Trattativa Stato-mafia: le vicende collaterali e il loro esito giudiziario
Questo scritto è stato originariamente pubblicato l'8 aprile 2020 dalla rivista Diritto Penale e Uomo. Viene adesso ripubblicato, per gentile concessione della direzione della predetta rivista, nella rubrica "La linea della palma" di Filodiritto" .
2.3 L’ipotizzata protezione “istituzionale” della latitanza di Bernardo Provenzano (processo a Mario Mori e Mauro Obinu).
2.3.1 L’archiviazione delle posizioni di Subranni e Riccio.
Il giudizio di cui si parla in questo paragrafo è un pezzo importante della storia principale.
I giudici di Palermo furono chiamati a chiarire se i due imputati, Mori nella qualità di vicecomandante del ROS e Obinu quale comandante del reparto criminalità organizzata della medesima unità, avessero aiutato il capomafia latitante Bernardo Provenzano a sfuggire alle ricerche finalizzate alla sua cattura.
Il capo di imputazione formulato dalla Procura di Palermo era fondato su una dettagliata sequenza fattuale.
Si assumeva che tale Luigi Ilardo, esponente di Cosa nostra (successivamente assassinato a Catania il 10 maggio 1996), si fosse rivolto confidenzialmente al colonnello Riccio, ufficiale aggregato al ROS, rivelandogli notizie in grado di portare alla cattura di Provenzano. Ilardo, in particolare, aveva riferito che il 31 ottobre 1995 si sarebbe incontrato con il boss nella località Mezzoiuso, dove costui era solito tenere riunioni.
Nonostante Ilardo fosse un confidente di sperimentata affidabilità e sebbene l’arresto di Provenzano fosse ritenuto una priorità assoluta sia dal ROS che dalla Procura di Palermo, l’opportunità nascente dalla notizia dell’incontro era stata gestita in modo incomprensibilmente omissivo.
Non fu organizzato alcun servizio per la cattura di Provenzano nel giorno della riunione né fu compiuta alcuna verifica sull’abitualità della sua presenza nel luogo indicato.
Non si fecero accertamenti per arrivare alla compiuta identificazione dei soggetti che, secondo Ilardo, gestivano direttamente la latitanza di Provenzano.
Si tenne a lungo all’oscuro la Procura di Palermo che fu informata delle confidenze di Ilardo solo a fine luglio del 1996.
Questa complessiva condotta fu contestata ai due ufficiali come concorso in favoreggiamento continuato e pluriaggravato, in quanto compiuto per agevolare la fazione di Cosa nostra guidata da Provenzano e abusando dei poteri e violando i doveri propri della loro funzione pubblica.
Quanto al luogo e al tempo del reato, lo si contestò avvenuto a Palermo e altrove tra il 1995 e il 1996.
È utile chiarire preliminarmente che il procedimento fu inizialmente istruito nei confronti non solo di Mori e Obinu ma anche del generale Subranni, accusato di concorso nel favoreggiamento.
Alle loro posizioni venne successivamente riunita, per evidenti ragioni di connessione, quella del colonnello Michele Riccio, accusato di calunnia in danno di tutti costoro per avere reso, quale teste nel giudizio in corso a carico di Marcello Dell’Utri, dichiarazioni che accreditavano una loro inerzia nella gestione delle notizie offerte da Ilardo.
I PM di Palermo chiesero l’archiviazione del procedimento ma il GIP la negò, disponendo indagini suppletive.
Compiuti i nuovi accertamenti, con decreto del 5 settembre 2011 il GIP archiviò il procedimento nella parte riguardante Subranni, essendo emersa la sua estraneità alle attività conseguenti alle rivelazioni di Ilardo, e Riccio, essendo stata accertata la rispondenza a verità delle sue accuse[1].
2.3.2. Il giudizio e la sentenza di primo grado
Il 17 luglio 2013, dopo ben cinque anni dall’avvio del processo, il Tribunale di Palermo assolse Mori e Obinu dal reato loro contestato perché il fatto non costituisce reato e trasmise gli atti alla Procura per quanto di sua competenza in ordine alla deposizione di Massimo Ciancimino e Michele Riccio[2].
Vale la pena ricordare, trattandosi di fatto inconsueto, che il giudizio di merito fu reso possibile dalla rinuncia di entrambi gli imputati ad avvalersi della prescrizione.
