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L’affiliazione rituale a un’associazione mafiosa non è da sola sufficiente a legittimare la condanna per la condotta partecipativa

Nota a Sezioni unite penali, sentenza n. 36958/2021
USA Monument Valley al tramonto
Ph. Antonio Capodieci / USA Monument Valley al tramonto

1. Quesito rimesso alle Sezioni unite

Con l’ordinanza n. 5071/2021 la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha trasmesso gli atti alle Sezioni unite, ponendo il seguente quesito:

Se la mera affiliazione ad un'associazione a delinquere di stampo mafioso c.d. storica, nella specie 'Ndrangheta, effettuata secondo il rituale previsto dall'associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell'art. 416-bis cod. pen. e della struttura del reato dalla norma previsto”.

 

2. Percorso argomentativo seguito dalle Sezioni unite[1]

2.1. Delimitazione della questione

Nell’opinione delle Sezioni unite la questione sollevata dalla sezione rimettente è strettamente attinente alla definizione della nozione di partecipazione ad un’associazione mafiosa e non riguarda pertanto “nuove forme di militanza associativa o peculiari modalità di interazione cooperativa tra gli associati”.

Due sono quindi i temi da esplorare: il primo, connesso alla tipicità, richiede l’individuazione degli elementi minimi della partecipazione punibile; il secondo, connesso alla dimostrazione probatoria, esige chiarezza sulla determinazione degli elementi sintomatici della partecipazione tra i quali occupa un posto di rilievo l’affiliazione rituale.

 

2.2. I requisiti minimi della riconoscibilità e della punibilità della condotta di partecipazione

L’operazione volta a definire tali requisiti non può che partire dalla nozione delineata dall’art. 416-bis, comma 1, cod. pen. e dalla valorizzazione dei principi di tipicità, materialità e offensività affermati dalla Costituzione e del principio di proporzionalità tra previsione legale di punibilità e pena sancito dall’art. 49, comma 3, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Si osserva quindi che l’individuazione di un’associazione mafiosa, pur dipendendo dall’esistenza di una struttura organizzativa operante in un certo territorio e con una certa distribuzione gerarchica dei ruoli, non può in ogni caso prescindere, a pena del difetto di tipicità, dalle modalità con cui l’associazione stessa si manifesta.

Le modalità e il metodo di cui sono l’attuazione concreta costituiscono l’in sé dell’associazionismo mafioso e riportano necessariamente alla spendita della forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo e dell’assoggettamento e dell’omertà altrui ugualmente prodotti da quel vincolo.

Sta in questo la specificità dell’associazione mafiosa rispetto all’ordinaria associazione a delinquere: mentre l’associato comune si associa allo scopo di commettere delitti, quello mafioso agisce in vista di un fine più ampio e ambizioso che riporta al controllo di un segmento della vita sociale da sfruttare per un arricchimento parassitario.

Nasce da qui la possibilità che taluno aderisca ad un’associazione mafiosa, offrendole uno stabile contributo per tenerla in vita e consolidarla, non per commettere delitti ma per partecipare alla divisione degli illeciti profitti associativi o per godere di vantaggi competitivi altrettanto illeciti in ambiti di mercato economicamente rilevanti.

Mentre dunque l’associazione a delinquere è un reato associativo puro, il suo perfezionamento richiedendo soltanto un’organizzazione idonea alla realizzazione del programma criminoso, l’associazione mafiosa è un reato a struttura mista, essendole necessario quel particolare metodo indicato dal legislatore.

 

2.3. Se il metodo mafioso e la forza di intimidazione che ne costituisce la componente essenziale debbano essere potenziali o attuali

Dopo un’ampia premessa sulle differenti teorie classificatorie che hanno animato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale nel corso del tempo, è stata rilevata l’esistenza di un conflitto tra due contrapposti orientamenti.

Il primo considera l’associazione mafiosa come un delitto di pericolo presunto sul presupposto che la sola esistenza di un organismo criminale di tale natura è sufficiente a mettere in pericolo l’ordine pubblico. È connaturale a questa visione l’attribuzione di una spiccata rilevanza al bene giuridico protetto, tale da giustificare un arretramento della soglia di punibilità che genera a sua  volta una serie di corollari: il perfezionamento della condotta di partecipazione si realizza all’atto dell’adesione all’associazione; la mafiosità di un aggregato criminale esiste fin dal momento in cui esso ha la capacità potenziale di esprimere una forza intimidatrice di cui possano avvalersi gli affiliati nel contatto con terzi; non è necessario di conseguenza che quella forza abbia prodotto assoggettamento e omertà tra i consociati attraverso il compimento concreto di atti intimidatori; il controllo del territorio e delle attività di rilievo economico che vi si svolgono sono una conseguenza solo eventuale dell’azione associativa.

