Trattativa Stato-mafia: la Corte di assise di appello di Palermo sconfessa la tesi del connubio criminale
Con la sentenza pronunciata ieri, la Corte di assise di appello di Palermo ha posto fine alla fase di merito del giudizio con rito ordinario nei confronti di Leoluca Bagarella ed altri per i fatti che la sintesi mediatica ha denominato trattativa Stato – mafia.
Questo l’esito:
i tre ufficiali dell’Arma dei Carabinieri Giuseppe De Donno, Antonio Subranni e Mario Mori sono stati assolti dal reato (capo A della rubrica) di minaccia pluriaggravata a un corpo politico dello Stato (nella fattispecie, in particolare, il Governo della Repubblica) perché il fatto non costituisce reato;
Marcello Dell’Utri è stato assolto dal medesimo reato, riqualificato per la parte che lo riguarda nella forma tentata, per non avere commesso il fatto;
Leoluca Biagio Bagarella ha ottenuto un ricalcolo della pena complessivamente inflittagli, adesso fissata in 27 anni di reclusione a fronte dei 28 anni irrogati in primo grado, essendo stato dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti per intervenuta prescrizione per il medesimo reato riqualificato contestato al Dell’Utri;
è stato rigettato l’appello di Antonino Cinà e resta quindi confermata la pena a 12 anni di reclusione inflittagli in primo grado in quanto giudicato responsabile del reato di cui al capo A della rubrica.
Va ricordato che tra gli imputati appellanti era inizialmente compreso anche Massimo Ciancimino, condannato dal primo giudice a otto anni di reclusione per il delitto di calunnia. A luglio dello scorso anno, tuttavia, i giudici dell’assise d’appello hanno dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti per prescrizione, precisando che la causa estintiva si era verificata il 2 aprile 2018, dunque mentre era ancora in corso il giudizio di primo grado.
I giudici palermitani di secondo grado, per ciò che può comprendersi sulla base del solo dispositivo, avallano la proposizione accusatoria primaria dell’esistenza di una condotta di minaccia al Governo consistita nella prospettazione, organizzazione ed esecuzione di stragi ed altri gravi delitti allo scopo di impedire o turbare l’attività di istituzioni pubbliche ed esponenti politici in vista dell’ottenimento di benefici normativi, giudiziari e penitenziari a favore di uomini di Cosa nostra e considerano Bagarella e Cinà responsabili di tale condotta.
Escludono tuttavia che Marcello Dell’Utri abbia partecipato ad alcun segmento di quella condotta e riconoscono che gli ufficiali del ROS, pur avendo ordinato o compiuto attività info-investigative che comportarono contatti con esponenti di Cosa nostra, non intesero concorrere a creare una pressione minacciosa verso istituzioni nazionali.
Questo epilogo, da valutare unitamente all’assoluzione ormai definitiva di Calogero Mannino dal medesimo reato e all’assoluzione già in primo grado del senatore Nicola Mancino dall’imputazione di falsa testimonianza che avrebbe reso per coprire l’attività illecita degli ufficiali del ROS, restringe vistosamente la platea dei soggetti che intesero minacciare lo Stato attraverso la stagione stragista, limitandola in via esclusiva alla componente mafiosa in senso stretto ed escludendo quella istituzionale formata da alti ufficiali dell’Arma dei Carabinieri nonché, con formula ancora più perentoria, la componente politica in questo caso incarnata da Marcello Dell’Utri nella sua veste di preteso intermediario tra le istanze pressanti di Cosa nostra e il premier Silvio Berlusconi.