Nel corso del dibattimento, precisamente all’udienza dell’11 novembre 2012, il PM integrò l’imputazione, contestando al solo Mori l’aggravante della connessione teleologica per avere agito allo scopo di assicurare il prodotto (più comprensibilmente, il risultato) dei reati propri della trattativa e cioè l’adempimento dell’accordo che comportava da un lato la cessazione delle stragi mafiose, e dall’altro la concessione di benefici a Cosa nostra tra i quali l’indisturbata prosecuzione della latitanza di Provenzano che dell’accordo era il garante.
L’istruttoria dibattimentale fu imponente e comportò l’acquisizione di una mole considerevole di atti oltre che l’ascolto di numerosi testi e attività peritali.
Tale fu l’intensità di queste attività che la loro descrizione, minuziosamente curata nella motivazione, richiese ben 60 pagine.
Seguì la motivazione propriamente intesa.
Il suo passo iniziale spiega il senso che il Tribunale attribuì al suo compito e lo si riporta testualmente per non correre il rischio di sintetizzarlo in modo inefficace.
«Il lungo processo di cui questo documento segna, almeno per questo grado di giudizio, l’atto conclusivo, ha avuto una vasta risonanza mediatica che lo ha accompagnato durante il suo corso e che si è acuita allorché sono stati coinvolti, a vario titolo, personaggi assai in vista nella vita del Paese. Il quadro probatorio emerso dalla articolatissima istruzione dibattimentale si presenta spesso, nei vari segmenti che lo compongono, incerto, talora confuso ed anche contraddittorio. Esso è formato da indicazioni frammentarie che in molti casi possono essere ricondotte ad una sintesi solo con il ricorso ad elaborati ragionamenti: tale metodo, però, non sempre garantisce il raggiungimento di risultati sicuri. Il Tribunale, nel cercare di trarre dal ponderoso compendio probatorio le indicazioni davvero rilevanti, emarginando quelle di scarsa conducenza almeno per la decisione sulla specifica materia in discussione, e nel vagliarle procederà con la dovuta prudenza, cercando di tenere lontane le insidie costituite dalla interazione di alcuni fattori, quali: la suggestione di ricostruzioni plausibili anche se non supportate da prova adeguata; la grande distanza temporale dai fatti, che rende difficile al testimone il ricordo esatto degli stessi; la non più verde età di svariati testimoni, anche essa ostacolo ad un ricordo limpido degli avvenimenti, per di più assai spesso costituiti da mere interlocuzioni; la possibile influenza del modo in cui la memoria ricostruisce i fatti anche in dipendenza di avvenimenti o di cognizioni solo successivi ad essi; il condizionamento che su alcune testimonianze ha probabilmente esercitato la pressione mediatica; l’intento di rincorrere possibili, ancorché vaghi, benefici che invogli a compiacere l’Accusa fornendo indicazioni idonee a confortare le tesi ed i temi, già in precedenza conosciuti, di un processo al quale palesemente l’Accusa medesima attribuiva una notevole importanza; possibili atteggiamenti compiacenti verso le ragioni degli imputati, già o tuttora ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, che possano essere stati indotti da spirito di corpo o da sentimenti di affezione o di gratitudine. Nella fattispecie, poi, dovrà prestarsi particolare attenzione alla rigorosa applicazione della regola che impone di coltivare il dubbio e di preferire, in un quadro probatorio incerto, le ragioni degli accusati, specie considerando che si deve all’atteggiamento processuale di questi ultimi, che hanno espressamente e reiteratamente dichiarato di rinunciare alla prescrizione, se si è arrivati ad una pronuncia sul merito della imputazione. Un’ultima notazione preliminare: le ipotesi, per quanto plausibili, restano ipotesi e nuoce alla complicata attività di verifica della fondatezza delle stesse la diffusa inclinazione a trasformarle in fatti (sia pure rimasti, per il momento, sforniti di prova). Per un P.M. e, a maggior ragione, per un giudice è questo un punto fermo, dal quale non si può prescindere. L’Accusa ipotizza che il generale dei Carabinieri (e poi Prefetto) Mario MORI, già investigatore di punta e protagonista della lotta alla mafia, all’epoca dei fatti vicecomandante operativo del Raggruppamento Operativo Speciale (ROS) dei CC., ed il col. Mauro OBINU, anche egli all’epoca dei fatti impegnato in investigazioni antimafia e comandante della I Sezione (Criminalità Organizzata) dello stesso Raggruppamento, abbiano favorito la latitanza del famigerato boss mafioso Bernardo PROVENZANO, deliberatamente