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Trattativa Stato - mafia: le vicende collaterali e il loro esito giudiziario

Parte terza: gli attentati del 1993
Fleurs dans un vase, gauguin
Fleurs dans un vase, gauguin

Questo scritto è stato originariamente pubblicato l'8 aprile 2020 dalla rivista Diritto Penale e Uomo. Viene adesso ripubblicato, per gentile concessione della direzione della predetta rivista, nella rubrica "La linea della palma" di Filodiritto" .

 

2.2 Gli attentati del 1993 a Roma, Firenze e Milano (processo a Leoluca Bagarella e altri).

2.2.1 Il giudizio di primo grado

Il giudizio qui esaminato fu celebrato dalla Corte di assise di Firenze nei confronti di Leoluca Bagarella ed altri e definito con una sentenza emessa il 6 giugno 1998[1] che accolse integralmente l’impostazione accusatoria. Tra gli imputati erano compresi, oltre a Bagarella, Salvatore Riina (la cui posizione fu poi stralciata e definita in un separato processo che si concluse con sentenza del 21 gennaio 2000 che lo dichiarò responsabile di tutti i reati contestati, tranne l’attentato di Formello), Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Benedetto, Giuseppe (anche nel suo caso vi fu uno stralcio) e Filippo Graviano, Matteo Messina Denaro e Gaspare Spatuzza.

L’oggetto del giudizio furono gli attentati di via Fauro, via dei Georgofili, via Palestro, San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro e quello a Salvatore “Totuccio” Contorno, avvenuto a Formello il 14 aprile 1994.

La contestazione (capo A dell’epigrafe) di maggiore interesse per l’oggetto di questo scritto è la considerazione di tutti quegli episodi come segmenti di un’unica strategia attuata per finalità terroristiche e di eversione dell’ordine costituzionale e per agevolare le attività di Cosa nostra.

Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Giuseppe Ferro furono accusati di essere gli ideatori e i mandanti di tale strategia.

Altri imputati furono accusati di avere contribuito alla sua concreta esecuzione.

Furono infine formulati specifici capi di imputazione per ciascuno degli attentati.

L’istruttoria dibattimentale fu lunga e complessa e la motivazione ne diede conto in modo capillare.

Nell’impossibilità di commentarla per esteso, se ne riporta qui soltanto due specifici passaggi, entrambi di elevato interesse per la trattativa.

Il primo si riferisce, secondo la denominazione scelta dall’estensore, alla «strategia di Cosa nostra fino al mese di luglio del 1992» ed ha a che fare, come si vedrà con la questione della competenza per territorio della Corte fiorentina, messa in dubbio da alcune parti processuali.

Si legge dunque che

«trattando questo argomento di carattere generale non si vuole certamente tracciare un profilo completo delle strategie perseguite da “cosa nostra” nel tempo, sia perché non è questa la sede appropriata, sia perché questa Corte non dispone degli strumenti necessari. L’argomento, com’è evidente, interessa gli storici ed i sociologi e nelle sedi del dibattito storico o sociologico va trattato.

Molto più limitatamente, a questa Corte interessa mettere in evidenza, invece, avvalendosi sia di dati tratti dalla comune esperienza, sia di dati consegnati alla storia di questo Paese, sia dei contributi conoscitivi forniti da vari dichiaranti, che mai, prima del mese di luglio del 1992 (cioè, prima dell’entrata in vigore della legge 7-8-92, n. 356) vi fu “attenzione” a parte dei mafiosi siciliani al patrimonio artistico e storico nazionale, giacché le strategie dell’associazione guardarono  sempre agli uomini delle istituzioni: per avvicinare quelli che potevano favorirla (ed erano disposti a farlo); per eliminare quelli che le contrastavano il passo».[2]

Seguono le conclusioni:

«Dalla disamina delle dichiarazioni sopra passate in rassegna viene, inequivocabilmente, la conferma dell’affermazione con cui il discorso sui mandanti è partito: prima del luglio 1992 non si parlò mai, in “cosa nostra”, di attentati al patrimonio storico e artistico della Nazione.

