x

x

Il silenzio è d'oro? La mafia silente al vaglio delle Sezioni Unite

Mafia silente
Mafia silente

Bisogna loro riconoscere, però, una specie di buona fede:

contro l'etica vera, contro il diritto, persino contro la statistica,

loro credono che la terribilità delle pene (compresa quella di morte),

la repressione violenta e indiscriminata, l'abolizione dei diritti dei singoli,

siano gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti

e delle associazioni criminali come mafia, 'ndrangheta, camorra.

E continueranno a crederlo.

Leonardo Sciascia

 

Abstract

Le Sezioni unite penali della Corte di cassazione dovranno chiarire se il collegamento con una cosca stanziata in uno dei territori d'origine della mafia storica sia sufficiente per contestare il delitto di associazione mafiosa a un'organizzazione di persone, stanziata su un territorio differente, che non ha manifestato all'esterno la sua capacità intimidatoria.

 

Indice

1. L’ordinanza di rimessione: il quesito e le ragioni della rimessione

2. Uno sguardo più ampio sull’associazione mafiosa

3. Le questioni più rilevanti per la decisione delle Sezioni unite

3.1. La controversia sulla natura del delitto di associazione a delinquere di tipo mafioso e sulla necessità di esteriorizzazione del metodo mafioso

3.2. La valutazione dell’impatto sanzionatorio e delle ulteriori conseguenze negative collegate alla condanna per associazione mafiosa

3.3. Le conseguenze dell’eventuale overruling favorevole

4. Conclusioni: mafia silente e narrazione penale

 

1. L’ordinanza di rimessione: il quesito e le ragioni della rimessione

Il 10 aprile 2019 la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha depositato l'ordinanza n. 15768/2019, chiedendo alle Sezioni unite di chiarire

 «Se sia configurabile il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. con riguardo a una articolazione periferica (cd. "locale") di un sodalizio mafioso, radicata in un'area territoriale diversa da quella di operatività dell'organizzazione "madre", anche in difetto della esteriorizzazione, nel differente territorio di insediamento, della forza intimidatrice e della relativa condizione di assoggettamento e di omertà, qualora emerga la derivazione e il collegamento della nuova struttura territoriale con l'organizzazione e i rituali del sodalizio di riferimento».

Dall'ordinanza si apprende che i due ricorrenti, originari di un Comune calabrese, vivono da anni in una cittadina svizzera nel cui territorio, secondo l'accusa, sarebbe insediato un “locale” [1] di 'ndrangheta, dipendente da un analogo organismo radicato nella loro zona d'origine, a sua volta gerarchicamente sottoposto al vertice unitario della 'ndrangheta, denominato “Crimine” o “Provincia”.

Condannati in primo grado come associati mafiosi, gli interessati hanno appellato la sentenza che è stata tuttavia confermata dalla Corte di appello di Reggio Calabria.

È risultata decisiva per il rigetto dell'impugnazione l'adesione dei giudici reggini all'indirizzo interpretativo di legittimità [2] per il quale

«il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. è configurabile - con riferimento a una nuova articolazione periferica (c.d. locale) di un sodalizio mafioso radicato nell'area tradizionale di competenza - anche in difetto della commissione di reati fine e della esteriorizzazione della forza intimidatrice, qualora emerga il collegamento della nuova struttura territoriale con quella "madre" del sodalizio di riferimento, ed il modulo organizzativo - distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere, ecc. - presenti i tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando concretamente presagire una già attuale pericolosità per l'ordine pubblico».

Situazione, questa, diversa dal caso di «una neoformazione che si presenta quale struttura autonoma ed originale, ancorché caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche, giacché, rispetto ad essa, è imprescindibile la verifica, in concreto, dei presupposti costitutivi della fattispecie ex art. 416-bis cod. pen., tra cui la manifestazione all'esterno del metodo mafioso, quale fattore di produzione della tipica condizione di assoggettamento ed omertà nell'ambiente circostante».

La Corte territoriale ha ritenuto dimostrata l'esistenza della prima delle due condizioni di fatto sulla base dei risultati acquisiti nell'istruttoria dibattimentale che, a suo modo di intendere, provavano adeguatamente il collegamento del “locale” svizzero con quello radicato nel territorio calabrese e la loro sottoposizione a regole comuni.

Impugnata anche la sentenza d'appello, i due ricorrenti, per ciò che qui interessa, hanno invocato l'applicazione di un alternativo indirizzo interpretativo per il quale un sodalizio può essere ritenuto mafioso solo se disponga di una capacità intimidatoria percepibile all'esterno in termini di attualità ed effettività e non di mera eventualità.

È questo, nell'opinione dei ricorrenti, l'unico orientamento che valorizza correttamente l'espressione «si avvalgono» inserita nella fattispecie incriminatrice dell'associazione mafiosa e salvaguarda il principio di materialità del fatto-reato.

Riassunti i punti salienti dei ricorsi, l'estensore dell'ordinanza constata che la decisione impugnata ha ritenuto sufficienti per la ricorrenza del reato il reciproco riconoscimento tra la “locale” svizzera e la “casa madre” e «il manifestarsi dell'esportazione da parte della prima di metodi, cariche, rituali, gerarchie e attitudine all'uso della violenza propri della seconda».

Questi soli elementi – osserva – sono bastati alla Corte territoriale per affermare che gli imputati avevano fatto proprio un modello comportamentale tipicamente mafioso il che equivaleva ad avvalersene e rendeva inutile l'ulteriore verifica delle sue ricadute all'esterno.

Nel passaggio immediatamente successivo, l'estensore ricorda che già in precedenza, proprio in relazione alla posizione dei medesimi ricorrenti – si era allora nella fase cautelare - due differenti collegi della seconda sezione penale della Corte di cassazione, con le ordinanze nn. 15807/3015 e 15808/2015, avevano rimesso gli atti alle Sezioni unite perché chiarissero «se, nel caso in cui un'associazione di stampo mafioso, nella specie 'ndrangheta, costituisca in Italia o all'estero una propria diramazione, sia sufficiente, ai fini della configurabilità della natura mafiosa, il semplice collegamento con l'associazione principale, oppure se la suddetta diramazione debba esteriorizzare in loco gli elementi previsti dall'art. 416-bis c.p., comma 3».