Un esito, questo, ben diverso da quello desiderato e presagito dalla procura della Repubblica che così proclamava nella memoria depositata l’ormai lontano 5 novembre 2012 a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio:
“Il presente procedimento, giunto ora all’udienza preliminare, costituisce la summa di una lunga, complessa e laboriosa indagine, che comprende la lettura sintetica ed organica di una gran mole di atti processuali di fonte eterogenea (dichiarazioni di collaboratori di giustizia e testimoni, documenti, intercettazioni, telefoniche ed ambientali, sentenze di varie AA.GG.), tutti inerenti la vicenda della c.d. “scellerata trattativa”, sviluppatasi a cavallo delle stragi del ‘92-’93 fra i massimi esponenti di Cosa Nostra ed alcuni rappresentanti dello Stato. Quest’Ufficio non esita ad evidenziare l’importanza della ricostruzione probatoria contenuta in questo procedimento, che rappresenta l’esito di un faticoso ed ambizioso sforzo investigativo”.
Seguirono una rassicurazione e una constatazione dolente e amara:
“l’approccio di questo Ufficio con il materiale probatorio non è stato certamente pressapochista, né superficiale (come spesso si è inopinatamente affermato, senza rispetto delle energie generosamente profuse da tanti uomini dello Stato), bensì estremamente rigoroso nella valutazione delle prove, come dimostrano anche le ripetute archiviazioni richieste – nel corso degli anni – allorquando, a differenza di oggi, gli elementi di prova erano apparsi inadeguati a sostenere proficuamente l’accusa in giudizio”.
Si passò quindi al merito:
“Secondo la ricostruzione emersa dalle risultanze finora acquisite, la trattativa, dal lato di Cosa Nostra, venne originariamente gestita direttamente dall’odierno imputato Salvatore RIINA, all’epoca capo assoluto del sodalizio mafioso, mentre, da parte dello Stato, venne condotta da alcuni alti ufficiali dei Carabinieri ovvero il Comandante del ROS Gen. Antonio SUBRANNI, il suo Vice Col. Mario MORI e il Cap. Giuseppe DE DONNO, a loro volta investiti dal livello politico (ed in particolare dal sen. Calogero MANNINO, all’epoca Ministro in carica ed esponente politico siciliano di grande spicco), che contattarono Vito CIANCIMINO – a sua volta in rapporti con Salvatore RIINA per il tramite di Antonino CINA’ – nel 1992, nel pieno dispiegarsi della strategia stragista. In quello stesso periodo, il medesimo col. MORI venne in contatto – attraverso l’intermediazione del M.llo Roberto TEMPESTA e di Paolo BELLINI – con i capi di Cosa Nostra lungo il parallelo asse costituito da Antonino GIOE’ e Giovanni BRUSCA”.
E ancora:
“È stata l’analisi complessiva di tali atti che ha determinato la doverosa instaurazione del procedimento in oggetto, anche sulla base delle risultanze dei processi davanti alle Corti d’Assise di Caltanissetta e Firenze relativi alle stragi del ‘92 e del ‘93, di cui sono state acquisite le relative sentenze. Rilevano, a titolo emblematico, le affermazioni contenute nella motivazione della sentenza depositata il 2 marzo 2012 con la quale la Corte d’Assise di Firenze ha condannato Francesco TAGLIAVIA per concorso nelle stragi del ‘93, ove in premessa si legge che "una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”.
Si richiamò la genesi dell’indagine:
“Va altresì evidenziato che l’odierno procedimento è frutto dello stralcio dal procedimento penale n. 2566/98 RGNR (c.d. procedimento Sistemi Criminali): era già allora centrale la vicenda delle interlocuzioni instauratesi fra l’ex Sindaco di Palermo Vito CIANCIMINO e gli ufficiali del ROS. Anche dalle dichiarazioni rese dagli stessi interlocutori (Vito Ciancimino, da una parte, il Col. MORI e il Cap. DE DONNO, dall’altra) si evinceva che le “ambasciate” che RIINA faceva pervenire allo Stato si risolvevano nella minaccia di proseguire nella strategia stragista qualora non fossero state accolte alcune richieste di benefici in favore di “Cosa Nostra”.
