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Il reato di associazione mafiosa come reato presupposto

Il reato di associazione mafiosa ex 416 bis

Il codice penale moderno (c.d. Codice Rocco) è stato più volte plasmato dal legislatore successivo, il quale ha cercato ripetutamente di tradurre delle diffuse esigenze di legalità in fattispecie penali tipiche.

L’intervento attuato in forza della Legge 13 Settembre 1982, n. 646[1] ha mirato ad irrigidire la tutela penale in tema di lotta alla criminalità organizzata.

In forza della sopra citata legge, ha trovato ingresso nel Codice Penale l’art. 416 bis, rubricato “Associazioni di tipo mafioso anche straniere”.

Occorre specificare che l’oggetto giuridico protetto dalla fattispecie penale, è stato considerato plurimo, nel senso del riconoscergli una chiara portata di tipo plurioffensivo; lesiva da un lato del c.d. Ordine Pubblico, e dall’altro dell’Ordine Economico (inteso come libertà di mercato e di iniziativa economica)[2].

Il reato di associazione di tipo mafioso, punisce chiunque (reato comune) partecipi ad una qualificata associazione; qualifica tanto quantitativa (tre o più persone), quanto qualitativa (mafiosa), con la reclusione che oscilla tra i limiti edittali di 7 e 12 anni[3].

Ovviamente, a scanso di equivoci occorre sottolineare la concreta ratio legis perseguita: condannare i soggetti “affiliati” alla Camorra, alla Mafia, alla Sacra Corona Unita e alla ‘Ndrangheta[4].

Tornando alla qualifica qualitativa, bisogna stabilire le condizioni (rectius presupposti) affinchè l’associazione si possa definire mafiosa.

Soccorre nuovamente l’articolo 416 bis il quale pone l’accento su due metodi tipici:

- la forza di intimidazione mutuata dal vincolo associativo;

- la condizione di assoggettamento ed omertà.

La forza intimidatrice deve derivare dalla stessa « fama criminale » che l’associazione si è conquistata con precedenti atti di violenza e sopraffazione e dalla conseguente possibilità che gli associati continuino in futuro a ricorrere alla violenza al fine di conseguire i loro obiettivi[5].

La seconda condizione è intimamente connessa alla prima, nel senso che si atteggia come la necessaria conseguenza[6].

Occorre, in ultimo ricordare che con la Legge n. 125 del 2008 (c.d. Pacchetto sicurezza), la quale ha modificato il D.P.R. 115 del 2002, è stata esclusa in nuce la possibilità di avvalersi del gratuito patrocinio per gli appartenenti alle associazioni mafiose, in base alla considerazione che la semplice partecipazione alla consorteria criminale è idonea a consentire all’associato, lucrose entrate patrimoniali.

Il reato Presupposto

La definizione del c.d. Reato presupposto non essendo contenuta in nessun dettato normativo, va necessariamente ricostruita in via interpretativa.

Va premesso che nel codice penale sono contenuti numerosi reati che richiamano in via diretta e no altri reati, si pensi:

- all’art. 648 bis nella parte in cui richiama un “delitto non colposo”, dal quale provengano beni, denaro o altre utilità;

- all’art. 648 nella parte in cui richiama un “qualsiasi delitto”, dal quale provengano denaro o cose;

- all’art. 648 ter nella parte in cui richiama un “delitto”, dal quale provengano denaro, beni o altre utilità.

Questi generici richiami alle locuzioni “delitto”, “qualsiasi delitto”, “delitto non colposo” , rappresentano il punto di partenza dogmatico ai fini della individuazione concettuale del c.d. Reato Presupposto.

Quest’ultimo altro non è che un reato come tutti gli altri, e al tempo stesso costituisce elemento costitutivo di altra fattispecie penale.

Ad esempio, l’art. 648[7] richiedendo, ai fini della sua configurabilità, la commissione di un “qualsiasi delitto” (si pensi al reato di furto) dal quale provengano denaro o cose, presuppone la consumazione di un altro reato (c.d. presupposto).

