individuare i limiti entro cui fosse legittimo il ricorso al lavoro elastico.

Nel caso in cui il datore di lavoro applicasse un contratto che non regolamentasse il lavoro flessibile e/o elastico, lo stesso poteva mutuare la regolamentazione contenuta in un contratto diverso da quello applicato, indicando espressamente quale fosse il contratto collettivo cui intendeva far riferimento.

Il “Pacchetto Welfare”, novellando l’articolo 3 del decreto legislativo n. 61 del 2000, subordina la possibilità di adozione di tali clausole alla “volontà collettiva”. Infatti, affinché le parti del contratto di lavoro possano stipulare clausole elastiche e/o flessibili, è necessario che siano espressamente previste dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.Pertanto, il datore di lavoro e il lavoratore non potranno più concordare autonomamente le predette clausole in assenza di regolamentazione da parte della contrattazione collettiva.

Inoltre, ora esclusivamente agli stessi contratti collettivi è affidato il compito di stabilire:

- condizioni e modalità in relazione alle quali il datore di lavoro può modificare la collocazione temporale della prestazione lavorativa;

- condizioni e modalità in relazioni alle quali il datore di lavoro può variare in aumento la durata della prestazione lavorativa;

- i limiti massimi di variabilità in aumento della durata della prestazione lavorativa.

E’ opportuno rilevare che il precedente riferimento ai contratti collettivi stipulati dai soggetti indicati nell’articolo 1, comma 3 del medesimo decreto (nazionali, territoriali e aziendali) non è più presente nella nuova formulazione del comma 7 dell’articolo 3 .A parere di chi scrive, ancora senza chiarimenti ministeriali, in assenza di espressa regolamentazione da parte dei contratti collettivi nazionali, i contratti collettivi di secondo livello non potranno prevedere autonomamente dette clausole.

Tuttavia, i contratti collettivi indicati al comma 3 dell’articolo 1 (nazionali, territoriali e aziendali) potranno continuare a stabilire la misura e le forme delle compensazioni dovute al prestatore a seguito dell’esercizio, da parte del datore di lavoro, delle clausole elastiche e flessibili.

Infine, il preavviso, nel rispetto del quale il datore di lavoro può esercitare le clausole, passa, fatte salve le intese tra le parti, da due a cinque giorni (4).

Per ciò che concerne le clausole stipulate ante 1 gennaio 2008, anche in assenza di regolamentazione collettiva, esse sono valide ed efficaci e resteranno tali sino a quando non interverrà una causa di estinzione del rapporto (5).

Trasformazione del rapporto di lavoro (6)

E’ riconosciuto il diritto alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale ai lavoratori del settore pubblico e del settore privato affetti da patologie oncologiche, per i quali residui una ridotta capacità lavorativa, anche a causa degli effetti invalidanti di terapie salvavita, accertata da una commissione medica istituita presso l’azienda unità sanitaria locale territorialmente competente. Il rapporto di lavoro a tempo parziale deve essere trasformato nuovamente in rapporto di lavoro a tempo pieno a richiesta del lavoratore. Restano in ogni caso salve disposizioni più favorevoli per il prestatore di lavoro

Invece, è riconosciuta la priorità della trasformazione del contratto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale :

- ai lavoratori che assistono quotidianamente un familiare o un convivente affetti da patologie oncologiche alla quale è stata riconosciuta una percentuale di invalidità pari al 100 per cento, con necessità di assistenza continua in quanto non in grado di compiere gli atti quotidiani della vita;

- su richiesta del lavoratore o della lavoratrice con figlio convivente di età non superiore agli anni tredici;

- su richiesta del lavoratore o della lavoratrice con figlio convivente portatore di handicap, ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104.

Par di capire, dallo stretto tenore letterale, che a tali soggetti è riconosciuta una priorità nella trasformazione del rapporto che li pone, nell’ambito della eventuale percentuale prevista dalla contrattazione collettiva, in posizione di preminenza.

Diritto di precedenza

A favore del lavoratore che abbia trasformato il rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale, viene introdotto il diritto di precedenza nelle assunzioni con contratto a tempo pieno per l’espletamento delle stesse mansioni o di quelle equivalenti a quelle oggetto del rapporto di lavoro a tempo parziale (7). Per ciò che concerne i criteri con i quali individuare le mansioni equivalenti non ci si può che riferire alla giurisprudenza di legittimità.

Al riguardo, in base al consolidato indirizzo della giurisprudenza si può affermare che “l’equivalenza delle mansioni che condiziona la legittimità dell’esercizio dello jus variandi ai sensi dell’art. 2103, c. 1, c. c., debba essere accertata sia sotto il profilo oggettivo, vale a dire sul piano dell’inclusione nella stessa area professionale e retributiva delle mansioni di provenienza e di quelle successivamente attribuite, sia sotto il profilo soggettivo in ordine al quale è necessario che entrambe siano professionalmente affini nel senso che le nuove mansioni appaiano congeniali e si armonizzino con la professionalità acquisita dal dipendente durante il precedente periodo di lavoro presso l’azienda, consentendo, altresì, ulteriori affinamenti professionali finalizzati a successivi sviluppi positivi nella vita di lavoro del prestatore. Nel rispetto di siffatte condizioni non si inserisce, viceversa, l’esigenza dell’identità delle mansioni precedenti e successive (ma solamente l’equivalenza secondo i criteri sopra esplicitati), né costituisce elemento necessario l’aggiornamento professionale in relazione ad innovazioni tecnologiche, esigenza che, conviene precisarlo, può essere soddisfatta in altro contesto, anche secondo la strumentazione prevista dalla contrattazione collettiva (cfr., tra le numerose decisioni, Cass. 15 febbraio 2003, n. 2328, in "Not. giurisp. lav." 2003, 438; Cass. 2 ottobre 2002, n. 14150, in "Rep. giurisp. lav. - Mass. giur. lav. - Guida al lav. 1991-2002", 127, n. 57; Cass. 1° settembre 2000, n. 11457, in "Not. giurisp. lav." 2001, 38; Cass. 3 novembre 1997, n. 10075, in questa rivista 1998, 6, n. 18; per la giurisprudenza di merito, v., in senso contrario al principio enunciato dalla sentenza in esame, App. L’Aquila, 26 marzo 2003, in "Not. giurisp. lav." 2003, 568)” (8).



(1) l’articolo 2 comma 2 del decreto legislativo n. 61/2000 stabilisce che nel contratto di lavoro a tempo parziale deve essere contenuta la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno;

(2) cfr. Circolare Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 18 marzo 2004, n. 9;

(3) comma 2-ter dell’articolo 8 decreto legislativo n. 61/2000 abrogato dalla legge 24 dicembre 2007, n. 47

(4) comma 8 articolo 3 del decreto legislativo n. 61/2000 così come modificato ed integrato dalla legge 24 dicembre 2007, n. 47

(5)si veda circolare Fondazione Studi Consulenti del Lavoro n. 1/2008

(6) nuovo articolo 12-bis decreto legislativo n. 61/2000 così come modificato ed integrato dalla legge 24 dicembre 2007, n. 47

(7) nuovo articolo 12-ter decreto legislativo n. 61/2000  introdotto dalle legge 24 dicembre 2007, n. 47

(8) cfr. Gramiccia Giorgio - Massimario di Giurisprudenza del Lavoro n. 4 del 1 aprile 2004 Edizione Sole 24 ore.