Si parlò, invece, di attentati e azioni lesive contro singole persone, in dipendenza, soprattutto, dell’esito del maxi-processo

È questo il dato più saliente da mettere in evidenza. Lo è, soprattutto, per il fatto che questo dato è commisto a una serie di discorsi sulle “strategie” e sulle “intenzioni” di cosa nostra agli inizi degli anni ‘90, che servono a comprendere gli atteggiamenti dei capi dell’associazione verso le novità di quel periodo ed il modo in cui vi reagirono, ma non hanno una rilevanza diretta nel presente procedimento.

Diventano, però, altamente significativi nella misura in cui marcano il distacco tra due modi diversi di pensare e di operare, che sono a monte e a valle degli accadimenti del luglio-agosto 1992.

[…] è fatto notorio che l’Italia non è stata interessata da attentati al patrimonio artistico prima del mese di maggio del 1993; cioè, prima della strage di via dei Georgofili.

[…] Questo dato appartiene alla storia, lontana e recente del nostro Paese, e non ha bisogno di essere giustificato. Ciò che non era scontato, invece, è il fatto che tutti i collaboratori sopra esaminati abbiano concordemente dichiarato di non aver nemmeno sentito parlare, prima del luglio 1992, di attentati siffatti; il che esclude, ovviamente, e a maggior ragione, che una qualche risoluzione sia intervenuta intorno ad essi prima dell’epoca suddetta.

Questo fatto è di grande significato, perché recide alla radice la tesi prospettata da varie parti private, secondo cui le stragi per cui è processo sarebbero collegate teleologicamente o organizzativamente o soggettivamente con quelle di maggio e luglio 1992 (cioè, con la strage di Capaci e quella di via D’Amelio); con la conseguenza che il giudice competente a conoscere di tutte sarebbe quello di Palermo, luogo in cui fu commesso il primo e più grave reato della serie (a Capaci morirono cinque persone).

[…]  perché vi sia attrazione dei procedimenti nel giudice di Palermo (anzi, Caltanisetta, stante la presenza di un magistrato tra le parti offese) occorrerebbe che le stragi del 1992 (Capaci e via D’Amelio) e quelle del 1993-1994 (le stragi per cui è processo) siano state commesse “con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso”.

Occorrerebbe, cioè, facendo applicazione dei normali e collaudati principi in tema di reato continuato, che tutti i reati siano stati commessi in virtù di una deliberazione unica ed in vista di un fine unitario, costituente il cemento delle varie violazioni.

[…] Se queste sono le condizioni per ritenere integrato il reato continuato, occorre dire (salvo quanto si dirà in ordine al “cemento” esistente tra le stragi del 1993-1994) che negli atti del procedimento non vi è nemmeno traccia di una deliberazione unitaria delle violazioni del 1992 e di quelle successive. Inoltre, per quanto si voglia “inspicere”, non si riesce assolutamente a comprendere quale possa essere il fine unitario di reati commessi, nei casi estremi, a distanza di circa due anni, da persone diverse e in luoghi diversi del territorio nazionale (Sicilia e Continente).

[…] La prova, poi, deve essere tanto più rigorosa quanto più distanti sono fra loro, nel tempo, le condotte antigiuridiche.

Nel caso di specie, invece, questa prova è inesistente. Essa è sostituita da un flatus vocis proveniente dal collaboratore Cancemi, secondo cui le stragi di Capaci e via D’Amelio, gli omicidi di Lima e Ignazio Salvo, le stragi di Firenze, Roma e Milano sarebbero parte di un’unica strategia perseguita da Riina (“Per me è tutta una strategia che lui ha messo in campo”). Ora, a parte il fatto che la “strategia” è cosa tutt’affatto diversa dal “medesimo disegno criminoso”, va aggiunto che, per lo stesso Cancemi, lo scopo prioritariamente perseguito da Riina con tutte queste azioni delittuose era l’abrogazione della legge sui collaboratori di giustizia e della legge sul “carcere duro”.