Il reato che presuppone ai fini della sua configurabilità la commissione di un altro reato, può in questo senso chiamarsi reato presupponente.

Confronto tra reato di associazione mafiosa e associazione a delinquere

L’art. 416 c.p. disciplina la fattispecie dell’associazione a delinquere tout court che ha per oggetto la condotta dell’associarsi (3 o più persone) allo scopo di commettere più delitti.

La prima differenza da evidenziare risiede nella diversità di scopo delle associazioni previste all’art. 416 ed all’art. 416 bis, diversità, in verità, più apparente che reale.

Infatti, l’associazione per delinquere ex art. 416 c.p. agevolerebbe la commissione dei c.d. reati – fine, essi solo fonte dei possibili redditi o proventi illeciti, per la cui produzione è allora indispensabile la consumazione di un autonomo e diverso reato; invece, l’associazione di tipo mafioso si qualifica per la possibilità di produrre per sé reddito o proventi illeciti, come se fosse caratterizzata da una presunzione assoluta di produzione illecita[8], è quindi l’associazione in sé a rendere le attività (acquisite o gestite) illegali, perché perseguite e realizzate con gli strumenti dell’omertà, dell’intimidazione e della violenza[9].

Ancora, se l’associazione a delinquere “semplice” postula necessariamente la commissione di un certo reato fine (nel senso che verrà costituita in funzione della sua commissione e realizzazione[10]), l’associazione di tipo mafioso può anche, in ipotesi, non essere finalizzata alla commissione di delitti, ben potendo avere come scopo il compimento di attività lecite, le quali, però, degraderebbero ad illecite per il solo fatto di esser state compiute dall’associazione medesima.

Il reato di associazione mafiosa come Reato Presupposto

Analizzate ed acquisite in via preliminare le nozioni di Reato Presupposto e di Reato di Associazione di tipo Mafiosa, occorre analizzare il legame che intercorre tra le due nozioni giuridiche.

Il quesito trae spunto da una recente decisione della Cassazione[11], la quale cassa con rinvio al Tribunale di Napoli e risponde in maniera apodittica ad un espresso motivo di ricorso, sollevato dal difensore della parte accusata[12].

Nel caso esaminato, la Corte si interroga sul dubbio sollevato da una delle parti, che inerisce la possibilità o meno per il reato di associazione di tipo mafiosa da fungere come reato presupposto dei reati di riciclaggio e di illecito reimpiego.

Il punto di partenza è costituito dalla distinzione tra associazione di tipo mafioso ed associazione per delinquere, infatti: “Una volta che il delitto associativo di tipo mafioso è da considerare per sé potenzialmente idoneo a costituire il reato presupposto dei delitti di riciclaggio e di illecito reimpieg…(omissis)….non sono ravvisabili ragioni ermeneutiche che consentano, già in linea di principio, di escludere l’operatività della c.d clausola di riserva – fuori dei casi di concorso nel reato - anche per esso”.

Il quesito che si vuole affrontare è in realtà il seguente:

- È possibile che il reato presupposto del reato presupponente (riciclaggio o altri), sia non già un reato accertato in via definitiva, ma solo un capo di accusa pendente?

Secondo la decisione della Suprema Corte sarebbe inequivocabilmente possibile[13]: l’assunto è problematico e non condivisibile.

La avversione nei confronti della decisione poggia su varie basi, ovvero:

- verrebbe violato l’art. 27 della Costituzione, nella parte in cui afferma “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”[14];

- verrebbe violato il principio di certezza del diritto;

- verrebbero violati i singoli reati presupponenti, e quindi lo stesso spirito del legislatore[15].

Ciò detto, la soluzione più ragionevole sarebbe quella della sospensione del processo relativo al reato presupponente, in attesa del definitivo accertamento del reato presupposto, usando la tecnica della Pregiudiziale.

Nella scelta tra i principi fondanti dell’ordinamento non si può preferire la ragionevole durata del processo[16] a discapito della certezza del diritto.