Il secondo orientamento privilegia la tesi di un’associazione che delinque sicché è insufficiente la sua mera potenzialità di delinquere. La sua capacità offensiva ha per ciò stesso un contenuto di danno e non di mero pericolo. Anche questo indirizzo genera dei corollari: la sola adesione all’associazione non basta a realizzare la condotta partecipativa essendo piuttosto richiesti atti e comportamenti concreti che contribuiscano alla vita dell’associazione medesima; un gruppo criminale è mafioso se dispone di una carica intimidatrice reale e riscontrabile tale da piegare la volontà delle vittime; occorre che l’intimidazione sia diffusa, attuale e dimostrabile; la mafiosità deve essere quindi un modo di esprimersi, non già un semplice modo d’essere.

L’inadeguatezza del primo orientamento è svelata dall’espressione contenuta nel secondo comma dell’art. 416-bis cod. pen. per la quale “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo […]”.

Questo periodo rende palese l’intenzione del legislatore di attribuire una dimensione oggettiva al requisito del metodo mafioso la cui esistenza ed il cui uso devono essere riscontrati e provati.

Va di conseguenza confinata nell’irrilevanza la mera intenzione di avvalersene.

La forza di intimidazione, componente primaria di quel metodo, deve pertanto formarsi, esternarsi ed essere percepita, quali che siano i modi della sua manifestazione.

Non è richiesto che sia usata concretamente dai singoli associati poiché è un’espressione e insieme un patrimonio sociale, non  individuale.

Il suo risultato è una paura diffusa che persiste anche in assenza di atti di intimidazione concreti i quali, ove esistenti, servono solo a confermare ciò che è già certo dal momento in cui quella paura, e l’assoggettamento e l’omertà che ne sono gli effetti tipici, sono concretamente percepibili e dimostrabili.

Senza che sia indispensabile la loro estensione all’intera comunità, occorre comunque che questi effetti siano avvertiti da gruppi rilevanti di individui e ne diminuiscano significativamente la capacità di resistere alla pressione intimidatrice dell’associazione di cui sono vittime.

 

2.4. Se l’associazione mafiosa sia un reato di pericolo o di danno

Le puntualizzazioni precedenti, ed in particolar modo l’affermazione della necessità di una capacità intimidatrice reale e riscontrabile oggettivamente, impongono di attribuire all’associazione mafiosa la natura di reato di pericolo concreto nel senso che un gruppo criminale è mafioso solo se possiede la concreta capacità di mettere in pericolo l’ordine pubblico, l'ordine economico e la libertà di partecipazione alla vita politica.

Sarebbe nondimeno sbagliato escludere la dimensione del danno dalla fattispecie incriminatrice in esame poiché, come ricordato da Cass. pen., Sez. VI, n. 9001/2020,  le associazioni mafiose sono strutturate “non sulle “intenzioni” ma su una rete di effettive derivazioni causali”.

 

2.5. Quale nozione di partecipazione all’associazione mafiosa?

Come per i temi precedenti, la definizione della condotta partecipativa ha generato conflitti interpretativi agevolati dalla scarna descrizione normativa – «chiunque fa parte» - che non solo ha delineato un reato a forma libera ma ha anche reso possibili prassi applicative non sempre rispettose dei principi di tipicità e di offensività e “una costante tendenza a declinare la nozione di partecipazione in termini diversi a seconda del compendio probatorio disponibile”.

L’eterogeneità degli indirizzi sui requisiti strutturali della partecipazione ha reso necessari plurimi interventi delle Sezioni unite cui si deve una decisa transizione verso un’impostazione oggettiva.

Abbandonate le prime elaborazioni che avevano affermato la sufficienza della volontà di adesione anche se non esteriorizzata, acquistò sempre più consistenza  il modello causale che implicava “un contributo causale minimo ma non insignificante alla vita della struttura associativa”.

Continuavano tuttavia a mancare parametri che guidassero il giudizio di tipicità della condotta e restavano di conseguenza possibili “interpretazioni estensive tali da attrarre nell'area di operatività della fattispecie l'intera gamma delle condotte in astratto funzionali alla vita dell'associazione”.

Al tempo stesso, la preponderanza attribuita all’efficacia causale della condotta relegava sullo sfondo l’indicazione normativa del “far parte” che, comunque intesa, implicava una compenetrazione nella compagine mafiosa e rendeva incerto il confine tra partecipazione e concorso esterno.