Ma è notorio che la norma sul “carcere duro” (vale a dire, l’art. 41/bis dell’Ordinamento Penitenziario) è stata introdotta con DL 8-6-92, n. 306, conv. dalla legge 7-8-92, n. 356. È stata introdotta, cioè, dopo la strage di Capaci e proprio in reazione ad essa; ha superato lo stato di provvisorietà (con la conversione in legge) solo dopo la strage di via D’Amelio.

È chiaro, quindi, che in questa “strategia” non v’era, né vi poteva essere, l’intendimento di ottenere la soppressione di un istituto giuridico che non esisteva. E non esisteva, in via definitiva, nemmeno all’epoca della strage di via D’Amelio.

Non esisteva, va aggiunto, nemmeno nell’attuazione pratica, giacché i primi detenuti furono sottoposti al regime del 41/bis solo dopo il 19-7-92.

Pertanto, rimanendo alla critica di ciò che dice Cancemi, non solo prima della strage di Capaci, ma nemmeno prima di quella di via D’Amelio v’era materia per ideare un progetto criminoso rivolto alla soppressione del “carcere duro” (sarebbe come dire che “cosa nostra” voleva annullare…una cosa che non c’era).

[…] In verità, come è stato detto da tutti i collaboratori e come è confermato dal precedente dell’Addaura, il dr. Falcone, così come il dr. Borsellino, erano caduti nel mirino della mafia già molto tempo prima del maggio 1992 per la loro continua, instancabile, coraggiosa opera di Magistrati al servizio della nazione. Molto prima, quindi, che venisse fuori qualsiasi normativa di incoraggiamento del “pentitismo”.

Essi furono abbattuti non in vista di un fine determinato (che è indissociabile dal reato continuato), ma per vendetta e per “educare” gli altri.

Sono gli stessi motivi che avevano provocato o provocarono l’assassinio del dr. Terranova, del dr. Chinnici, del colonnello Russo, del capitano Basile, del commissario Montana, del dr. Cassarà, dell’isp. Lizio e di tanti altri coraggiosi servitori dello Stato».

Il secondo passaggio è quello in cui l’estensore prende in rassegna le fonti di prova da cui è derivata la conoscenza che una trattativa effettivamente esistesse, le indica nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia e imputato Giovanni Brusca e dei due diretti interessati Mario Mori e Giuseppe Di Donno e ne espose diffusamente il contenuto.

Segue la valutazione della Corte e la si trascrive integralmente.

«L’esame congiunto di ciò che hanno detto testi e collaboratori dimostra, in maniera indiscutibile, che nella seconda metà del 1992 vi fu un “contatto” tra il ROS dei Carabinieri e i capi di “cosa nostra”, attraverso Vito Ciancimino.

I termini personali e temporali di questo “contatto” sono praticamente certi, essendo stati narrati da due testi qualificati, come il generale Mori e il capitano De Donno.

Essi hanno chiarito che iniziò nel giugno del 1992, dopo la strage di Capaci, e si protrasse fino al 18-10-92, giorno in cui, dovendo “stringere” il discorso, divenne chiaro che i due interlocutori istituzionali non avevano nulla da offrire alla controparte. Continuò poi fino al 19-12-93 nella prospettiva di giungere all’arresto di Riina.

Per comprendere questa vicenda, quindi, non è necessario, se non marginalmente, fare riferimento a ciò che dicono i collaboratori, in quanto nelle parole dei due testi sopra indicati vi è tutto quello che occorre per farsi un’idea dell’accaduto. La lettura di ciò che dice Brusca presenta ugualmente, però, momenti di grande interesse, perché consente di comprendere la visione che, all’interno dell’organizzazione mafiosa, si aveva degli accadimenti di quel periodo.