Si accennò al notissimo “papello”:
“Come è noto, è proprio in tale contesto che si inserisce la vicenda del c.d. “papello” delle richieste che, secondo dichiarazioni di più collaboratori, Cosa Nostra fece recapitare ai suoi “interlocutori” istituzionali per ottenere, in tal modo, i benefici in cambio dei quali avrebbe posto fine alla strategia omicidiaria avviata nel 1992 (circostanze queste di cui collaboratori di giustizia del calibro di Giovanni BRUSCA e Salvatore CANCEMI – già appartenuti alla Commissione provinciale di Palermo di Cosa Nostra – hanno dichiarato di avere avuto notizia personalmente da Salvatore RIINA)”.
Si delinearono la novità e l’importanza delle dichiarazioni di un personaggio del calibro di Massimo Ciancimino:
“Gli sviluppi investigativi e l’acquisizione di ulteriori elementi hanno consentito di ampliare la visione delle vicende inerenti la trattativa e di coglierne meglio genesi, matrice, obiettivi ed esiti. Un ruolo prodromico di nuove certezze derivava innanzitutto dalle dichiarazioni di un testimone privilegiato dei fatti, l’odierno imputato Massimo CIANCIMINO, fonte di prova dalla controversa attendibilità intrinseca (visto che in questo processo assume anche la veste di imputato del delitto di calunnia), ma a cui, d’altra parte, va riconosciuto di aver fornito notizie e informazioni, che, laddove ed in quanto riscontrate, si sono rivelate preziose: queste hanno infatti consentito di ricostruire genesi, dinamiche ed esito dei contatti intercorsi fra i capi di Cosa Nostra e i rappresentanti delle Istituzioni, attraverso il canale dell’ex Sindaco di Palermo, Vito CIANCIMINO, padre del dichiarante”.
Si sottolinearono e rivendicarono le rivelazioni di nuovi testi e di collaboratori di giustizia altamente attendibili:
“E di particolare valore e significato sono state, di certo, le successive e conseguenti rivelazioni di "testimoni eccellenti", alti esponenti delle Istituzioni del tempo, i quali, solo allorquando sono venuti a conoscenza delle dichiarazioni di Massimo CIANCIMINO (in parte divenute pubbliche), sono stati finalmente indotti a riferire, per la prima volta, circostanze che avevano a lungo taciuto e che, una volta inserite nel mosaico probatorio, evidenziavano in modo più chiaro uomini, protagonisti e complici della trattativa. Nel contempo, da ulteriori risultanze, e tra queste in particolare dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di elevata affidabilità ed attendibilità […] si evidenziava che la trattativa non si era affatto conclusa entro il limitato arco temporale del 1992, essendosi invero proiettata anche nel corso del 1993: è questo un anno decisivo per Cosa Nostra, che incontrò sempre maggiori difficoltà operative anche a causa dell’applicazione del duro regime carcerario del 41-bis, che proprio per questo, secondo le dichiarazioni di numerosissimi collaboratori, costituiva una delle norme di cui Cosa Nostra chiedeva l’eliminazione o l’attenuazione, unitamente ad altre, in materia di collaboratori di giustizia, sequestri di beni, e limitazione dei poteri del Pubblico Ministero”.
Si stigmatizzò un’amnesia collettiva:
“questo Ufficio è consapevole del fatto che non si è del tutto rimossa quella forma di grave amnesia collettiva della maggior parte dei responsabili politico-istituzionali dell’epoca (un’amnesia durata vent’anni), che avrebbe dovuto arrestarsi, se non di fronte alla drammaticità dei fatti del biennio terribile ‘92-’93, quanto meno di fronte alle risultanze (anche di natura documentale) che confermavano l’esistenza di una trattativa ed il connesso – seppur parziale - cedimento dello Stato, tanto più grave e deprecabile perché intervenuto in una fase molto critica per l’ordine pubblico e per la nostra democrazia”.