Il presidente della Corte – sottolinea l'estensore – con provvedimento del 25 aprile 2015 aveva restituito gli atti, escludendo l'esistenza di un vero e proprio contrasto ed anzi attestando il consolidamento di un indirizzo interpretativo di sintesi per il quale

«l'integrazione della fattispecie di associazione di tipo mafioso implica che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano in contatto con i suoi componenti (così, tra le altre, Sez. 1, n. 25242 del 16/05/2011, Rv. 250704)».

Dopo la presa di posizione presidenziale, varie decisioni si erano riconosciute nell'indirizzo appena citato, esprimendo il convincimento che la fattispecie ex art. 416-bis cod. pen. non sia assimilabile a un reato associativo «puro» sicché l'associazione mafiosa può dirsi esistente non dal momento della costituzione di un'organizzazione che programmi di servirsi della forza di intimidazione e di ottenere assoggettamento e omertà ma solo da quando il metodo mafioso sia concretamente usato e manifestato all'esterno.

Tuttavia, altre decisioni di legittimità [3] avevano invece avallato il differente e opposto canone in cui si erano riconosciuti i giudici di appello di Reggio Calabria, continuando a qualificare come “'ndrine” gli organismi collegati a una cosca radicata nel territorio d'origine della 'ndrangheta e strutturati in accordo al modulo organizzativo “standard” con le regole e i riti che gli sono propri.

In questa differente visione, l'accertato collegamento tra la “casa madre” e la cellula periferica implica necessariamente l'acquisizione in capo a quest'ultima del “marchio d'origine” della prima e dunque della sua stessa forza intimidatrice e capacità di condizionamento ambientale in senso criminale.

Punti di vista opposti, indiscutibilmente.

L'estensore ricorda a questo riguardo che proprio nel procedimento Crimine, cioè l'inchiesta giudiziaria istruita dalla Direzione distrettuale antimafia della Procura di Reggio Calabria alla quale si associa comunemente l'affermazione del principio dell'unitarietà della 'ndrangheta, il conflitto si è manifestato nel modo più eclatante.

Il procedimento, inizialmente unitario, è stato diviso in due tronconi, uno per gli imputati giudicati col rito abbreviato, l'altro per quelli che hanno scelto le forme ordinarie.

Nella fase di legittimità i ricorsi provenienti dal giudizio abbreviato sono stati assegnati alla seconda sezione che li ha definiti con la sentenza n. 29850/2017, Barranca, mentre quelli provenienti dal giudizio ordinario erano già stati decisi dalla prima sezione con la sentenza n. 55359/2016, Pesce.

Questa la constatazione espressa al riguardo dall'estensore:

«A tal proposito non può non sottolinearsi che la sentenza Sez. 2 n. 29850 del 18/05/2017 è stata resa all'esito del giudizio ordinario del medesimo procedimento (Crimine) che in sede di abbreviato, per gli altri imputati che vi avevano optato, era stato trattato dalla sentenza n. 55359 del 2016, Pesce, così avendosi, come pure in altri casi in ragione di alcune delle altre succitate pronunzie, soluzioni diverse sul tema dei requisiti richiesti dalla fattispecie sotto l'aspetto della individuazione della tipicità mafiosa della particolare associazione di riferimento (con evidenti ricadute in punto di conferma o di annullamento delle decisioni di merito), pur a fronte delle stesse "locali" stanziate all'estero nel medesimo periodo e sulla base di non discordanti punti di riferimento, concernenti il "Crimine", i tratti organizzativi e programmatici delle citate "locali" e i loro «collegamenti» con la "casa madre"».

Ha buon gioco a questo punto l'estensore a concludere che il conflitto tra le sezioni semplici non è affatto apparente, è alimentato da posizioni che non sembrano trovare alcuna possibilità di conciliazione, attiene a due principi costituzionali cardine nella materia penale, la materialità e l'offensività, e, soprattutto, richiede un'attenta riflessione sulla proporzionalità del trattamento sanzionatorio il cui elevato rigore per le condotte associative mafiose mal si concilia con indirizzi interpretativi che ammettono la rilevanza di fatti privi di esteriorizzazione tra i consociati.

Segue la rimessione degli atti alle Sezioni unite.

È opportuno segnalare che al momento della conclusione di questo scritto, il ricorso trasmesso dalla prima sezione penale non risulta ancora inserito tra quelli pendenti dinanzi le Sezioni unite.

 

2. Uno sguardo più ampio sull’associazione mafiosa

La rimessione degli atti alle Sezioni unite segnala un disagio della giurisdizione che deriva dalla sua incapacità di trovare soluzioni unitarie per questioni complesse, soprattutto in presenza di norme oscure o discutibili.

In questi casi, la sollecitazione dell'intervento del massimo organo nomofilattico equivale a un duplice warningal legislatore perché promuova una legislazione più chiara e condivisibile, a tutti i componenti della comunità perché abbiano consapevolezza che il tema in discussione ha un rilievo che oltrepassa il singolo giudizio e riporta al modo in cui i diritti e i doveri di ognuno e le garanzie che l'ordinamento è disposto riconoscere si compongono in un equilibrio più generale.

Ancora, è usuale che la chiamata in causa delle Sezioni unite avvenga in periodi di mutamenti sociali che consegnano al giudice condizioni di fatto diverse dal passato, lo fanno dubitare dell'adeguatezza dei parametri interpretativi consolidati e gli impongono di aggiornare le analisi, i meccanismi valutativi e le direttrici generali delle decisioni che è chiamato ad assumere.

È piuttosto agevole riconoscere nell'ordinanza di rimessione qui in commento la ricorrenza di tutti questi elementi.

Il centro della scena è occupato da una fattispecie incriminatrice tra le più emblematiche del nostro sistema penale che testimonia al tempo stesso la presa d'atto dell'esistenza di un fenomeno criminale talmente eversivo da essersi meritato la qualifica di antistato e l'affermazione della volontà dello Stato di combatterlo con la massima fermezza fino a sradicarlo dal tessuto comunitario.