omettendo di attivare i necessari dispositivi per catturare il predetto in occasione di un preannunciato incontro che il medesimo avrebbe avuto con l’esponente mafioso Luigi ILARDO, da tempo confidente del ten. col. dei CC. Michele RICCIO, che era stato, appunto, preventivamente informato dello stesso incontro. In seguito, dopo che l’annunciato incontro si era svolto, il 31 ottobre 1995, in un casolare ubicato nelle campagne di Mezzojuso, i due imputati avrebbero deliberatamente omesso di disporre tempestive indagini finalizzate al controllo della zona in cui era avvenuto l’incontro medesimo, ovvero alla compiuta individuazione dei favoreggiatori del PROVENZANO che l’ILARDO aveva specificamente segnalato fornendo alcuni dati identificativi, ed avrebbero deliberatamente omesso di comunicare alla A.G. quanto a loro conoscenza fino alla presentazione del c.d. rapporto (informativa) “Grande Oriente”, datato 30 luglio 1996, redatto a seguito della morte dello stesso ILARDO, caduto vittima di un agguato in Catania, nei pressi della sua abitazione, il 10 maggio precedente. Secondo l’Accusa, l’origine di tale condotta, certamente anomala in due esponenti dell’Arma che erano stati stimati come irreprensibili ed abili investigatori impegnati nella lotta contro la mafia, dovrebbe individuarsi in pregressi, inconfessabili accordi, frutto di trattative fra esponenti delle Istituzioni e mafiosi. Particolare rilievo rivestirebbero, in quest’ambito, le circostanze che hanno portato alla cattura del boss Salvatore RIINA (15 gennaio 1993) e la presunta trattativa che la avrebbe resa possibile e che, con la intermediazione di Vito CIANCIMINO, sarebbe intervenuta fra l’allora col. MORI ed il cap. Giuseppe DE DONNO, da una parte, e Bernardo PROVENZANO, dall’altra. Tale trattativa, di cui sarebbero stati mandanti e garanti esponenti politici e delle Istituzioni, sarebbe sfociata nell’accordo che, in cambio della collaborazione alla cattura di RIINA ed alla cessazione delle stragi mafiose, avrebbe assicurato al PROVENZANO una sorta di immunità. In seguito, la trattativa sarebbe proseguita ed avrebbe indotto, nel corso del 1993, anche alcuni cedimenti sul piano del rigore penitenziario. In sede di requisitoria il P.M. ha insistito sull’addotto movente della condotta contestata, evidenziando che la stessa non era stata determinata da vituperabili motivi personali, da collusione, da corruzione o da viltà: “Mori e Obinu non hanno aiutato Provenzano perché collusi con Cosa Nostra o corrotti da Cosa Nostra o mossi dalla paura e del ritratto di Cosa Nostra ma perché hanno adottato una scelta che si è, di politica criminale che si è rivelata sciagurata, quella di far prevalere in un particolare momento l’esigenza di mediazione favorendo la fazione ritenuta più moderata di Cosa Nostra quella di Provenzano, mutando quello che è necessario mutare con questa scelta in quel momento il governo e i responsabili del DAP decisero di assecondare questo dialogo, non importa se finalizzato alla cessazione delle stragi ma agirono in questa ottica di trattativa e a questa ottica che lo vide come protagonista principale nel 1992 nemmeno nel 1993 l’odierno imputato Mori è stato estraneo”. (udienza del 24 maggio 2013). Considerati anche il passato degli imputati ed il loro comportamento processuale (essi, come ricordato, rinunciando alla prescrizione non si sono sottratti al giudizio), non appare in linea con la premessa la estrema severità della sanzione richiesta dal P.M., che sembra tradire lo sforzo di imprimere agli avvenimenti una peculiarissima gravità, sforzo forse disancorato da una lettura contestualizzata degli stessi. Ritenere, poi, a distanza di circa venti anni dai fatti, che la finalità di evitare le stragi non sarebbe rilevante appare una forzatura, posto che la stessa non potrebbe non incidere sull’apprezzamento del disvalore del fatto in vista anche della graduazione della sanzione. Infine, affermare, senza essere apodittici, che una scelta strategica sia stata sciagurata presupporrebbe una compiuta e pacata analisi che, prendendo le mosse dalle condizioni date, avesse tenuto conto dello sviluppo degli avvenimenti, avesse verificato i risultati conseguiti ed avesse considerato problematicamente quale sarebbe stato il corso degli eventi ove fosse stata preferita una diversa, possibile opzione».[3]
È una dichiarazione programmatica e insieme un manifesto ideologico: il collegio enuncia le linee guida cui intende attenersi e, facendolo, indica la sua visione dell’essenza della giurisdizione.