Va detto poi che questa vicenda è interessante per due aspetti: perché consente di comprendere per quali vie si rafforzò, nei capi mafiosi dell’epoca, il convincimento che la strage fosse pagante; perché consente di valutare un altro aspetto della posizione di Brusca (vale a dire, la sua estrema vicinanza a Riina e la sostanziale veridicità della sua confessione).

Sono questi, perciò, i due aspetti della vicenda che saranno commentati.

Anche in questo caso, quindi, non si cercherà di dare una risposta a tutti gli interrogativi che la vicenda porta con sé, né verranno esaminate approfonditamente tutte le questioni che (comprensibilmente) sono state poste da vari difensori.

Ci si riferisce, in particolare, al dubbio, da più parti avanzato (anche con la richiesta di citazione come testi del Ministro dell’Interno e del Presidente della Repubblica), circa l’effettiva qualità dei soggetti che, dalla parte di qua, condussero la trattativa, e circa l’effettivo sbocco che ebbe la trattativa stessa (interrogativo introdotto pressantemente dalle domande di vari difensori circa il ruolo di Ciancimino nell’arresto di Riina).

Questi aspetti della vicenda portata alla cognizione della Corte sono, come è facile intuire, di enorme valore morale, politico, storico e giuridico, ma non sono in grado di influenzare l’esito di (questo) giudizio.

È fin troppo chiaro, infatti, che non muta in alcuna maniera (né nell’an, né nel quantum) la responsabilità degli odierni imputati il sapere se alle spalle del generale Mori vi fossero ministri, parlamentari, massoni, servizi segreti o quant’altro la mente più sospettosa possa immaginare.

Una eventualità del genere rileverebbe per comprendere chi ha mosso le fila di alcuni accadimenti degli ultimi anni, ma non per comprendere il ruolo di Riina, Bagarella e compagnia nelle stragi del 1993-94.

Ugualmente non potrebbe avere alcun peso sul presente giudizio il sapere se la disponibilità di Ciancimino si concretizzò nel propiziare l’arresto di Riina e se il prezzo pagato dallo Stato fu quello di sostanziali concessioni ai mafiosi.

Questa eventualità fa rabbrividire ogni persona avveduta, ma, ancora una volta, è inidonea a influenzare questo giudizio, che non concerne i contraenti, dalla parte di qua, di questo (ipotetico) contratto illecito, ma coloro che, del contratto, sarebbero stati i beneficiari.

Questi aspetti, va aggiunto, non verranno esplorati non solo perché privi di interesse nel presente giudizio, ma anche perché questa Corte non dispone di sufficienti elementi di valutazione.

Allo stato, infatti, non v’è nulla che faccia supporre come non veritiere le dichiarazioni dei due testi qualificati sopra menzionati, salvo alcuni contraddizioni logiche ravvisabili nel loro racconto (non si comprende, infatti, come sia potuto accadere che lo Stato, “in ginocchio” nel 1992 - secondo le parole del gen. Mori - si sia potuto presentare a “cosa nostra” per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18-10-92, si sia trasformato, dopo pochi giorni, in confidente dei Carabinieri; non si comprende come il gen. Mori e il cap. De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di “Show down”, giunta, a quanto appare logico ritenere, addirittura in ritardo).

Ugualmente senza rilievo (nel presente giudizio) è accertare quali fossero le finalità concrete che mossero un alto ufficiale del ROS a ricercare un contatto con Vito Ciancimino. Se, cioè, la finalità era quella di intavolare una vera e propria “trattativa”, ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all’attività investigativa.

Questa differenza, infatti, interesserà sicuramente chi dovrà esprimere un giudizio sugli uomini del ROS, ma non chi (come questa Corte) dovrà esprimere un giudizio su chi stava dall’altra parte dell’iniziativa.

Quello che conta, invece, è come apparve, all’esterno e oggettivamente, l’iniziativa del ROS, e come la intesero gli uomini di “cosa nostra”. Conseguentemente, quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro.