La norma che incrimina l'associazione mafiosa non esaurisce tuttavia nel simbolismo la sua funzione. Al contrario, è diventata lo strumento cardine delle strategie degli uffici inquirenti impegnati nell'azione di contrasto alle mafie e, ancor prima, il paradigma di ciò che deve essere inteso come mafioso.

Una “fattispecie di successo” [4], che, dovendosi adattare a un fenomeno criminale tra i più mutevoli e flessibili, per ciò stesso difficile da associare a parametri certi e fissi, è stata concepita in modo da risultare altrettanto aperta e flessibile, sì da potere accogliere nel suo raggio applicativo ogni mutamento, ogni flessione, in definitiva ogni manifestazione espressiva dell'agire mafioso.

Questa configurazione del reato, se ne assicura la massima efficacia in termini di inclusività, crea il rischio di atteggiamenti interpretativi ondivaghi sui più essenziali e identitari elementi costitutivi, primo tra tutti il metodo mafioso e il modo in cui deve manifestarsi.

Non solo. L'acquisita mutevolezza delle organizzazioni mafiose – per la 'ndrangheta si è fatto addirittura ricorso all'immagine baumaniana [5] della liquidità - genera ulteriori complicazioni per il giudice: fino a che punto modificazioni della realtà fenomenica possono giustificare corrispondenti adeguamenti della fattispecie incriminatrice?

Qual è, se c'è, il limite e qual è la misura?

C'è poi la questione dell'oscurità normativa.

Le sezioni penali della Corte di Cassazione, a dispetto del provvedimento presidenziale che non intravedeva alcun conflitto significativo, hanno emesso decisioni agli antipodi la cui ragione di differenziazione sta nel diverso significato che attribuiscono alla locuzione «L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti» contenuta nell'art. 416-bis, comma 3.

L'avvalimento: è questa la bruttura linguistica da cui origina il contrasto e la cui interpretazione crea un effetto che ricorda la lista di Schindler.

Se il ricorrente, in ipotesi appartenente a un “locale” silente o mimetico o inerte che dir si voglia, dovesse imbattersi in un collegio che ritiene necessaria l'esteriorizzazione del metodo mafioso, entrerebbe nella lista e avrebbe salva la vita; se invece il suo destino si incrociasse col collegio che si riconosce nell'opposto orientamento, la lista rimarrebbe un pio desiderio e sarebbe gettato fuori nelle tenebre, là dove è pianto e stridore di denti.

Una questione assolutamente centrale già di per sé stessa ma che porta con sé altri e altrettanto gravi interrogativi.

È davvero così oscura quella locuzione, così tanto da giustificare uno iato di questa portata?

E se poi l'oscurità fosse reale, quale sarebbe l'interpretazione da privilegiare, quella che tutela la difesa sociale o l'altra che protegge la libertà individuale? 

Comunque sia, quanto a lungo la giurisdizione, specialmente quella di legittimità, può permettersi di tollerare simili terni al lotto senza smarrire la propria identità e ragion d'essere?

Quali danni una così vistosa disparità di trattamento infligge non solo alla coerenza complessiva del sistema giurisdizionale ma alla percezione che i cittadini hanno dell'affidabilità e della prevedibilità delle decisioni giudiziarie?

Infine, ove le Sezioni unite si schierassero a favore della soluzione più garantista, dando così vita a un overruling favorevole, cosa ne sarebbe delle condanne definitive emesse all'insegna dell'indirizzo sconfessato?

Il giudice interno sarebbe disposto ad aprire un'ulteriore breccia nell'intangibilità del giudicato o abbandonerebbe al suo destino gli sfortunati che hanno sperimentato gli ultimi bagliori del rigorismo e li costringerebbe a rivolgersi ad istanze sovranazionali?

Nei prossimi paragrafi si proverà a mettere fuoco gli elementi che, verosimilmente, saranno considerati di maggiore peso per la risposta a queste domande.

 

3. Le questioni più rilevanti per la decisione delle Sezioni unite

3.1. La controversia sulla natura del delitto di associazione a delinquere di tipo mafioso e sulla necessità di esteriorizzazione del metodo mafioso

Le Sezioni unite dovranno sciogliere un nodo preliminare la cui importanza è stata segnalata nell'ordinanza di rimessione e che, va da sé, ruota attorno al metodo mafioso.

Occorrerà cioè chiarire se questa caratterizzazione aggiuntiva dell'associazione mafiosa che vale a differenziarla dall'associazione a delinquere cosiddetta semplice si esaurisca in una potenzialità astratta, sicché il delitto sarebbe classificabile come associativo “puro”, oppure debba manifestarsi, cioè diventare visibile oltre i confini dell'ambito associativo, e, manifestandosi, debba tradursi in attività illecite proprie dell'armamentario mafioso, così assumendo la natura di reato a struttura mista [6].

Così, un'autorevole posizione dottrinale giustifica la sua preferenza per questa seconda opzione: «A favore del modello di reato associativo “a struttura mista”, quindi di una versione dell’associazione mafiosa “che delinque” e non solo “per delinquere”, milita anche la funzione che questa concezione può svolgere – per dir così – di antidoto contro i bagliori di un diritto penale d’autore sotto mentite spoglie. Ancorare, infatti, il giudizio di mafiosità, rectius: di “tipo mafioso”, all’accertamento di un requisito oggettivo ulteriore, pone un limite all’impiego di facili presunzioni a base etnico-antropologico che potrebbero attecchire se tale giudizio dovesse risolversi nel valutare esclusivamente la dimensione organizzativa, ancorché internamente caratterizzata e finalisticamente orientata» [7].

Così come, secondo la medesima dottrina, il chiarimento di cui si parla non dovrebbe prescindere da un'ulteriore questione classificatoria: se l'associazione mafiosa sia un delitto esclusivamente di pericolo o debba contemplare anche il danno, assegnando a tale elemento il valore di richiamo all'imprescindibile principio di offensività.