Seguono i grandi temi del processo e la sintesi questa volta è obbligata.
Si darà ovviamente prevalenza a quelli più strettamente legati all’oggetto dello scritto.
L’arresto di Salvatore Riina e la possibilità di considerarlo un effetto dell’accordo tra Stato e mafia
Il collegio considera essenziale questo evento e il significato che l’istruttoria consente di attribuirgli:
«[questo] capitolo intende focalizzare, da un lato, il dato storico oggetto della disamina, ma, dall’altro, anche il significato ultimo della relativa vicenda che può riguardare il presente processo: quel che, invero, importa verificare in questa sede, al di là dei dettagli, è se gli elementi raccolti consentano di ritenere provata la eventualità che il comportamento delittuoso specificamente contestato agli imputati trovi origine nei rapporti pacificamente intrattenuti nel 1992 dall’allora col. Mario MORI (vice comandante del ROS) con Vito Calogero CIANCIMINO e, più in particolare, nelle circostanze che condussero alla cattura, dopo numerosi anni di latitanza, nel boss mafioso Salvatore RIINA, nonché nei successivi sviluppi dei rapporti delle Istituzioni statuali e la famigerata organizzazione mafiosa Cosa Nostra. La fondamentale fonte probatoria utilizzata dalla Accusa sul tema dei rapporti fra Vito Calogero CIANCIMINO e l’imputato MORI è costituita dalle dichiarazioni rese da Massimo CIANCIMINO, escusso nel corso del dibattimento (udienze dell’1, 2 e 8 febbraio 2010, del 2 marzo 2010 e, quindi, del 10 maggio 2011) nella veste di teste assistito in quanto imputato di reati probatoriamente collegati che aveva ricevuto gli avvertimenti di cui all’art. 64 c.p.p., e dagli elementi di riscontro addotti (costituiti, in particolare, dalla documentazione proveniente prevalentemente da Vito CIANCIMINO, in buona parte gradualmente consegnata ai magistrati inquirenti da Massimo CIANCIMINO, dall’analisi tecnica della stessa documentazione e da alcune deposizioni raccolte). Benché la disamina che verrà effettuata sarà piuttosto analitica, la stessa non si soffermerà su ogni risvolto delle dichiarazioni del propalante (e su ogni particolare della vicenda), giacché si cercherà di concentrare l’attenzione sugli snodi essenziali. Induce, infatti, a non attardarsi su aspetti secondari il costante risultato della analisi, costituito, come si vedrà, dalla precaria attendibilità del CIANCIMINO»[4].
Il controllo che segue, assai più che analitico al punto di impegnare 460 pagine, si conclude così:
«tirando le fila di quanto fin qui considerato a proposito delle dichiarazioni di Massimo CIANCIMINO e degli elementi probatori complementari offerti dalla Accusa, non si può che ribadire: --- la evidenziata, scarsa attendibilità del CIANCIMINO, le cui dichiarazioni, che, come rimarcato dal P.M., gli sono costate, in definitiva, imputazioni ulteriori e più gravi di rispetto a quelle che gli venivano contestate nel processo per riciclaggio pendente all’epoca delle sue prime propalazioni, possono spiegarsi: con la irresistibile spinta di una narcisistica propensione ad affermazioni eclatanti che gli facessero guadagnare la ribalta mediatica (ed infatti, le prime sue dichiarazioni sono state rese ad organi di stampa); con il velleitario tentativo di conquistare con gli inquirenti una posizione di forza che preservasse il patrimonio (illecitamente accumulato dal padre), messo in pericolo dalle iniziative giudiziarie; --- la impossibilità di ritenere sufficientemente provato sulla scorta delle affermazioni del predetto e degli altri elementi acquisiti: che l’inizio dei rapporti diretti del padre, Vito CIANCIMINO, con l’imputato MORI risalga ad epoca anteriore al 5 agosto 1992; che lo stesso imputato MORI ed l’allora cap. DE DONNO siano stati resi edotti da Vito CIANCIMINO non tanto dell’interesse del boss Bernardo PROVENZANO ad una strategia che abbandonasse lo scontro frontale e cruento nei confronti dei rappresentanti dello Stato e della possibilità, sul punto, di