[1] La rubrica è stata poi modificata dall’art. 1, comma 1, lett. B-bis) del D.L. 23-05-2008, n. 92, convertito in L. 24-07-2008, n. 125; inoltre sono da ricordare gli interventi ad opera della L. n. 251 del 2005 (la ex Cirielli) e dal D.L. n. 4 del 2010.

[2] Codice Penale, Simone, III Ed., 2010, p. 340.

[3] Sono poi previsti degli specifici aggravamenti di pena: per chi promuove, dirige o organizza (reclusione da 9 a 14 anni); qualora l’associazione sia da considerarsi armata, ed infine, nel caso di altri delitti dai quali sia scaturito un profitto reinvestito nell’attività criminale-mafiosa.

[4] La fattispecie penale non circoscrivendo i soggetti attivi del reato, è in grado di spiegare la propria efficacia preventiva anche nei confronti di associazioni mafiose di nuova costituzione (è il caso del clan dei Casamonica).

[5] Fiandaca - Musco, Parte Speciale, vol. I, IV Ed., p. 482.

[6] Ibidem, p. 482, laddove: “lo sfruttamento della forza intimidatrice deve provocare una condizione di assoggettamento ed omertà: a ben vedere, l’uno e l’altra rappresentano in un certo senso le due facce di una stessa medaglia, e si differenziano per il riferimento specifico dell’assoggettamento allo stato di sottomissione e succubanza psicologica che si manifesta nelle potenziali vittime dell’intimidazione; mentre l’omertà si esprime in forma di rifiuto generalizzato a collaborare con la giustizia manifestato di solito con favoreggiamenti, testimonianze false e reticenze, ecc.”.

[7] L’esempio è agevole anche con il reato di riciclaggio, infatti: “Considerata la formulazione della fattispecie del reato di riciclaggio, ai fini della configurabilità del reato stesso è ontologicamente necessario che sia in precedenza consumata altra fattispecie criminale. Più precisamente, affinchè vi sia un provento illecito da riciclare – sia esso denaro o altro bene o utilità – è imprescindibile il fatto che un reato, per l’appunto presupposto sia stato commesso. Il reato presupposto è quindi la fattispecie criminosa da cui originano i proventi illeciti che l’agente riciclatore, soggetto che non può coincidere con l’autore del reato presupposto, cerca successivamente di occultare, sostituire, o comunque nascondere” in Cocuzza, Autoriciclaggio e professione forense: i nuovi compiti e le responsabilità dell’avvocato, Ipsoa, 2006, p. 7.

[8] Cfr. Cass. Pen., sez. I, n. 1439/2009, ove: “A differenza della normale associazione a delinquere, quindi, l’associazione di tipo mafioso può essere autonomamente produttiva di proventi/redditi, la cui fonte è costituita dalle attività economico-imprenditoriali acquisite o gestite con tali forze e condizioni. Tali proventi/redditi, certamente illeciti in relazione al contesto di azione che li produce, sono del tutto differenti dai proventi/redditi che hanno per fonte il singolo reato-fine che in ipotesi venga consumato da chi è associato, perché provengono appunto dalla condotta costitutiva dell’associazione mafiosa”.

[9] Cass. Pen., sez. I, n. 2451/2009.

[10] Si noti Tribunale Penale Napoli, 24 Giugno 2010, il quale: “E’ configurabile la continuazione tra reato associativo e reati fine esclusivamente qualora questi ultimi siano stati programmati nelle loro linee essenziali sin dal momento della costituzione del sodalizio criminoso”.

[11] Si allude alla decisione della Cassazione Penale del 24 Maggio 2012, n. 14276.

[12] Il Motivo di ricorso è il seguente: - agli artt. 416 bis e 648 ter c.p., perché il ricorrente sarebbe allo stato imputato davanti al tribunale di S.Maria Capua Vetere per il delitto di cui all’art. 416 bis commesso negli stessi luoghi e periodi, e tale reato renderebbe non configurabile il reato ex art. 648 ter, di cui il reato associativo sarebbe il presupposto.