Se queste sono le prime operazioni di chiarezza richieste alle Sezioni unite, è bene adesso esaminare più da vicino alcune decisioni particolarmente espressive del dibattito in corso.

Nel fronte “garantista” si segnala per chiarezza Cass. pen. sez. 6, n. 41772/2017, Vicidomini, emessa in risposta a un ricorso del PM che lamentava l'erroneità di un'ordinanza del Tribunale del Riesame il quale, in un procedimento a carico di un individuo accusato di partecipazione ad un'associazione mafiosa, aveva derubricato la fattispecie in partecipazione a un'associazione a delinquere.

L'organo di garanzia aveva ritenuto di dover escludere il delitto più grave poiché l'organismo di cui era parte l'accusato si trovava ancora in una fase “costitutiva” e, pur compiendo atti anche eclatanti di violenza, non era ancora riuscito a creare una capacità intimidatoria propria del gruppo e di tale intensità da indurre di per sé stessa l'assoggettamento e l'omertà che ne sono effetto tipico.

Il PM ricorrente ha contrastato la tesi espressa nell'ordinanza impugnata e negato la necessità dell'evidenza mafiosa esteriore.

Il collegio ha respinto il ricorso, ritenendo una contraddizione in termini l'idea di un'associazione mafiosa che non manifesti la sua capacità di intimidazione attraverso «un'attività esterna obiettivamente riscontrabile e concretamente percepibile».

Considerazione a cui segue la sua fisiologica conseguenza: «Deve infatti essere rivisitato criticamente l'assunto secondo cui anche l'associazione mafiosa sarebbe un reato associativo "puro", che si perfeziona sin dal momento della costituzione di una organizzazione illecita che si limiti a programmare di utilizzare la propria forza di intimidazione e di sfruttare le conseguenti condizioni di assoggettamento e omertà per la realizzazione degli obiettivi indicati dalla norma, anche nel caso in cui l'effetto intimidatorio non sia in concreto prodotto. In senso opposto alla impostazione indicata depone invece la locuzione "si avvalgono" contenuta nella norma, che rende esplicita, ai fini della consumazione del reato, la necessità che il gruppo faccia un effettivo esercizio, un uso concreto della forza di intimidazione, non essendo sufficiente un semplice dolo intenzionale di farvi ricorso. Il metodo mafioso costituisce il mezzo, lo strumento, il modo con cui l'associazione persegue gli scopi indicati dalla norma e per tale ragione è necessaria la manifestazione esterna della capacità di intimidazione in quanto ciò rende esplicito il suddetto nesso di strumentalità».

L'estensore ha poi chiarito l'opinione del collegio su un'ulteriore ed essenziale questione: «La esteriorizzazione della capacità di intimidazione non presuppone necessariamente il ricorso alla violenza o alla minaccia da parte dell'associazione o dei singoli partecipi; la violenza e la minaccia, rivestendo natura strumentale nei confronti della forza di intimidazione, costituiscono un accessorio eventuale, sotteso, diffuso, percepibile di quella forza di intimidazione, ben potendo quest'ultima esplicitarsi, tuttavia, anche con il compimento di atti che siano non violenti, ma espressione della esistenza attuale, della fama criminale e della notorietà del vincolo associativo […] la condizione di assoggettamento e gli atteggiamenti omertosi, indotti nella popolazione e negli associati stessi, costituiscono, "più che l'effetto di singoli atti di sopraffazione, la conseguenza del prestigio criminale dell'associazione che, per la sua fama negativa e per la capacità di lanciare avvertimenti, anche simbolici ed indiretti, si accredita come temibile, effettivo e autorevole centro di potere" […] La necessità di riscontrare sul piano probatorio la esteriorizzazione del metodo mafioso comporta l'adozione di atti materiali, per quanto non intimidatori, dei quali il tessuto sociale in cui l'organizzazione risulti inserita abbia avuto obiettiva contezza, tanto più significativa e necessaria laddove il tessuto in questione non sia (ancora) aduso a confrontarsi con realtà di tal fatta". Il "quantum" necessario e sufficiente di percezione da parte della comunità della capacità di intimidazione è inversamente proporzionale alla circostanza che siano già radicate condizioni di assoggettamento e di omertà di cui il sodalizio possa più immediatamente avvalersi senza nuove manifestazioni esteriori».

A questo indirizzo, decisamente ancorato alla materialità degli elementi costitutivi (la quale, a sua volta, è intesa come imprescindibile salvaguardia del principio di offensività), si contrappone una ben diversa scuola di pensiero.

Ne è chiarissima espressione, tra le altre, la già citata sentenza Cass. pen., Sez. 2, 29850/2017, Barranca ed altri, cioè una delle decisioni che hanno definito il procedimento Crimine (ed avallato la tesi dell'unitarietà della 'ndrangheta) e che l'ordinanza di rimessione ha considerato emblematica degli ostacoli che il conflitto denunciato crea all'uniforme osservanza della legge.

Nel corpo della motivazione, si dà preliminarmente atto che «il presente giudizio vede essenzialmente contestata la fattispecie associativa di stampo mafioso 'pura' (con particolare riferimento agli assetti organizzativi) e prescinde dall'analisi di specifici reati/scopo».

Uno specifico paragrafo è dedicato alla “mafia silente”.

Se ne fornisce la definizione:

«espressione con la quale si allude ad organizzazioni criminali, dagli inconfondibili connotati mafiosi, che non si siano ancora manifestate all'esterno con le imprese delinquenziali in vista delle quali sono state concepite e, quindi, non abbiano avuto ancora modo di proiettare all'esterno la forza intimidatrice di cui sono capaci».