Sotto questi aspetti vanno dette senz’altro alcune parole non equivoche: l’iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una “trattativa”; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di “trattativa”, “dialogo”, ha espressamente parlato il cap. De Donno (il gen. Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo; costringere il Ciancimino a scoprirsi o per altro) di contattare di vertici di “cosa nostra” per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi).

Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata.

Quanto agli effetti che ebbe sui capi mafiosi soccorrono, assolutamente logiche, tempestive e congruenti, le dichiarazioni di Brusca.

Su questo personaggio si potrà dire, ancora una volta, quello che si vuole, ma il tempo (luglio-agosto 1996) in cui parlò, per la prima volta, di questa vicenda, spazza ogni dubbio sulla assoluta veridicità di quanto ebbe a raccontare.

Allora, infatti, l’esistenza di questa trattativa era sconosciuta a tutti i protagonisti di questo processo; Brusca non poteva “prenderla” da nessuno (lo stesso generale Mori ha dichiarato di averla raccontata al Pubblico Ministero di Firenze nel mese di agosto del 1997).

Eppure, egli ne parlò in termini assolutamente convergenti (e speculari) con quelli introdotti dai due testi di Polizia Giudiziaria sopra esaminati.

Infatti, confrontando il racconto di Brusca e quello di Mori e De Donno balza evidente che parlano della stessa cosa: uomini, tempi, oggetto tornano con assoluta precisione; o almeno, tornano in maniera tale da escludere che testi e collaboratore parlino di cose diverse.

Questo vale, innanzitutto, per gli uomini: i testi hanno espressamente dichiarato che la controparte mafiosa della trattativa erano i “corleonesi”; anzi, direttamente Riina.

Brusca ha confermato che della trattativa gli parlò personalmente Riina.

Vale per i tempi: i testi hanno dichiarato che si mossero dopo la strage di Capaci; il col. Mori entrò in scena dopo la strage di via D’Amelio; la richiesta di accreditamento fu fatta da Ciancimino l’1-10-92; l’interruzione della trattativa avvenne il 18-10-92.

Brusca ha reso dichiarazioni assolutamente speculari, anche se non si è rivelato sempre sicuro sui tempi (non ricorda se Riina gli parlò della trattativa tra la strage di Capaci e via D’Amelio, ovvero successivamente a quest’ultima; ha parlato di un “colpetto” da dare per ravvivare la trattativa verso settembre-ottobre del 1992, che è terribilmente vicino al 18-10-92). Ma le defaillances sui tempi sono, come si è visto in questo processo (e in molti altri ancora), comuni a tutti i testi e collaboratori che non usino annotare nelle agende gli eventi di cui sono spettatori o protagonisti. Questa deficienza della mente umana è talmente nota, collaudata e comprensibile che non può autorizzare alcun giudizio tranciante su nessun dichiarante, qualunque sia la sua veste processuale.

Sta di fatto che, in ciò che ha raccontato Brusca, vi è quanto basta per essere certi del parallelismo tra la vicenda raccontata da lui e quella raccontata dal gen. Mori e dal cap. De Donno.

Vale anche per l’oggetto. I testi non hanno fatto alcun riferimento alle richieste avanzate da “cosa nostra” per porre fine alle stragi; anzi, hanno espressamente escluso di aver mai sentito parlare di “papello”.

Brusca, dal canto suo, ha dichiarato di aver appreso da Riina di richieste condensate in un lungo “papello”.

Personalmente, senza aver ricevuto spiegazioni di sorta, comprese che Riina si riferiva agli istituti giuridici che più angustiavano “cosa nostra” in quel periodo: il 41/bis, la legge sui collaboratori, la riapertura dei processi, ecc.

Non è inutile dire che questa diversità di racconto può avere varie spiegazioni. La prima (e più plausibile) è che Ciancimino si sia astenuto dal fare menzione delle richieste di Riina una volta compreso che il gen. Mori non aveva nulla da offrire. L’altra è che queste richieste non fossero ancora pervenute a Ciancimino e si fossero fermate in mano a Cinà, in attesa di divenire note dopo la verifica della “serietà” della parte istituzionale statale.