una frattura fra lo stesso PROVENZANO e Salvatore RIINA, ma del fatto che il PROVENZANO fosse interlocutore corrente del CIANCIMINO; che il PROVENZANO abbia effettivamente collaborato alla cattura del RIINA. La carenza di prova in ordine alla consapevolezza del col. MORI circa una disponibilità del PROVENZANO a cooperare alla cattura del RIINA, eseguita dai militari del ROS il 15 gennaio 1993, e, comunque, in ordine all’effettivo apporto recato al riguardo dallo stesso PROVENZANO esclude che le condotte di favoreggiamento addebitate agli imputati possano ritenersi scaturigine della gratitudine personale dell’ufficiale verso il boss corleonese, dipendente dall’ausilio che sarebbe stato da lui prestato al raggiungimento di quel clamoroso risultato. Ma, del resto, la stessa Accusa non sostiene affatto tale riduttivo contesto, giacché, come già ricordato, lega la sua ricostruzione ad un disegno di ben altro respiro, che collega la ipotizzata immunità dalle ricerche concessa al PROVENZANO alla volontà di evitare nuove e cruenti iniziative stragiste dei mafiosi, garantendo libertà di azione allo stesso PROVENZANO, il quale, come alcune fonti hanno rivelato (in particolare, vedansi le dichiarazioni del collaboratore Antonino GIUFFRE’), era in disaccordo con la visione strategica aggressiva del RIINA. Peraltro, all’indomani dell’omicidio dell’on. LIMA e della strage di Capaci la esistenza di divergenze fra i due boss corleonesi era una ipotesi presente negli ambienti più avvertiti, se è vero che lo stesso dr. Paolo BORSELLINO (che certo non era persona che parlava a caso), in una intervista apparsa sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 3 luglio 1992, aveva adombrato, sia pure usando un appropriato linguaggio cauto, una frattura fra i predetti (si veda l’articolo di stampa, dal titolo “I sospetti di Borsellino”, prodotto dal P.M. nella udienza del 4 maggio 2012, il quale inizia con le seguenti considerazioni del dr. BORSELLINO, riportate tra virgolette: <Riina e Provenzano sono come due pugili che mostrano i muscoli, uno di fronte all’altro. Si nascondono a Palermo, su questo non c’è dubbio: il controllo del territorio per mafiosi del loro calibro è importante, direi fondamentale. Non si possono “governare” picciotti e affari lontano dalla Sicilia. Tuttavia ho l’impressione che tra i due boss dei corleonesi non corra più buon sangue. Ripeto, è solo un’impressione. Non sappiamo niente altro…>. Alla affermazione viene dato risalto anche nell’occhiello dell’articolo: <A colloquio col procuratore aggiunto di Palermo. “Ho l’impressione che tra i superlatitanti corleonesi non corra più buon sangue”>); che sia stato stipulato un accordo che prevedeva l’abbandono della strategia stragista in cambio di una sorta di immunità del PROVENZANO. Appare difficile immaginare che tale immunità potesse essere assicurata senza il consenziente concorso, perdurante negli anni, di una molteplicità di Istituzioni (politiche e di polizia), concorso che, come meglio si vedrà nel prosieguo, è smentito da alcune attendibili indicazioni. Volendo, peraltro, astenersi dal respingere tout court l’ipotesi dell’Accusa e ritenere, pertanto, la necessità di approfondire ulteriormente, alla stregua degli elementi disponibili, il tema della eventuale esistenza di una trattativa all’esito della quale, per ottenere la cessazione degli attacchi stragisti, sarebbe stata concordata la immunità dalle ricerche e dall’arresto del PROVENZANO, non si potrebbe che volgere lo sguardo agli avvenimenti successivi, al fine di verificare, in primo luogo, se l’atteggiamento dello stesso PROVENZANO sia stato consono alla funzione (di assicurare l’abbandono di cruente ed eclatanti iniziative delittuose) per la quale gli sarebbe stata garantita la libertà e, comunque, se l’azione di Cosa Nostra, una volta catturato il RIINA, sia stata ispirata ad una strategia di “sommersione”, che evitasse attacchi allo Stato ed azioni criminali di enorme impatto »[5].