Si invitò ad apprezzare la durata nel tempo della trattativa e la sua sostanziale omogeneità, insensibile ai mutamenti dei Governi e delle maggioranze politiche:
“Il complesso probatorio, seppur non esaustivo, appare sufficiente per ricostruire la trama di una trattativa, sostanzialmente unitaria, omogenea e coerente, ma che lungo il suo iter ha subìto molteplici adattamenti, ha mutato interlocutori e attori da una parte e dall’altra, allungandosi fino al 1994, allorquando le ultime pressioni minacciose finalizzate ad acquisire benefici e assicurazioni hanno ottenuto le risposte attese. In questo quadro, può dirsi che è proprio dal suo epilogo del 1994, che viene ancor meglio in evidenza la vera posta in gioco di tutta la “trattativa”.
Si assegnò alla trattativa il valore fondativo di un nuovo patto di convivenza tra Stato e anti-Stato:
“Essa non è stata limitata a singoli obiettivi “tattici”, come la tregua per risparmiare gli uomini politici inseriti nella lista mafiosa degli obiettivi da eliminare, o l’allentamento del 41 bis e gli altri punti del papello, ma – assai più ambiziosamente – ha avuto ad oggetto un nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un patto di convivenza che, da un lato, significava la ricerca di nuovi referenti politici e, dall’altro lato, la garanzia di una duratura tregua armata dopo il bagno di sangue che in quegli anni aveva investito l’Italia”.
Si tracciò la genesi del progetto secondo la visuale di Cosa nostra e la si individuò senza esitazioni nella gravissima crisi indotta dall’esperienza del maxiprocesso, nella sensazione di pericolo mortale che ne avevano ricevuto i boss di vertice e nella conseguente necessità di annientare gli uomini dello Stato cui addebitavano la responsabilità di quel risultato e di annichilirne gli effetti una volta per tutte.
Si spesero aggiuntivamente spiegazioni storiche e geopolitiche:
“Il crollo del muro di Berlino e il disfacimento dell’impero sovietico ridisegnarono gli equilibri politici internazionali sull’intero scacchiere mondiale. La fine della contrapposizione bipolare Est-Ovest, fondata sull’equilibrio nucleare e su una guerra fredda combattuta su più fronti, fu la “grande madre” di una catena di eventi. La grande criminalità aveva approfittato della copertura politica della guerra fredda per intessere, all’interno del sistema politico-istituzionale, una serie di rapporti che hanno fatto dell’Italia uno degli snodi degli interessi macroeconomici del crimine mondiale. Ebbene, fu proprio il crollo del muro di Berlino a determinare la fine della giustificazione storica della “collaborazione” con la grande criminalità. Nel frattempo, nel panorama nazionale, l’eccesso di tassazione, portato dell’utilizzazione distorta della spesa pubblica, aveva determinato la rivolta della borghesia commerciale e della piccola imprenditoria di varie regioni del Nord, espressa nella vertiginosa crescita politica del fenomeno delle Leghe. Anche al Sud l’emergere di un fenomeno politico spontaneo e nuovo come quello della “Rete” si rivelò quale ulteriore sintomo della crisi dei partiti tradizionali. Fu il combinarsi di tutte queste circostanze a far sì che dal cuore del sistema politico nazionale vennero precise indicazioni per “voltare le spalle” alla grande criminalità”.
Se ne trasse la conseguenza che le stragi furono il linguaggio che Cosa nostra usò per parlare in modo nuovo alla politica e ottenerne l’attenzione:
“Le stragi costituirono la premessa necessaria della ristrutturazione dello scambio dialettico con la politica”.
Si affrontò infine il cuore delle imputazioni, con un’importante premessa:
“Venendo alla sostanza giuridica delle contestazioni, occorre rammentare che il presente procedimento non ha per oggetto in senso stretto la trattativa. Nessuno è imputato per il solo fatto di aver trattato. Non ne sono imputati i mafiosi e neppure gli uomini dello Stato”.
Si chiarì quindi che la contestazione di minaccia a un corpo politico deriva non dalla trattativa ma dalle modalità illecite con cui fu realizzata e si richiamano a tal fine i contenuti del capo di imputazione.