Si veda, inoltre Cass. Penale, sez. V, 7 maggio 2010, n. 17694, la quale afferma: “Tenuto conto della causa di esclusione (fuori dai casi di concorso nel reato), contenuta nell’art. 648 bis, il partecipe al delitto associativo, quando lo stesso costituisca il reato presupposto, non potrebbe esser considerato autore del riciclaggio”.

[13] Si veda anche Cass. Penale, sez. V, 7 Maggio 2010, n. 17694, ove: “E’ sufficiente perché possa ritenersi integrato il delitto ex 648 bis che risulti al giudice chiamato a conoscere di tale reato la esistenza del reato presupposto (nel caso di specie la violazione dell’art. 416 bis), ma non è affatto richiesto che la persona imputata del delitto di riciclaggio sia altresì condannata in via definitiva ex 416 bis”.

[14] Qualora si condannasse un imputato per un reato presupponente, sulla base della sola pendenza di un reato presupposto, si correrebbe il rischio di attribuire definitivamente una fattispecie penale non completa, essendo l’accertamento del reato presupposto solo eventuale e successivo.

[15] Secondo un criterio ermeneutico improntato alla logica ed alla ragionevolezza, l’interpretazione esatta delle singole fattispecie presuppone il definitivo accertamento del reato presupposto, non potendo esser quest’ultimo una variabile indefinita.

[16] Il principio della ragionevole durata viene richiamato a giustificazione della riduzione del fenomeno della pregiudizialità in Lozzi, Lezioni di Procedura Penale, Giappichelli, 2010, p. 143, ove: “Nella relazione al progetto preliminare viene giustificata la riduzione del fenomeno della pregiudizialità sulla base del rilievo che si sono volute attuare quelle direttive dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che impongono una durata del processo penale in termini ragionevoli e senza eccessivi ritardi, durata che viene dilatata ovviamente dall’attesa della irrevocabilità della sentenza civile che decide la questione pregiudiziale. Tale scelta normativa risulta ancora più apprezzabile oggi che la legge cost. n. 2 /1999 ha conferito dignità costituzionale al principio della durata ragionevole dei processi (art. 111, comma 2 Costituzione).”.

Il reato di associazione mafiosa ex 416 bis

Il codice penale moderno (c.d. Codice Rocco) è stato più volte plasmato dal legislatore successivo, il quale ha cercato ripetutamente di tradurre delle diffuse esigenze di legalità in fattispecie penali tipiche.

L’intervento attuato in forza della Legge 13 Settembre 1982, n. 646[1] ha mirato ad irrigidire la tutela penale in tema di lotta alla criminalità organizzata.

In forza della sopra citata legge, ha trovato ingresso nel Codice Penale l’art. 416 bis, rubricato “Associazioni di tipo mafioso anche straniere”.

Occorre specificare che l’oggetto giuridico protetto dalla fattispecie penale, è stato considerato plurimo, nel senso del riconoscergli una chiara portata di tipo plurioffensivo; lesiva da un lato del c.d. Ordine Pubblico, e dall’altro dell’Ordine Economico (inteso come libertà di mercato e di iniziativa economica)[2].

Il reato di associazione di tipo mafioso, punisce chiunque (reato comune) partecipi ad una qualificata associazione; qualifica tanto quantitativa (tre o più persone), quanto qualitativa (mafiosa), con la reclusione che oscilla tra i limiti edittali di 7 e 12 anni[3].

Ovviamente, a scanso di equivoci occorre sottolineare la concreta ratio legis perseguita: condannare i soggetti “affiliati” alla Camorra, alla Mafia, alla Sacra Corona Unita e alla ‘Ndrangheta[4].

Tornando alla qualifica qualitativa, bisogna stabilire le condizioni (rectius presupposti) affinchè l’associazione si possa definire mafiosa.

Soccorre nuovamente l’articolo 416 bis il quale pone l’accento su due metodi tipici:

- la forza di intimidazione mutuata dal vincolo associativo;

- la condizione di assoggettamento ed omertà.

La forza intimidatrice deve derivare dalla stessa « fama criminale » che l’associazione si è conquistata con precedenti atti di violenza e sopraffazione e dalla conseguente possibilità che gli associati continuino in futuro a ricorrere alla violenza al fine di conseguire i loro obiettivi[5].