Massimo Ciancimino è dunque, nella valutazione del collegio, un dichiarante assai poco attendibile e le sue parole non sono idonee a provare la tesi che l’arresto di Salvatore Riina sia stato propiziato dall’aiuto del suo rivale Provenzano e, men che meno, che la protezione della latitanza di quest’ultimo sia stata il corrispettivo di quell’aiuto.
I fatti successivi all’arresto di Riina
Coerentemente alla constatata necessità di analizzare gli eventi successivi all’arresto del boss corleonese e verificarne la coerenza con la tesi della trattativa e i suoi vari postulati, il collegio prende in considerazione gli eclatanti episodi della stagione stragista: verificatisi a Roma (14 maggio 1993), Firenze (27 maggio 1993) e Milano e Roma (27 e 28 luglio 1993).
Il giudizio per tutti quegli episodi spettò alla Corte di assise di Firenze che lo definì con la già citata sentenza del 6 giugno 1998[6], confermata dalla Corte di assise di appello il 13 febbraio 2001 e divenuta di seguito definitiva.
Serve precisare che tra gli imputati di quel processo c’era Bernardo Provenzano ed era chiamato a rispondere di avere concorso in tutti i delitti di strage citati in precedenza che si consideravano avvenuti per finalità terroristiche ed eversive e per agevolare l’attività di Cosa nostra.
In particolare, data la sua qualità di esponente apicale di Cosa nostra, a Provenzano fu attribuito il ruolo di ideatore e mandante delle stragi in concorso con Salvatore Riina (la cui posizione fu tuttavia stralciata dal procedimento principale), Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Giuseppe Ferro.
La tesi accusatoria fu avallata dai giudici e Provenzano fu ritenuto responsabile di tutti i reati contestatigli e condannato all’ergastolo e all’isolamento diurno nella misura massima consentita dalla legge.
Rileva coerentemente il collegio che l’accertata partecipazione di Provenzano alle stragi collide con la tesi che lo voleva garante della “pacificazione” e in ogni caso, quand’anche si volesse prescindere dal giudicato e sostenere che il boss abbia subito la scelta stragista senza volerla, se ne dovrebbe desumere che non era in grado di controllare Cosa nostra e imprimerle una linea d’azione opposta a quella violenta di Riina.
Ad uguali conclusioni di incoerenza logica perviene il collegio riguardo alla questione del carcere duro imposto a molti uomini di mafia con lo strumento dell’art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario.
Il Tribunale dà per accertato che questa condizione fosse quanto mai penalizzante ed umiliante per Cosa nostra e fosse una delle spinte decisive per le stragi: la mafia, in altri termini, voleva l’attenzione dello Stato. Ma se si compiono stragi per avere ascolto, è difficile credere che una trattativa sia in corso ed è assai più verosimile che la si stia sollecitando.
Nel prosieguo della motivazione, il collegio affronta la questione, strettamente connessa, dei 334 provvedimenti di applicazione del regime del 41-bis che non vennero rinnovati da Giovanni Conso, successore di Claudio Martelli quale ministro della Giustizia, ed esclude che le si possa attribuire valore sintomatico di un’apertura alla trattativa o del suo concreto avvio. Ciò perché sarebbe sbagliato interpretare quei mancati rinnovi senza tener conto del clima dell’epoca e della preoccupazione istituzionale di impedire ulteriori degenerazioni dello stragismo e senza considerare, più in generale, che l’ispirazione antimafia delle politiche pubbliche non mostrò alcun cedimento significativo.
Soprattutto, rileva il Tribunale, non è in alcun modo provato che
«l’imputato MORI, per il tramite del dr. Francesco DI MAGGIO, il solo funzionario del DAP con cui risulta aver intrattenuto rapporti, si sia, in qualsivoglia modo, adoperato al fine di determinare il cedimento del Ministro CONSO in relazione al mancato rinnovo di numerosi provvedimenti di applicazione dell’art. 41 bis O.P. nel novembre del 1993»[7].
Seguono le parti della motivazione che si riferiscono alla presunta omessa cattura del boss Benedetto “Nitto” Santapaola e alle attività del ROS dopo le confidenze di Ilardo.
Le si omette, nella convinzione che il già detto sia già sufficiente a comprendere le ragioni essenziale della decisione ma comunque segnalando la scarsa credibilità attribuita dal Tribunale alle dichiarazioni accusatorie del Colonnello Riccio.