Cominciò quindi a manifestarsi un diverso orientamento (definito organizzatorio), avallato dalle Sezioni unite nella decisione  Demitry[2], il quale attribuiva rilievo alla partecipazione solo in quanto comportasse l’assunzione di un ruolo funzionale al mantenimento in vita dell’associazione: “dal paradigma di una fattispecie monosoggettiva causalmente orientata e priva di ogni tipizzazione della condotta punibile si passa ad un reato-accordo, a carattere bilaterale, che incrimina la stabile compenetrazione del soggetto nella rete dei rapporti di intraneità associativa, con l'assunzione di un ruolo funzionale alla vita dell'organizzazione”.

Fu così possibile identificare con maggiore accuratezza gli indici della partecipazione punibile in questi termini: ingresso nella compagine associativa (senza che fosse necessario a tal fine il rispetto di rituali formali); riconoscimento dell'associato da parte del gruppo e sua accettazione da parte degli associati; assunzione dello status di membro; obblighi di obbedienza, omertà, messa a disposizione per la realizzazioni degli scopi associativi.

Non era per contro richiesto che il partecipe fosse consapevole dell’intero programma criminoso e che avesse conoscenza diretta di tutti gli associati.

Le successive decisioni delle Sezioni unite non si discostarono dalle linee strutturali della sentenza Demitry.

Si deve tuttavia alla decisione Mannino[3] una decisa valorizzazione della “proiezione fattuale dell'inserimento organico nel sodalizio, mediante comportamenti espressivi del ruolo svolto dal soggetto” e l’esclusione di un rilievo autonomo dell’adesione formale all’associazione.

Le Sezioni unite ritennero infatti che la partecipazione non potesse derivarsi da un mero status ma dovesse piuttosto consistere in atti di militanza associativa che, quand’anche non decisivi, fossero comunque idonei, in modo riconoscibile e non puramente teorico, a propiziare il raggiungimento degli scopi criminali del sodalizio.

La sentenza Mannino si premurò inoltre di definire l’elemento soggettivo della condotta partecipativa, qualificandolo come dolo diretto poiché chi partecipa deve volere non solo contribuire causalmente al rafforzamento dell’associazione ma anche realizzare il programma criminoso.

Dedicò la stessa attenzione al tema della prova della condotta, affermando la necessità di derivarla da indicatori fattuali e logici dimostrativi con elevata probabilità della costante permanenza del vincolo associativo.

Si abbandonavano così il paradigma organizzatorio puro e la caratterizzazione statico-formale della condotta e si passava ad una sua dimensione dinamico-funzionale.

Negli anni successivi “Lo sforzo della sentenza "Mannino" di contrastare ogni tentativo di automatismo probatorio non è stato colto appieno da una parte della successiva giurisprudenza che, pur con diverse sfumature, riprendendo le varie teorie classificatorie, approda a conclusioni spesso diametralmente opposte, pur affermando a priori di aderire ai dicta della stessa”.

Si inserisce in questa situazione confusa, in cui gli indicatori dimostrativi della condotta di partecipazione anziché essere correttamente collocati tra gli elementi di prova sono invece erroneamente considerati alla stregua di elementi della tipicità criminosa, la querelle sul principio di sufficienza del giuramento di mafia.

Numerose decisioni, anche piuttosto recenti, che propugnano il cosiddetto modello organizzativo, hanno continuato a valorizzare l’affiliazione rituale nella convinzione che l’adesione dichiarata di un individuo all’associazione ne accresce di per se stessa la capacità operativa potenziale e la temibilità[4].

Altre hanno considerato addirittura irrilevante l’individuazione di ruoli e compiti concreti dell’affiliato, poiché la sua adesione è già dimostrativa di una condivisione di valori e dell’impegno ad operare, ove ve ne sia bisogno, conformemente agli interessi del gruppo di appartenenza[5].

Del resto – si osserva nell’ambito di quest’ultimo indirizzo – l’assunzione della qualifica di “uomo d’onore” conseguente all’affiliazione contiene in sé l’obbligo permanente di agire secondo i fini dell’”onorata società”.

L’affiliazione non è quindi e non può essere considerata come un fatto neutro o blandamente indiziario ai fini della dimostrazione della condotta partecipativa e, se si cedesse a questa suggestione interpretativa, l’associazione mafiosa sarebbe improvvidamente convertita da reato di pericolo presunto a reato di evento e di danno con un conseguente e ingiustificato aggravio di prova a carico dell’accusa che dovrebbe dimostrare il nesso di causalità tra la condotta (partecipazione) e l’evento (rafforzamento dell’associazione).