Si osserva poi, premettendo un esplicito richiamo a «pacifiche acquisizioni sociologiche», che

«La mafia, e più specificamente la 'ndrangheta che di essa è, certamente, l'espressione di maggiore pericolosità, ha oramai travalicato i limiti dell'area geografica di origine, per diffondersi, con proprie articolazioni o ramificazioni, in contesti geografici un tempo ritenuti refrattari od insensibili al condizionamento mafioso. L'immediatezza e l'alta cifra di diffusione dei moderni mezzi di comunicazione, propri della globalità, hanno contribuito ad accrescere a dismisura la fama criminale di certe consorterie, di cui, oggi, sono a tutti note spietatezza dei metodi, ineluttabilità delle reazioni sanzionatorie, anche trasversali, inequivocità ed efficacia persuasiva dei codici di comunicazione. Sicché, non è certo lontano dal vero opinare che il grado di diffusività sia talmente elevato che il messaggio - seppur adombrato - della violenza (di quella specifica violenza di cui sono capaci le organizzazioni mafiose) esprima un linguaggio universale da tutti percepibile, a qualsiasi latitudine […] Ora, pretendere che, in presenza di simile caratterizzazione delinquenziale, con [in]confondibile marchio di origine, sia necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento od omertà è, certamente, un fuor d'opera. Ed infatti, l'immagine di una 'ndrangheta cui possa inerire un metodo "non mafioso" rappresenterebbe un ossimoro, proprio in quanto il sistema mafioso costituisce l'"in sè" della 'ndrangheta, mentre l'impatto oppressivo sull'ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo da questa stessa consorteria».

Le ragioni giustificative di questo indirizzo, ancora una volta a dispetto del provvedimento presidenziale di restituzione degli atti del 2015, sono ben presenti da anni nel dibattito giuridico e affondano le radici nella necessità di contrastare con rigore l'intero spettro delle manifestazioni contemporanee delle mafie e di non trascurare la loro caratteristica di organizzazioni criminali massimamente flessibili e mutevoli.

Sono molti i contributi dottrinali che hanno affiancato l'orientamento da ultimo riportato e hanno contribuito a rafforzarne la progressiva penetrazione nella giurisprudenza di legittimità.

Se ne segnala uno in rappresentanza di tutti [8], che si lascia preferire per alcuni segni identitari ed espressivi i quali, tanto quanto il contenuto, raccontano come meglio non si potrebbe una certa stagione giurisdizionale iniziata da anni e tutt'altro che conclusa e gli animal spirits di cui è conseguenza.

Il contributo si risolve nella formulazione di una proposta interpretativa largamente coincidente con l'indirizzo accolto dalla sentenza Barranca e non serve pertanto riproporne le coordinate.

Assai più interessanti suonano invece le argomentazioni di cui gli autori si servono per rappresentare l'ineluttabilità della metodica valutativa proposta e l'irrecuperabile inadeguatezza della tesi contrapposta.

Colpisce anzitutto la centralità assegnata al “sapere implicito”: «Se in passato il ruolo del “sapere implicito” nella produzione della conoscenza era stato trascurato dalla filosofia e dalle scienze sociali, da diversi decenni si è assistito ad una netta inversione di tendenza in tutti gli ambiti disciplinari, dove emerge una forte attenzione al processo circolare che viene a svilupparsi tra i presupposti cognitivi e le pratiche interpretative. Sul piano giuridico, le moderne teorie dell'interpretazione hanno posto in luce il ruolo essenziale ed insostituibile della pre-comprensione, intesa come anticipazione di significati, come condizione di conoscenza positiva, anche se provvisoria, del problema in gioco. Si tratta, infatti, di quel pre-requisito del procedimento di soluzione di casi giuridici che precede ogni interpretazione delle norme ed ogni valutazione del materiale probatorio. In una approfondita analisi del cambiamento culturale sotteso alla lotta contro il crimine nelle società attuali, si è persuasivamente osservato come le conoscenze della realtà che sono oggetto del procedimento penale siano «sempre mediate da precomprensioni, da aspettative di senso che stanno alla base della nostra percezione, che non possiamo semplicemente scrollarci di dosso, ma su cui possiamo solo riflettere, divenendone consapevoli».

Gli autori citano eminenti giuristi a sostegno della loro tesi e tra questi Winfried Hassemer ed il suo saggio Perché punire è necessario.

Un titolo quantomai evocativo e un'espressione che di per sé considerata sembrerebbe fondare e giustificare una sequenza obbligata: aspettative, percezioni, riflessioni, decisioni; sullo sfondo – pare di capire – la necessità della punizione.

Non più interpreti isolati in torri eburnee ma esseri massimamente sensitivi che si lasciano permeare dalle loro percezioni, manifestatesi (per di più doverosamente) prima e a prescindere dal giudizio e dal suo oggetto, e ad esse conformano le risposte che sono tenuti a dare.

Non c'è da stupirsi. Questa nuova conformazione si impone poiché

«la “fissità” del diritto non è più un elemento portante degli attuali sistemi giuridici, nei quali l'interpretazione giudiziale assume sempre più un carattere bipolare, come ricerca della norma adeguata tanto alla ratio del caso concreto quanto alla volontà dell'ordinamento, e richiede quindi una profonda consapevolezza del senso, della logica sociale e del valore dei fenomeni verso cui è indirizzato l'intervento legislativo».

Può essere, tutto può essere.

Ma è comunque opportuno segnalare che nel citato saggio di Hassemer «il diritto fondamentale alla sicurezza» è paragonato a un Geisterfahrer, «un automobilista che guida contromano in autostrada e che si comporta come se procedesse nella stessa direzione degli altri diritti fondamentali» (pp. 77-78). Aggiunge, in nota, il traduttore: «la metafora del Geisterfahrer rende bene anche l’autoreferenzialità e la “pericolosa” ingenuità […] del diritto alla sicurezza nel suo (non) dialogo con gli altri diritti fondamentali. Chi imbocca al contrario l’autostrada è convinto di “guidare bene” e secondo le regole, e ritiene gli altri partecipanti al traffico autostradale da lui fatti carambolare fuori carreggiata dei pericolosissimi “pazzi furiosi”, che guidano contromano e cercano di ucciderlo. In realtà, il vero pericolo è lui» [9].

Non è questa l'unica proposizione degna di menzione dello scritto di Balsamo e Recchione.