Si riporta invece testualmente il paragrafo conclusivo:
«In generale, la trattazione in diritto del giudice penale dovrebbe essere parca, dovendo tendenzialmente tenersi lontana da articolati ragionamenti, perché la relativa decisione non dovrebbe essere frutto di complesse argomentazioni giuridiche: sarebbe, invero, essenziale che fosse potenzialmente chiaro per qualunque cittadino il significato del precetto penale e, conseguentemente, la violazione dello stesso e la irrogazione della più invasiva delle sanzioni. Sia pure alla stregua di un giudizio ex post, può, ad avviso del Tribunale, ammettersi che nell’arco di tempo oggetto della contestazione siano state adottate dagli imputati scelte operative discutibili, astrattamente idonee a compromettere il buon esito di una operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Bernardo PROVENZANO. È vero che le peculiari circostanze che caratterizzarono l’episodio del 31 ottobre 2013 e la stessa, personale esperienza investigativa del col. RICCIO non consentono di nutrire alcuna certezza in ordine all’esito fausto che la operazione avrebbe potuto avere se fossero state prescelte linee di azione diverse: si è già evidenziato come la peculiarissima prudenza usata nella gestione della latitanza del PROVENZANO abbia reso vano il ricorso a mezzi investigativi (intercettazioni, pedinamenti, osservazioni) che, a differenza che nel caso di specie, erano stati attivati nel corso della indagine denominata “Scacco al Re”. E, come già rilevato, proprio il fallimento della pregressa attività investigativa può aver consigliato di puntare esclusivamente sull’auspicato, nuovo incontro del boss con l’ILARDO, che per molti mesi è stato ritenuto imminente. In ogni caso, poiché ai fini della configurabilità del delitto di favoreggiamento personale non è necessaria la dimostrazione dell’effettivo vantaggio conseguito dal soggetto favorito, occorrendo solo la prova della oggettiva idoneità della condotta favoreggiatrice ad intralciare il corso della giustizia (cfr. Cass., Sez. VI, 07/11/2011, n. 3523, Papa), può ritenersi che la condotta attendista prescelta con il concorso degli imputati sia sufficiente a configurare, in termini oggettivi, il reato addebitato. Posto ciò, si deve, però, rilevare che, benché non manchino aspetti che sono rimasti opachi, la compiuta disamina delle risultanze processuali non ha consentito di ritenere adeguatamente provato – al di là di ogni ragionevole dubbio, come richiede l’art. 533 c.p.p. – che le scelte operative in questione, giuste o errate, siano state dettate dalla deliberata volontà degli imputati di salvaguardare la latitanza di Bernardo PROVENZANO o di ostacolarne la cattura. Ne consegue che i medesimi devono essere mandati assolti con la formula perché il fatto non costituisce reato, che sembra al Tribunale quella che più si adatti alla concreta fattispecie. Come si desume dalla lunga esposizione dei motivi della decisione, parecchie sono le dichiarazioni raccolte che possono astrattamente suscitare perplessità in ordine alla loro veridicità. Il Tribunale, peraltro, già in premessa ha avvertito la possibile incidenza fuorviante della grande distanza temporale dai fatti, del modo in cui la memoria li ricostruisce anche in dipendenza di avvenimenti o di cognizioni solo successivi, ma anche di condizionamenti indotti dalla narrazione mediatica. Significativi, in tal senso, sono i casi, che non sono mancati, in cui il medesimo testimone, a distanza di svariati anni, ha ricordato lo stesso evento in modo nettamente diverso, ovvero in cui distinti testimoni hanno riferito con modalità significativamente differenti lo stesso episodio. Avuto riguardo anche alla concreta pertinenza delle indicazioni potenzialmente sospette di oggettiva falsità ed in qualche caso alla personale posizione dei dichiaranti (che talora avrebbero potuto avvertire il pericolo di rendere affermazioni suscettibili di essere interpretate a loro sfavore), il Tribunale, salva ogni autonoma determinazione del P.M., ritiene, pertanto, di non segnalare specificamente, ex art. 207 c.p.p., alcuna singola posizione, se si eccettuano quelle del col. Michele RICCIO e di Massimo CIANCIMINO. In merito, invero, alla sicura incidenza sul processo delle dichiarazioni dei predetti va aggiunta la evidenziata inaffidabilità di svariate indicazioni dei medesimi, che non consente di escludere la consapevole e deliberata falsità delle stesse»[8].