A questo indirizzo se ne è contrapposto un secondo, fondato sul cosiddetto modello causale, per il quale una mera qualifica cui non si accompagnino attività espressive di un ruolo operativo non può bastare a radicare la condotta di partecipazione, a pena di lesione dei principi di offensività e materialità.

La decisione Pesce[6] è agevolmente identificabile come sentenza-pilota di questa diversa sensibilità che coniuga “il modello organizzatorio/strutturale (o puro) con l'evoluzione funzionalistica, innestandone una caratterizzazione dinamica”.

Si deve ad essa il riconoscimento, ai fini della punibilità dell’agente quale partecipe, della necessità di una doppia verifica dimostrativa: sul piano soggettivo la cosiddetta affectio societatis (da intendersi come consapevolezza e volontà di fare stabilmente parte di un gruppo criminale e condivisione dei suoi scopi e metodi); sul piano oggettivo un ruolo fattivo nutrito di condotte espressive di un inserimento dinamico e concreto nella vita associativa.

In punto di valenza dell’affiliazione rituale, numerose decisioni[7] esprimono la convinzione che l’inserimento rilevante nella compagine associativa non richiede necessariamente particolari riti e formalità e può essere pacificamente desunto da fatti concludenti, cioè condotte che denotino una concreta partecipazione alla vita associativa.

Al tempo stesso, nel medesimo ambito interpretativo si esclude che l’adesione formale, ove esistente e dimostrata, sia da sola sufficiente a dimostrare la partecipazione punibile. Si afferma a tal proposito che l’opzione alternativa porterebbe da un lato a sopravvalutare erroneamente affiliazioni avvenute per mera compiacenza o malinteso rispetto di vincoli parentali, e dall’altro ad utilizzare, altrettanto erroneamente, l’elemento della “comunanza ideologica”, cioè una sorta di comune attrazione verso gli pseudo-valori di cui amano ammantarsi le organizzazioni mafiose, in aperta antinomia con i principi di materialità ed offensività.

Il portato di questa visione è che l’affiliazione rituale è di per se stessa un mero indizio che deve essere affiancato, ai fini del raggiungimento della soglia di punibilità della condotta partecipativa, da altri fatti concludenti dell’operatività dell’affiliato.

Anche questo secondo indirizzo, tuttavia, non ha saputo interamente depurarsi da ambiguità applicative il che è ad esempio avvenuto nei casi in cui è stata ritenuta sufficiente, come dimostrazione della condotta punibile, l’investitura formale di individui i cui compiti istituzionali li rendano appetibili strumenti di potenziamento dell’associazione ed escludano o rendano inverosimile la loro assenza di consapevolezza riguardo ai fini criminali dell’organismo al quale vengono chiamati[8].

È conseguentemente sorto un terzo orientamento cui si deve il varo di un modello intermedio o misto di partecipazione associativa per la cui realizzazione occorrono congiuntamente lo stabile inserimento e la tenuta di comportamenti che diano “un apporto causale anche minimo, ma attivo ed effettivo[9].

Si è tuttavia rilevato che “una simile impostazione si è spesso tradotta, sul versante applicativo, in un mero artificio retorico fondato su logiche presuntive e, assai spesso, in una surrettizia riproposizione del modello organizzatorio puro. Infatti, nell'affermare che il contributo del partecipe può anche consistere nella mera dichiarata adesione all'organizzazione mafiosa dal momento che il soggetto, prestando la propria disponibilità ad agire per la cosca mafiosa, per ciò solo, ne accresce la potenzialità operativa e la capacità di penetrare nel tessuto sociale anche in ragione dell'accresciuto numero dei suoi membri, si finisce per ridurre la partecipazione ad uno status”.

Nessuno dei modelli proposti dal dibattito giurisprudenziale sembra dunque al riparo da critiche.

Serve pertanto un diverso riferimento e lo può individuare nella conclusione cui giunse la sentenza Mannino per la quale è partecipe l’affiliato che prende parte attiva al fenomeno associativo.

La partecipazione non può essere ridotta ad una manifestazione unilaterale di volontà o ad uno status, dovendo piuttosto essere intesa come un’attivazione fattiva a favore dell’associazione.

È in altri termini impensabile punire condotte a titolo di partecipazione senza che siano tradotte in un contributo (materiale o morale) effettivo, concreto e visibile alla vita associativa, il quale può intervenire anche dopo l’ingresso formale nel gruppo criminale.