Vi si legge anche questo: «Che la lettera della norma possa legittimare l’interpretazione che richieda non solo la prova dell’esistenza di una organizzazione “tipicamente” mafiosa, ma anche la produzione degli effetti tipici che (di regola) scaturiscono dal contatto tra il consorzio criminale e la società civile è indubbio. Portare alle estreme conseguenze tale percorso logico-interpretativo, tuttavia, significa rischiare di legittimare la proliferazione di organizzazioni strutturate, ma silenti: non ancora attive ma capaci di inquinare pesantemente mercati, politica e dinamiche sociali».

Il che, se si è compreso bene, equivale a dire che tra i due orientamenti che si contendono il campo riguardo alla “mafia silente” va senz'altro preferito quello che non richiede l'esteriorizzazione del metodo mafioso perché l'altro darebbe il via libera a organismi che, pur non manifestandosi, resterebbero comunque pericolosi: l'automobilista fantasma immaginato da Hassemer dovrebbe continuare a guidare perché se gli si ritirasse la patente ben più gravi incidenti sarebbero sopportati dalla società.

Seguono altre rampogne all'indirizzo avversario.

Gli si imputa di svalutare vistosamente il peso probatorio dell'organizzazione.

Ci si appella al senso comune: «Non vi è chi non veda come sia ingestibile una interpretazione che crei una (sottile e critica) dipendenza tra consumazione del reato e prova degli effetti “psicologici” da impatto intimidatorio. L’esito soggettivo del contatto con le mafie è infatti imprevedibile e legato a variabili mutevoli in relazione alle caratteristiche soggettive, culturali e sociali delle persone che entrano in contatto con l’organizzazione».

Visioni opposte, dunque, senza alcun margine di mediazione:

da un lato si richiamano alcuni dei “sacri” principi (materialità e offensività) coniati dalla nostra civiltà giuridica per impedire che la pretesa punitiva statuale si trasformi in arbitrio attraverso norme e interpretazioni evanescenti e formalistiche;

dall'altro si assume che la pericolosità delle mafie confina nel passato e condanna all'irrilevanza qualsiasi indirizzo interpretativo che non sia ispirato e giustificato dalla pre-comprensione dell'in sé mafioso, dalla percezione della sua natura subdolamente cangiante e dalla presa d'atto della necessità di una reazione cui mal si addicono distinguo formalistici.

Le Sezioni unite dovranno fare una scelta di campo e insieme chiarire quale sia al momento il punto di equilibrio tra le esigenze, eternamente opposte, della difesa sociale e delle libertà individuali e se nell'armamentario dell'interprete debba farsi spazio anche alle “pre-comprensioni” e alle “aspettative di senso”.

 

3.2. La valutazione dell'impatto sanzionatorio e delle ulteriori conseguenze negative collegate alla condanna per associazione mafiosa

In uno dei passaggi finali dell'ordinanza di rimessione si sottolinea l'importanza del rispetto non solo dei principi di materialità e offensività ma anche di quello di proporzionalità che sarebbe tradito se, tenuto conto dell'«attuale rigore punitivo», non si richiedesse sempre «un'esteriorizzazione della capacità di intimidazione che abbia attuali ricadute empiricamente percepibili».

È un richiamo insolito che esprime una preoccupazione raramente manifestata nella giurisprudenza di legittimità di questi anni.

Eppure è difficile negare la sua estrema pertinenza al tema in esame se si considera l'asprezza delle pene previste per l'associazione mafiosa.

Un'asprezza così vistosa da giustificare una conclusione: se, a certe condizioni, le pene per gli associati (e con loro i concorrenti esterni) sono più alte di quelle applicabili ordinariamente all'omicidio, se ne deve dedurre che è mutata la piramide valoriale su cui si fonda il nostro sistema penale e il bene vita vale meno dell'ordine pubblico.

Ha un fondamento normativo la preoccupazione espressa dal collegio della rimessione?

Esiste cioè una fonte di diritto positivo da cui trarre la necessità della dimostrazione probatoria dell'esteriorizzazione se il trattamento sanzionatorio conseguente alla condanna sia afflittivo oltre l'ordinario?

La questione è stata specificamente presa in considerazione dalla già citata sentenza Pesce della prima sezione penale della Corte di Cassazione (sia pure nella parte motiva attinente alla definizione della condotta di partecipazione penalmente rilevante) e l'estensore le ha dedicato questo testuale passaggio:

«Il partecipe ed il concorrente esterno, ferme restando le note differenze di costruzione normativa e dogmatica delle due fattispecie, a tacer d'altro, concorrono per definizione nel medesimo reato - attualmente, come si è detto punito con reclusione sino ad anni venti nell'ipotesi di associazione armata - il che implica da un lato l'aderenza necessaria di entrambe le ipotesi concrete di punibilità al principio di materialità e offensività della condotta (pena una denunzia di sostanziale irragionevolezza del trattamento normativo di fatti analoghi, per contrasto con i contenuti degli articoli 3 co.1 e 25 co.2 della Carta costituzionale) dall'altro l'avvertita necessità di considerare quale criterio interpretativo anche il previsto impatto sanzionatorio della condotta (nella misura stabilita dal legislatore, da ultimo con legge n.69 del maggio 2015, e prima ricordata), secondo le ricadute del principio di proporzionalità tra pena e previsione legale del reato di cui all'articolo 49 co.3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea proclamata a Nizza il 7.12.2000 (da ritenersi vigente in ambito UE in forza di quanto previsto dall'art. 6 co.1 del Trattato sull'Unione Europea come modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il 13.12.2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008 n.130, entrato in vigore il 1.12.2009) che testualmente recita: le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato […] va ritenuto, altresì, che la stessa nozione di partecipazione punibile recepita in ambito UE dalla Decisione quadro n.2008/841/GAI del Consiglio, relativa alla lotta contro la criminalità organizzata e adottata all'art. 2 di tale strumento, nell'ottica della armonizzazione delle legislazioni dei diversi Stati membri, contribuisca ad orientare l'interpretazione del dato normativo interno; in tale disposizione il comportamento punibile viene così descritto: il comportamento di una persona che [ .. ] partecipi attivamente alle attività criminali dell'organizzazione, ivi compresi la fornitura di informazioni o mezzi materiali, il reclutamento di nuovi membri, nonchè qualsiasi forma di finanziamento delle sue attività, essendo consapevole che la sua partecipazione contribuirà alla realizzazione delle attività criminali di tale organizzazione».