2.3.3. I gradi successivi del giudizio
Il 19 maggio 2016 la Corte di appello di Palermo confermò la sentenza del Tribunale.
Si segnala, come fatto rimarchevole, che all’udienza del 18 gennaio 2016 i rappresentanti del pubblico ministero rinunciarono all’aggravante della connessione teleologica e a quella dell’agevolazione mafiosa. La condotta contestata veniva quindi depurata della sua iniziale strumentalità all’interesse generale di Cosa nostra e, ciò che più conta, non era più considerabile come un segmento della trattativa.
Il PG di Palermo ricorse per cassazione e l’impugnazione fu decisa con la sentenza n. 39562/2017 della sesta sezione penale[9] che la dichiarò inammissibile.
Il primo vizio denunciato era riferito alla motivazione, che la Procura ricorrente considerava carente e illogica, della sentenza impugnata circa l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato.
Il collegio di legittimità rilevò che, a fronte di una “doppia conforme”, cioè di due decisioni di merito dello stesso tenore, il loro ribaltamento è possibile solo quando chi lo chiede dimostri puntualmente l’insostenibilità logica e giuridica degli argomenti che le hanno sorrette e concluse che la ricorrente non aveva assolto a questo compito, essendosi limitata a proporre un diverso apprezzamento che era ben lungi dal configurarsi come l’unico possibile al di là di ogni ragionevole dubbio.
Lo stesso destino di inammissibilità fu riservato al secondo motivo di ricorso che denunciava il vizio di travisamento della prova in ordine all’omessa informativa alla Procura di Palermo delle generalità, già note al ROS, del tale Giovanni che curava la latitanza di Provenzano. La ricorrente sosteneva infatti che questa circostanza dimostrasse ex se il dolo del favoreggiamento, non potendosi plausibilmente attribuirle altra giustificazione se non quella di ritardare le indagini conseguenti a quella notizia.
La Cassazione ebbe buon gioco a rilevare che il vizio di travisamento riguarda solo il significante della prova, ricorre cioè solo quando si dia per esistente una prova inesistente o per inesistente una prova esistente, e non può quindi tradursi in una censura sul significato della prova medesima. D’altro canto, osservò la Corte, il motivo di impugnazione ometteva di confrontarsi con il complesso delle considerazioni fatte dai giudici di appello sulla plausibilità della versione difensiva focalizzata sulla cautela adottata da un lato riguardo al confidente e alla sua attendibilità, dall’altro riguardo ai contatti tra il Colonello Riccio e i PM palermitani il cui tenore non era ben chiaro agli imputati.
L’assoluzione di Mori e Obinu divenne così definitiva e venne a mancare (o quantomeno diventò assai più azzardato servirsene) un pezzo tutt’altro che secondario nel teorema della trattativa.
Si osserva infine, come piccola nota aggiuntiva a quanto enunciato nei vari giudizi, che non è operazione agevole inserire in una trattativa il cui epicentro fu tra il 1992 e il 1993, una condotta asseritamente favoreggiatrice compiuta tra la fine del 1995 e l’estate del 1996. Non solo perché più aumenta la distanza di tempo più è difficile dimostrare l’unitarietà dei fatti ma anche perché nel periodo trascorso molte cose erano cambiate sul piano politico: basti pensare che dal gennaio 1995 al 17 maggio 1996 operò il Governo guidato da Lamberto Dini al quale, dopo le elezioni e l’avvento della XIII legislatura, subentrò l’Esecutivo guidato da Romano Prodi. La sospetta omissione di Mori e Obinu avvenne dunque quando il corpo politico minacciato dalla trattativa aveva una composizione radicalmente diversa da quella della fase stragista ed era sostenuto da maggioranze politiche profondamente cambiate e questa – pare – è una complicazione di non poco conto.
[1] L’ordinanza di archiviazione che dichiarò l’inammissibilità dell’opposizione di Mario Mori e Mauro Obinu è reperibile a questo link.
[2] La sentenza è reperibile a questo link.
[3] Idem, pp. 66 ss.
[4] Idem, pp. 231 ss.
[5] Idem, pp. 696 ss.
[6] Si veda sopra, par. 2.2.1.
[7] Idem, p. 813.
[8] Idem, pp. 1320 ss.
[9] La sentenza è reperibile nel sito web istituzionale della Corte di Cassazione.