Si svelò il contenuto del concorso del prefetto Parisi e del Dr. Di Maggio e si adombrò un ruolo concorrenziale anche per il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro:
“Per completezza, si segnala, infine, il ruolo di concorrenti nel medesimo reato assunto da altri uomini delle istituzioni oggi deceduti. Ci si riferisce all’allora Capo della Polizia Vincenzo PARISI ed al vice direttore del DAP Francesco DI MAGGIO, che, agendo entrambi in stretto rapporto operativo con l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi SCALFARO, contribuirono al deprecabile cedimento sul tema del 41 bis”.
Si passò quindi all’imputazione contestata a Nicola Mancino e se ne chiarirono i retroscena:
“In questo contesto, si inserisce la contestazione di falsa testimonianza a carico dell’odierno imputato Nicola MANCINO. È sicuramente emerso che chi condusse la trattativa fece un’attenta valutazione: il Ministro dell’Interno in carica Vincenzo SCOTTI era ritenuto un potenziale ostacolo, mentre MANCINO veniva ritenuto più utile in quanto considerato più facilmente influenzabile da politici della sua stessa corrente, ed artefici della trattativa come il coimputato MANNINO, e da chi lo circondava, a cominciare dal Capo della Polizia PARISI. E rispetto al ruolo di quest’ultimo, va evidenziato il dato, non trascurabile, che mentre i primi approcci della trattativa erano nati su iniziativa ed ispirazione di chi poteva avere un interesse immediato e personale, in quanto più esposto, nel frattempo il quadro si era aggravato perché all’omicidio LIMA aveva fatto seguito la strage di Capaci. E quindi l’affare non riguardava più solo la sorte dei politici, ma l’intero Stato. È il momento, in cui irrompe sulla scena una male intesa (e perciò mai dichiarata) Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e che coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali. Ed invero, anche l’ex Guardasigilli Claudio MARTELLI, percepito anche lui come un ostacolo alla trattativa, finisce per essere politicamente eliminato (anche per effetto di un’inusuale collaborazione giudiziaria del capo della P2 Licio GELLI) più in là nel ‘93, quando si tratta di ammorbidire il 41 bis. E nello stesso contesto temporale, viene tolto di scena anche il capo del DAP Nicolò AMATO, ritenuto inizialmente un possibile strumento utile e inconsapevole della trattativa per il suo acceso garantismo, ma poi diventato inaffidabile, anche per avere messo inopinatamente nero su bianco (in una sua nota del 6 marzo 1993 indirizzata al neo-Ministro CONSO) che PARISI aveva espresso «riserve» sull’eccessiva durezza del 41 bis, a margine della riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica del 12 febbraio 1993”.
Si proseguì nell’affresco:
“D’altra parte, occorre considerare che la condotta di alcuni protagonisti istituzionali della trattativa del 1992 (MORI e MANNINO, in particolare), non rimase circoscritta entro quei confini temporali in relazione al triangolo di rapporti CIANCIMINO-CINA’-RIINA, ma si protrasse certamente fino al 1993, allorquando, chiusa la Prima Repubblica con la caduta del Governo Amato, e quindi nella successiva fase di debolezza del quadro politico che favorì la formazione di un "Governo tecnico" come il Governo CIAMPI (che fu anche un "Governo del Presidente" e cioè del Presidente della Repubblica, Oscar Luigi SCALFARO), si affievolì il potere dei politici “garanti“ del primo accordo stipulato a margine della prima trattativa in costanza della Prima Repubblica. Tale ruolo venne più proficuamente assunto e mantenuto, in quel particolare momento, dagli uomini degli “apparati” sopravvissuti alla Prima Repubblica. In particolare, il Capo della Polizia Vincenzo PARISI ed il Gen. Mario MORI in questo contesto assunsero un ruolo di particolare protagonismo: gli uomini-cerniera divennero uomini-artefici della trattativa, decisivi nel garantire l’adempimento degli accordi presi, e quindi garanti della controprestazione in termini di allentamento della stretta repressiva, specialmente sul fronte carcerario in materia di 41 bis.