La seconda condizione è intimamente connessa alla prima, nel senso che si atteggia come la necessaria conseguenza[6].

Occorre, in ultimo ricordare che con la Legge n. 125 del 2008 (c.d. Pacchetto sicurezza), la quale ha modificato il D.P.R. 115 del 2002, è stata esclusa in nuce la possibilità di avvalersi del gratuito patrocinio per gli appartenenti alle associazioni mafiose, in base alla considerazione che la semplice partecipazione alla consorteria criminale è idonea a consentire all’associato, lucrose entrate patrimoniali.

Il reato Presupposto

La definizione del c.d. Reato presupposto non essendo contenuta in nessun dettato normativo, va necessariamente ricostruita in via interpretativa.

Va premesso che nel codice penale sono contenuti numerosi reati che richiamano in via diretta e no altri reati, si pensi:

- all’art. 648 bis nella parte in cui richiama un “delitto non colposo”, dal quale provengano beni, denaro o altre utilità;

- all’art. 648 nella parte in cui richiama un “qualsiasi delitto”, dal quale provengano denaro o cose;

- all’art. 648 ter nella parte in cui richiama un “delitto”, dal quale provengano denaro, beni o altre utilità.

Questi generici richiami alle locuzioni “delitto”, “qualsiasi delitto”, “delitto non colposo” , rappresentano il punto di partenza dogmatico ai fini della individuazione concettuale del c.d. Reato Presupposto.

Quest’ultimo altro non è che un reato come tutti gli altri, e al tempo stesso costituisce elemento costitutivo di altra fattispecie penale.

Ad esempio, l’art. 648[7] richiedendo, ai fini della sua configurabilità, la commissione di un “qualsiasi delitto” (si pensi al reato di furto) dal quale provengano denaro o cose, presuppone la consumazione di un altro reato (c.d. presupposto).

Il reato che presuppone ai fini della sua configurabilità la commissione di un altro reato, può in questo senso chiamarsi reato presupponente.

Confronto tra reato di associazione mafiosa e associazione a delinquere

L’art. 416 c.p. disciplina la fattispecie dell’associazione a delinquere tout court che ha per oggetto la condotta dell’associarsi (3 o più persone) allo scopo di commettere più delitti.

La prima differenza da evidenziare risiede nella diversità di scopo delle associazioni previste all’art. 416 ed all’art. 416 bis, diversità, in verità, più apparente che reale.

Infatti, l’associazione per delinquere ex art. 416 c.p. agevolerebbe la commissione dei c.d. reati – fine, essi solo fonte dei possibili redditi o proventi illeciti, per la cui produzione è allora indispensabile la consumazione di un autonomo e diverso reato; invece, l’associazione di tipo mafioso si qualifica per la possibilità di produrre per sé reddito o proventi illeciti, come se fosse caratterizzata da una presunzione assoluta di produzione illecita[8], è quindi l’associazione in sé a rendere le attività (acquisite o gestite) illegali, perché perseguite e realizzate con gli strumenti dell’omertà, dell’intimidazione e della violenza[9].

Ancora, se l’associazione a delinquere “semplice” postula necessariamente la commissione di un certo reato fine (nel senso che verrà costituita in funzione della sua commissione e realizzazione[10]), l’associazione di tipo mafioso può anche, in ipotesi, non essere finalizzata alla commissione di delitti, ben potendo avere come scopo il compimento di attività lecite, le quali, però, degraderebbero ad illecite per il solo fatto di esser state compiute dall’associazione medesima.

Il reato di associazione mafiosa come Reato Presupposto

Analizzate ed acquisite in via preliminare le nozioni di Reato Presupposto e di Reato di Associazione di tipo Mafiosa, occorre analizzare il legame che intercorre tra le due nozioni giuridiche.

Il quesito trae spunto da una recente decisione della Cassazione[11], la quale cassa con rinvio al Tribunale di Napoli e risponde in maniera apodittica ad un espresso motivo di ricorso, sollevato dal difensore della parte accusata[12].