Plurime fonti interne e sovranazionali giustificano dunque, nell'opinione del collegio della prima sezione penale, l'inserimento dell'impatto sanzionatorio tra i criteri interpretativi di cui tenere conto quando si valuta una contestazione di “mafia silente”.

La contrapposizione interpretativa non ha risparmiato neanche questo aspetto.

Nella sentenza Barranca della seconda penale si legge quanto segue: «Né si può interpretare l'art. 416 bis cod. pen. alla stregua dell'art. 2 della Decisione quadro n.2008/841/GAI nella parte in cui prevede la punibilità di chi "partecipi attivamente alle attività criminali dell'organizzazione", trattandosi di atto atipico di indirizzo dell'Unione Europea (abolito con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009), finalizzato ad ottenere che tutti gli stati membri adottassero le misure necessarie per far sì che sia considerato reato "l'organizzazione criminale", obiettivo estraneo all'Italia che aveva già disciplinato la materia e non era quindi vincolata ad un risultato da raggiungere. In realtà la semplice affiliazione ad un'associazione criminale implica di per sé una "partecipazione attiva" alla vita associativa e la sua punibilità appare del tutto coerente con i principi costituzionali del nostro ordinamento (cfr. Corte Costituzionale sent. n. 331/1991 in tema di reati di pericolo presunto); l'accezione del termine "partecipare" implica infatti prendere parte attiva, con il

proprio contributo, ad un'attività svolta da più persone con un contributo che, sotto il profilo giuridico, può anche essere di sola adesione morale (ex multis Cass. 7643/2015 rv. 262310)».

È auspicabile che le Sezioni unite prendano posizione anche su questo tema la cui importanza, in questo tempo di rigore punitivo e di carcere come prima ratio, va ben oltre l'oggetto della rimessione.

Si consideri peraltro che la compressione della sfera giuridica degli individui cui sono contestate condotte associative di tipo mafioso ha varie specificità negative:

può operare ben prima della condanna definitiva (ad esempio, attraverso l'applicazione, per di più immediatamente esecutiva anche in presenza di un'impugnazione, di una misura preventiva per la quale sono sufficienti standard dimostrativi assai meno rigorosi di quello richiesto in sede penale),

 ha un'elevatissima valenza stigmatizzante, produce incapacità e limiti che riducono o annullano diritti costituzionali di rango primario (lavoro, reddito, risparmio, iniziativa economica).

Una parola di chiarezza del massimo organo nomofilattico agevolerebbe la prevedibilità e la stabilità delle decisioni giudiziarie che oggi sembrano fare decisamente difetto.

 

3.3. Le conseguenze dell'eventuale overruling favorevole

Che succederebbe se le Sezioni unite negassero diritto d'asilo al concetto di “mafia silente”?

L'eventuale decisione di adesione alla prospettiva indicata dal collegio rimettente, schieratosi apertamente a favore dell'orientamento che esige la prova dell'esteriorizzazione del metodo mafioso, assumerebbe ovviamente uno spiccato valore orientativo per i giudizi in corso e per quelli di là da venire.

Ma che ne sarebbe dei “mafiosi silenti” condannati in modo definitivo?

Gli effetti dell'overruling favorevole, cioè del mutamento giurisprudenziale favorevole all'accusato, sono stati presi in considerazione da autorevoli giuristi, tanto più alla luce della recente riforma dell'art. 618 cod. proc. pen. apportata dalla L. 103/2017 che ha rafforzato il ruolo nomofilattico delle Sezioni unite.

Secondo Giorgio Fidelbo [10] «ulteriori problemi derivano anche dai mutamenti di giurisprudenza pro reo, in particolare sulla attitudine degli overruling favorevoli ad avere effetti sul giudi­cato di condanna. Il tema è complesso, in quanto coinvolge il di­battito sulla natura della giurisprudenza quale fonte creatrice del diritto e sul rapporto concorrenziale tra legge e decisione giudiziaria, sicché in questa sede può solo essere accennato, limitandosi a dare conto di come la Corte di cassazione penale lo stia affron­tando. Nel 2010 le sezioni unite [l'autore si riferisce a Sezioni unite penali, sentenza n. 18288/2010, Beschi – nda] hanno ritenuto, tra l’altro, che la svolta giurisprudenziale autorevole, a situazione di fatto invariata, costituisce ius novum sostanzialmente equiparabile a una modifica legisla­tiva. Si è trattato di una decisione particolarmente innovativa, che ha posto a base del suo ragionamen­to la necessità di garantire il rispetto dei diritti fon­damentali della persona, in linea con i principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il cui ar­ticolo 7, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, include nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di deriva­zione giurisprudenziale. Nello stesso periodo, le sezioni unite civili si sono assestate su posizioni di maggior cautela, in quanto, pur riconoscendo effetti processuali all’overruling, si sono basate sulla natura dichiarativa del precedente giudiziario, di cui non hanno riconosciuto la dimen­sione creativa. Tuttavia, lo slancio in avanti delle sezioni unite penali ha subito, nel 2010, una battuta di arresto a seguito dell’intervento della Corte costituzionale che, con la decisione n. 230 del 2012, ha perentoriamen­te escluso ogni possibilità di accostamento tra legge e giurisprudenza e, richiamandosi agli articoli 25 e 101 Cost., ha negato che il diritto vivente abbia una funzione equiparabile a quella della legge».