Fu la volta di Francesco Di Maggio:
“È in quel momento che si delinea in tutta la sua importanza il ruolo di Francesco DI MAGGIO, uomo fidato dei Servizi di Sicurezza e da sempre legato al ROS dei Carabinieri e uomo forte della Amministrazione Penitenziaria, che darà il suo indirizzo imponendolo a CAPRIOTTI, il nuovo Direttore del DAP, ed al Ministro CONSO. Ciò con l’avallo che gli derivava anche dai suoi rapporti con il capo dello Stato, Oscar Luigi SCALFARO (a sua volta influenzato da PARISI). Capo dello Stato che, come emerso da varie e convergenti deposizioni testimoniali, ebbe un ruolo decisivo negli avvicendamenti SCOTTI-MANCINO e MARTELLI-CONSO, e nella sostituzione di Nicolò AMATO col duo CAPRIOTTI-DI MAGGIO, attraverso i quali seguì l’evoluzione delle vicende del 41 bis strettamente connesse all’offensiva stragista del 1993”.
Si giustificò la prosecuzione delle minacce anche dopo le concessioni sul versante penitenziario:
“Ma certamente l’allentamento sul fronte carcerario, con alcune significative mancate proroghe di regime ex 41 bis nei confronti di boss mafiosi di assoluto rango, non poteva esaurire l’iter della trattativa che, dalla parte dei capi di Cosa Nostra, aveva ben più ambiziosi e duraturi obiettivi, mirando ad ottenere garanzie a tutto campo, con la stipula di un nuovo duraturo patto politico-mafioso. Ed è per questa ragione che le minacce di prosecuzione della stagione stragista non si arrestarono e proseguirono fin tanto che, subentrata la Seconda Repubblica ed insediatasi una nuova classe politica dirigente con la quale “trattare”, all’ultima minaccia portata al neo-Governo Berlusconi tramite il canale BAGARELLA-BRUSCA-MANGANO-DELL’UTRI, seguì la definitiva saldatura del nuovo patto di coesistenza Stato-mafia”.
Si chiuse con un’orgogliosa rivendicazione:
“Quanto sinteticamente esposto, e con riserva di ulteriore illustrazione nel corso della discussione innanzi alla S.V., sostanzia le ragioni per le quali si è ritenuto doveroso esercitare l’azione penale nei confronti degli odierni imputati, nella ferma convinzione che l’unica vera Ragione di Stato è quella verità che questo Ufficio non ha mai smesso, e mai smetterà, di cercare”.
Questa era la verità secondo la procura di Palermo e lo è stata a lungo per tanti che hanno creduto ciecamente alla tesi di uno Stato incapace di sfidare in campo aperto e sconfiggere Cosa nostra e quindi propenso ad accordarsi con essa.
Un’idea insieme drammatica e triste che ha attecchito profondamente nelle coscienze degli italiani e rappresentato un tema costante nella narrazione giudiziaria e politica dell’ultimo decennio.
Oggi la Corte di assise di appello di Palermo, distanziandosi decisamente dal giudice di primo grado, e muovendosi almeno in parte sulla scia dei tanti giudizi collaterali alla vicenda principale, invariabilmente conclusi con esiti che hanno progressivamente sconfessato segmenti importanti della tesi d’accusa, ci dice che quell’asserito cedimento istituzionale non ci fu, che gli ufficiali del ROS non intesero assecondare alcuna inconfessabile trattativa e che Marcello Dell’Utri non ebbe alcun ruolo nella stessa.
Non è ancora, verosimilmente, l’ultima parola data l’elevata probabilità di ulteriori impugnazioni ad opera della parte pubblica e di quelle private.
Ma oggi, almeno, si dispone di una chiave di lettura più confortante di quella proposta dalla procura di Palermo e dai suoi tanti devoti.