Nell’un caso e nell’altro non autorizzano alcuna conclusione negativa su Brusca.

Per converso, v’è da rimarcare come le indicazioni di Brusca siano perfettamente congruenti con quanto detto dai testi circa lo scopo dichiarato del contatto: avviare una trattativa per porre fine alle stragi.

È ovvio che la trattativa presuppone un do ut des: Riina offriva la fine delle stragi per avere soddisfazione sui punti che, come si è visto nei paragrafi precedenti, maggiormente lo angustiavano.

Anche in questo caso la convergenza (solo logica questa volta, ma non meno significativa) tra testi e collaboratore è completa.

Tutto ciò induce allora a ritenere che Brusca dice il vero quando afferma che la richiesta di trattare, formulata da un organismo istituzionale a lui sconosciuto (oggi si sa che erano gli uomini del ROS), indusse Riina a pensare (e a comunicare ai suoi accoliti) che “quelli si erano fatti sotto”. Lo indusse, cioè, a ritenere che le stragi di Capaci e via D’Amelio, da poco avvenute, avevano completamente disarmato gli uomini dello Stato; li avevano convinti dell’invincibilità di “cosa nostra”; li avevano indotti a rinunciare all’idea del “muro contro muro” ed a fare sostanziali concessioni all’organizzazione criminale cui apparteneva.

Nel frattempo, diede il “fermo” alle iniziative in programma (come detto da Brusca e confermato, sia pure alla lontana, da Malvagna).

Questo convincimento rappresenta la conclusione più “ragionevole” dell’iniziativa del ROS, a cui si potrebbe pervenire anche in assenza di collaboratori che ne facciano menzione. Il fatto che sia stato riferito da Brusca illo tempore (cioè, prima che la vicenda divenisse pubblica) costituisce sicuramente un segno sia della bontà del ragionamento, sia della sincerità del collaboratore.

Questo convincimento rappresenta anche il frutto più velenoso dell’iniziativa in commento, che, nonostante le più buone intenzioni con cui fu avviata, ebbe sicuramente un effetto deleterio per le Istituzioni, confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato.

Prova ne sia che, appena i “corleonesi” intravidero difficoltà nella conclusione della trattativa (cioè, nella soddisfazione delle loro pretese) pensarono ad un’altra strage per “stuzzicare” la controparte: uccidere il dr. Grasso e coloro che gli stavano intorno.

Di questo progetto criminale ha parlato, come si è visto, Brusca, il quale ha indicato tempi, modalità e motivazione di questo ennesimo delitto.

La verità di ciò che dice si apprezza già solo considerando i tempi in cui, a suo dire, quest’assassinio doveva essere commesso (ha parlato, infatti, di settembre-ottobre del 1992 come dell’epoca in cui ricevette l’incarico da Biondino; epoca che, come si è visto, è proprio corrispondente a quella in cui, secondo il gen. Mori, avvenne l’interruzione della trattativa).

Ma si apprezza altresì considerando che non è il solo che parla di questo progetto criminale. Anche La Barbera, infatti, sapeva che nel 1992 era in programma quest’attentato e che s’inseriva nel quadro delle azioni volte a dimostrare “chi comanda qua in Italia”.

Ganci Calogero, dal canto suo, sapeva che, qualche mese dopo l’arresto di Riina, Provenzano “voleva mettere una bomba per uccidere il dottor Grasso”. Segno, evidentemente, che il progetto, maturato prima dell’arresto di Riina, aveva attraversato quest’evento per connotare (anche) la stagione di morte del periodo successivo.