Nel caso esaminato, la Corte si interroga sul dubbio sollevato da una delle parti, che inerisce la possibilità o meno per il reato di associazione di tipo mafiosa da fungere come reato presupposto dei reati di riciclaggio e di illecito reimpiego.

Il punto di partenza è costituito dalla distinzione tra associazione di tipo mafioso ed associazione per delinquere, infatti: “Una volta che il delitto associativo di tipo mafioso è da considerare per sé potenzialmente idoneo a costituire il reato presupposto dei delitti di riciclaggio e di illecito reimpieg…(omissis)….non sono ravvisabili ragioni ermeneutiche che consentano, già in linea di principio, di escludere l’operatività della c.d clausola di riserva – fuori dei casi di concorso nel reato - anche per esso”.

Il quesito che si vuole affrontare è in realtà il seguente:

- È possibile che il reato presupposto del reato presupponente (riciclaggio o altri), sia non già un reato accertato in via definitiva, ma solo un capo di accusa pendente?

Secondo la decisione della Suprema Corte sarebbe inequivocabilmente possibile[13]: l’assunto è problematico e non condivisibile.

La avversione nei confronti della decisione poggia su varie basi, ovvero:

- verrebbe violato l’art. 27 della Costituzione, nella parte in cui afferma “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”[14];

- verrebbe violato il principio di certezza del diritto;

- verrebbero violati i singoli reati presupponenti, e quindi lo stesso spirito del legislatore[15].

Ciò detto, la soluzione più ragionevole sarebbe quella della sospensione del processo relativo al reato presupponente, in attesa del definitivo accertamento del reato presupposto, usando la tecnica della Pregiudiziale.

Nella scelta tra i principi fondanti dell’ordinamento non si può preferire la ragionevole durata del processo[16] a discapito della certezza del diritto.

[1] La rubrica è stata poi modificata dall’art. 1, comma 1, lett. B-bis) del D.L. 23-05-2008, n. 92, convertito in L. 24-07-2008, n. 125; inoltre sono da ricordare gli interventi ad opera della L. n. 251 del 2005 (la ex Cirielli) e dal D.L. n. 4 del 2010.

[2] Codice Penale, Simone, III Ed., 2010, p. 340.

[3] Sono poi previsti degli specifici aggravamenti di pena: per chi promuove, dirige o organizza (reclusione da 9 a 14 anni); qualora l’associazione sia da considerarsi armata, ed infine, nel caso di altri delitti dai quali sia scaturito un profitto reinvestito nell’attività criminale-mafiosa.

[4] La fattispecie penale non circoscrivendo i soggetti attivi del reato, è in grado di spiegare la propria efficacia preventiva anche nei confronti di associazioni mafiose di nuova costituzione (è il caso del clan dei Casamonica).

[5] Fiandaca - Musco, Parte Speciale, vol. I, IV Ed., p. 482.

[6] Ibidem, p. 482, laddove: “lo sfruttamento della forza intimidatrice deve provocare una condizione di assoggettamento ed omertà: a ben vedere, l’uno e l’altra rappresentano in un certo senso le due facce di una stessa medaglia, e si differenziano per il riferimento specifico dell’assoggettamento allo stato di sottomissione e succubanza psicologica che si manifesta nelle potenziali vittime dell’intimidazione; mentre l’omertà si esprime in forma di rifiuto generalizzato a collaborare con la giustizia manifestato di solito con favoreggiamenti, testimonianze false e reticenze, ecc.”.

[7] L’esempio è agevole anche con il reato di riciclaggio, infatti: “Considerata la formulazione della fattispecie del reato di riciclaggio, ai fini della configurabilità del reato stesso è ontologicamente necessario che sia in precedenza consumata altra fattispecie criminale. Più precisamente, affinchè vi sia un provento illecito da riciclare – sia esso denaro o altro bene o utilità – è imprescindibile il fatto che un reato, per l’appunto presupposto sia stato commesso. Il reato presupposto è quindi la fattispecie criminosa da cui originano i proventi illeciti che l’agente riciclatore, soggetto che non può coincidere con l’autore del reato presupposto, cerca successivamente di occultare, sostituire, o comunque nascondere” in Cocuzza, Autoriciclaggio e professione forense: i nuovi compiti e le responsabilità dell’avvocato, Ipsoa, 2006, p. 7.