Maggiori aperture, pur nella consapevolezza dello sbarramento creato dalla Consulta con la sentenza 230/2012, sono invece possibili o addirittura doverose secondo Giuseppe Amarelli [11]:

«il principio di retroattività della lex mitior deve estendersi al mutamento interpretativo favorevole unicamente quando questo sia intervenuto con una decisione delle Sezioni unite, vale a dire con un provvedimento giudiziario che abbia proprio la funzione nomofilattica di chiarire quale sia la lettura corretta di una fattispecie incriminatrice. Non ogni sentenza che si discosti da un’altra di segno antagonistico sfavorevole può determinare effetti rilevanti quale la retroazione favorevole; ma solo quella adottata dalla Cassazione nella sua più autorevole composizione, dal momento che esprime una mutata e stabile percezione del disvalore del fatto commesso tale da rendere irragionevole e discriminatoria la prosecuzione anche dell’esecuzione delle pene già inflitte: come possono dirsi rispettati i principi della funzione rieducativa e della proporzionalità della pena di cui agli artt. 27, co. 3, e 3 Cost. nei confronti di quel reo che continui ad espiare la pena inflittagli per un comportamento divenuto successivamente lecito secondo il massimo organo nomofilattico?».

La questione è sicuramente problematica e il sintetico panorama di opinioni appena riportato lo dimostra.

Ha di certo a che fare con precetti costituzionali primari e con l'accessibilità e la prevedibilità del precetto normativo (senza che abbia alcun rilievo la sua fonte, che sia legislativa o giurisprudenziale), centrali nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e tali da imporre il divieto di irretroattività sfavorevole e l'obbligo della retroattività favorevole.

Riporta, in ultima analisi, alla coesistenza tra la legalità costituzionale e la legalità convenzionale e al loro miglior punto di equilibrio.

Non resta che attendere, ritenendosi comunque piuttosto probabile che, ove si arrivi all'overruling favorevole, più di un individuo che si trovi nella condizione di goderne retrospettivamente gli effetti si vedrà costretto a rivolgersi al giudice di Strasburgo.

 

4. Conclusioni: mafia silente e narrazione penale

Come si è provato a dimostrare, la questione che le Sezioni unite dovranno dipanare è ad alto tasso di complicazione.

Non tanto – si crede – per gli aspetti strettamente tecnici.

Nessuna necessità adeguatrice pare poter giustificare un indirizzo interpretativo che valorizza pre-comprensioni al posto di prove, importa e legittima in sede giurisdizionale il genere letterario poliziesco dei delitti della camera chiusa, si serve di presunzioni per rendere materiale e offensivo ciò che non si è manifestato come tale, annichilisce il principio della parità delle armi tra accusa e difesa, dispensando la prima dall'onere di provare l'essenziale elemento costitutivo della fattispecie associativa mafiosa e addossando alla seconda il compito diabolico di superare presunzioni insuperabili.

Non è quindi la tenuta del concetto di “mafia silente”, paradossalmente, a costituire il momento centrale di questa storia.

Contano assai più i temi che si stanno incrociando con la narrazione penale di questi anni.

Se abbiano ancora valore la materialità e l'offensività, se l'effimero e l'impalpabile siano diventati categorie giuridiche, se il giudice possa trasformarsi in sociologo, se il metagiuridico valga più del giuridico, se il significato delle parole del diritto possa essere dilatato fino al punto di smarrirsi.

Ed anche se, in presenza di plurime possibilità interpretative, si debba per forza scegliere quella che porta alla punizione.

Questo è il compito che, direttamente o indirettamente, toccherà alle Sezioni unite.

 

Note

[1] Con questo termine, talvolta declinato al femminile, si intende l’insieme degli affiliati alla ‘ndrangheta stanziati in un certo territorio. Il “locale” dispone di una struttura organizzativa configurata in senso gerarchico. Il capo è affiancato da altri affiliati cui è affidata la responsabilità delle più importanti funzioni settoriali. All’interno di un “locale” possono in alcuni casi operare più “‘ndrine”, cioè singole cosche, spesso costituite in prevalenza da persone unite tra loro da legami parentali. Le ‘ndrine hanno il controllo di una porzione di territorio e delle attività economiche che vi si svolgono.

[2] Ne è espressione, tra le altre, Cass. pen. Sez. 2, n. 29850/2017, Barranca.

[3] Si segnala tra queste Cass. pen., Sez. 5, n. 31666/2015, Bandiera.

[4] La definizione è di I. Merenda e C. Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’articolo 416 bis tra teoria e diritto vivente, in Diritto penale contemporaneo, 24 gennaio 2019.

[5] Nella relazione annuale sulla ‘Ndrangheta inviata il 20 gennaio 2008 ai presidenti delle Camere, così si espresse la commissione parlamentare antimafia della quindicesima legislatura, presieduta dall’On. Forgione: «La ‘Ndrangheta affronta le sfide della globalizzazione con una modernissima utilizzazione di antichi schemi, con una combinazione di strutture familiari arcaiche e di un’organizzazione, reticolare, modulare o - per usare l’espressione di un grande studioso della modernità e della post modernità, Zygmunt Bauman - liquida».

[6] Per un’ampia riassunzione dei termini della questione definitoria attinente alla struttura generale del reato, si rinvia a I. Merenda e C. Visconti, op.cit.

Per i profili più strettamente riferibili alla condotta di partecipazione all’associazione mafiosa, si confronti I. Giugni, La nozione di partecipazione associativa penalmente rilevante tra legalità penale e disorientamenti ermeneutici, in Archivio penale, 2018, n. 3.

[7] I. Merenda e C. Visconti, op. cit.

[8] Ci si riferisce ad A. Balsamo e S. Recchione, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’articolo 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Diritto Penale Contemporaneo, 18 ottobre 2013.

[9] Il periodo virgolettato è tratto da A. Vallini, Il guidatore contromano e il guardiano del faro. Recensione a Winfried Hassemer, Perché punire è necessario. Difesa del diritto penale, Il Mulino, 2012, traduzione italiana di Warum Strafe sein muss. Ein Plädoyer, a cura di D. Sicilianoin Criminalia, 2012, Pisa, 2013, 701 - 710.

[10] G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione Giustizia, fascicolo 4/2018, Una giustizia (im)prevedibile? L’obbligo della comunicazione.

[11] G. Amarelli, Legalità costituzionale, legalità convenzionale e diritto giurisprudenziale, in Criminal Justice Network, 16 novembre 2018.