Il convincimento che indusse i corleonesi a mettere gli occhi sul dr. Grasso non venne meno, quindi, con l’arresto di Riina, sia perché questi (sebbene impedito nei movimenti) non uscì certamente di scena con l’arresto, sia perché non era un convincimento a lui esclusivo (si è visto che della trattativa, come delle iniziative che dovevano secondarla, sapevano, quantomeno, Brusca e Biondino; nonché, come si vedrà, Bagarella). Quel convincimento, giova sottolineare e specificare, riguardava la bontà di un metodo: il metodo dell’assalto verso chi mancava del cuore per difendersi (per difendere, in realtà, i suoi cittadini e il suo patrimonio).

Esso, unito all’attenzione che, contestualmente, stava maturando verso il patrimonio artistico nazionale, costituirà il presupposto della stagione di fuoco che, di lì a poco, si aprirà. Si deve dire, quindi, che alla fine del 1992 si erano verificate le tre condizioni fondamentali per l’esplosione di violenza dei mesi successivi, giacché metodo ed oggetto, così come le finalità, erano già presenti, con sufficiente precisione, alla mente di coloro che muovevano le fila di “cosa nostra”.

Il disinganno susseguente alla stasi della trattativa e all’arresto di Riina farà da detonatore ad una miscela esplosiva già pronta e confezionata».[3]

Si possono adesso sintetizzare le proposizioni ricavabili dai due passaggi motivazionali appena esposti.

Non esiste alcuna traccia in base alla quale considerare i fatti criminali del 1992 (omicidi di Salvo Lima e Ignazio Salvo, stragi di Capaci e via D’Amelio) come espressione della medesima strategia che caratterizzò gli attentati dell’anno successivo in danno del patrimonio artistico nazionale.

Tanto meno è possibile collegare in alcun modo gli eventi del 1992 alla pretesa di abolire o depotenziare il carcere duro conseguente al regime ex art. 41-bis perché la legge che lo istituì fu introdotta in un periodo successivo.

Non è quindi giuridicamente sostenibile la loro comune attrazione per competenza presso l’autorità giudiziaria palermitana.

È vero, e da loro stessi riconosciuto, che gli ufficiali Mori e Di Donno avvicinarono Vito Ciancimino per aprire un’interlocuzione con lui e ottenerne l’aiuto per l’arresto di Salvatore Riina.

Non ci sono elementi per dubitare della loro versione nella parte in cui i militari escludono di avere concesso alcuna contropartita e non è verosimile che sia stato loro consegnato un elenco scritto, il cosiddetto “papello”, delle pretese di Riina.

È invece conforme a logica ritenere che l’approccio dei due ufficiali ebbe il nefasto effetto di convincere i capi di Cosa nostra che la politica delle stragi era un ottimo strumento di pressione e ricatto verso le istituzioni.

 

2.2.2. I gradi successivi del giudizio

Il 13 febbraio 2001 la Corte d’assise di appello di Firenze[4] definì le impugnazioni contro la decisione di primo grado confermando, fatta eccezione per pochi punti, l’impianto generale accusatorio già avallato dalla Corte di assise.

Seguirono numerosi ricorsi sui quali si pronunciò la prima sezione della Corte di Cassazione con sentenza emessa in esito all’udienza del 6 maggio 2002[5] che confermò anch’essa il medesimo impianto, salvi alcuni annullamenti su questioni marginali e di dettaglio.

Si segnalano due punti di rilievo della decisione di legittimità.

Furono anzitutto respinti i ricorsi che denunciavano l’incompetenza per territorio della magistratura fiorentina essendo stata ritenuta ineccepibile la motivazione usata dalle corti territoriali per trattenere la competenza.

La stessa sorte toccò ai motivi di ricorso motivati sulla presunta esistenza di moventi alternativi delle stragi con l’interessamento di massoneria e servizi “deviati”.

 

[1] La sentenza è reperibile a questo link.

[2] Idem, p. 890 del file in formato PDF.

[3] Idem, pp. 899 ss. file in formato PDF.

[4] La sentenza è reperibile a questo link.

[5] La sentenza è reperibile a questo link.