[8] Cfr. Cass. Pen., sez. I, n. 1439/2009, ove: “A differenza della normale associazione a delinquere, quindi, l’associazione di tipo mafioso può essere autonomamente produttiva di proventi/redditi, la cui fonte è costituita dalle attività economico-imprenditoriali acquisite o gestite con tali forze e condizioni. Tali proventi/redditi, certamente illeciti in relazione al contesto di azione che li produce, sono del tutto differenti dai proventi/redditi che hanno per fonte il singolo reato-fine che in ipotesi venga consumato da chi è associato, perché provengono appunto dalla condotta costitutiva dell’associazione mafiosa”.

[9] Cass. Pen., sez. I, n. 2451/2009.

[10] Si noti Tribunale Penale Napoli, 24 Giugno 2010, il quale: “E’ configurabile la continuazione tra reato associativo e reati fine esclusivamente qualora questi ultimi siano stati programmati nelle loro linee essenziali sin dal momento della costituzione del sodalizio criminoso”.

[11] Si allude alla decisione della Cassazione Penale del 24 Maggio 2012, n. 14276.

[12] Il Motivo di ricorso è il seguente: - agli artt. 416 bis e 648 ter c.p., perché il ricorrente sarebbe allo stato imputato davanti al tribunale di S.Maria Capua Vetere per il delitto di cui all’art. 416 bis commesso negli stessi luoghi e periodi, e tale reato renderebbe non configurabile il reato ex art. 648 ter, di cui il reato associativo sarebbe il presupposto.

Si veda, inoltre Cass. Penale, sez. V, 7 maggio 2010, n. 17694, la quale afferma: “Tenuto conto della causa di esclusione (fuori dai casi di concorso nel reato), contenuta nell’art. 648 bis, il partecipe al delitto associativo, quando lo stesso costituisca il reato presupposto, non potrebbe esser considerato autore del riciclaggio”.

[13] Si veda anche Cass. Penale, sez. V, 7 Maggio 2010, n. 17694, ove: “E’ sufficiente perché possa ritenersi integrato il delitto ex 648 bis che risulti al giudice chiamato a conoscere di tale reato la esistenza del reato presupposto (nel caso di specie la violazione dell’art. 416 bis), ma non è affatto richiesto che la persona imputata del delitto di riciclaggio sia altresì condannata in via definitiva ex 416 bis”.

[14] Qualora si condannasse un imputato per un reato presupponente, sulla base della sola pendenza di un reato presupposto, si correrebbe il rischio di attribuire definitivamente una fattispecie penale non completa, essendo l’accertamento del reato presupposto solo eventuale e successivo.

[15] Secondo un criterio ermeneutico improntato alla logica ed alla ragionevolezza, l’interpretazione esatta delle singole fattispecie presuppone il definitivo accertamento del reato presupposto, non potendo esser quest’ultimo una variabile indefinita.

[16] Il principio della ragionevole durata viene richiamato a giustificazione della riduzione del fenomeno della pregiudizialità in Lozzi, Lezioni di Procedura Penale, Giappichelli, 2010, p. 143, ove: “Nella relazione al progetto preliminare viene giustificata la riduzione del fenomeno della pregiudizialità sulla base del rilievo che si sono volute attuare quelle direttive dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che impongono una durata del processo penale in termini ragionevoli e senza eccessivi ritardi, durata che viene dilatata ovviamente dall’attesa della irrevocabilità della sentenza civile che decide la questione pregiudiziale. Tale scelta normativa risulta ancora più apprezzabile oggi che la legge cost. n. 2 /1999 ha conferito dignità costituzionale al principio della durata ragionevole dei processi (art. 111, comma 2 Costituzione).”.