L’apporto concreto assume così un rilievo centrale e decisivo ma con l’avvertenza che la sua dimensione è quella probatoria. Non bisogna in fatti ripetere l’errore concettuale compiuto in molte decisioni, cioè “quello di includere quali elementi del fatto tipico gli indicatori di intraneità individuati dalla sentenza "Mannino" in via meramente esemplificativa, rilevanti esclusivamente nella dimensione probatoria nel rispetto del principio di legalità formale”.

Lo stabile inserimento di un individuo in una consorteria mafiosa può avvenire sia in modo formale sia, concretamente, con il compimento di attività finalisticamente orientate alla realizzazione degli scopi della stessa.

La seconda alternativa gode di un’indubbia auto-evidenza mentre la prima esige la ricerca di ulteriori elementi che dimostrino la stabilità e la durata nel tempo dell’intraneità e della messa a disposizione[10].

 

2.6. Quale rilievo per l’affiliazione rituale?

Il giuramento di mafia ha un peso dimostrativo di non poco momento[11].

È però possibile che ad esso non segua l’effettiva assunzione di un ruolo coerente e, se così fosse, si finirebbe per incriminare e punire “una mera potenzialità operativa del soggetto, in aperto contrasto con la logica di effettività e proporzione che deve regolare il rapporto tra reato e sanzione” e con ciò dilatare indebitamente il concetto di partecipazione e consegnarlo alla tipologia dell’”autore mafioso”.

Il recupero della necessaria materialità della condotta passa quindi necessariamente attraverso l’acquisizione di dati cognitivi da vivificare probatoriamente alla luce di consolidate massime d’esperienza, da intendersi nel significato di “generalizzazioni empiriche indipendenti dal caso concreto, tratte con procedimento induttivo dall'esperienza comune e fondate su ripetute osservazioni e conoscenze acquisite”.

Del resto, l’intera storia normativa dell’associazione mafiosa è stata costruita ricorrendo a paradigmi esperienziali di matrice essenzialmente giudiziaria, cioè ricavati da processi che, anche attraverso l’essenziale contributo dei collaboratori di giustizia, hanno svelato le dinamiche della fenomenologia mafiosa, a partire dalla tendenziale permanenza nel tempo delle mafie storiche e dalla loro vocazione a obiettivi antisociali.

Sono stati frequenti nella prassi giudiziaria gli esempi di valorizzazione di massime d’esperienza e, sebbene la legittimità del loro uso abbia generato dibattitti e conflitti giurisprudenziali, le tendenze interpretative più recenti hanno ripreso a riconoscergli piena validità, sia pure “con un costante invito al prudente apprezzamento e alla rigida osservanza del dovere di motivazione da parte del giudice: particolare cautela imposta sia dalla presenza di comportamenti di dubbia o equivoca significanza sia dall'assenza di leggi di copertura su cui poggiare il giudizio di rilevanza causale”: un invito e una cautela che sono imposti dall’esistenza di plurime variabili capaci di contraddire o almeno mettere in dubbio il senso ricavabile dalle massime d’esperienza[12].

L’aggravio di complessità interpretativa comportato da ognuna di queste situazioni empiriche rende necessario non solo disporre di dati affidabili circa la correlazione tra affiliato e associazione ma anche storicizzare l’affiliazione nel senso di conoscerne la data d’inizio e la durata.

Lo stesso sforzo deve essere compiuto anche quando l’affiliato abbia ricevuto una “dote” mafiosa[13] poiché il suo possesso, oltre ad essere una questione di fatto il cui significato deve essere determinato dal giudice di merito[14], non equivale necessariamente ad un’indefinita  partecipazione all’associazione, non essendo ammissibili “scorciatoie probatorie che facciano leva su ragionamenti

meramente presuntivi e deduttivi[15].

 

2.7. Quale standard probatorio per la dimostrazione dell’avvenuta filiazione?

Il tema si pone soprattutto riguardo alla valutazione delle dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia che indichino taluno come “uomo d’onore”, senza fornire ulteriori dettagli sui tempi e sui modi dell’affiliazione.

È in questo caso condivisa la tendenza a considerare queste dichiarazioni prive di autonoma gravità indiziaria.

Il panorama è più articolato quanto all’individuazione dei riscontri necessari.

Le Sezioni unite prendono posizione attribuendo il valore di mera notitia criminis alle dichiarazioni di cui si è detto. Ne derivano, conformemente al disposto dell’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., la necessità di acquisire elementi di conferma tali da storicizzare la notizia e definirne i contorni spaziali e temporali e comunque da attribuirle spessore e significato concreto. Questo percorso di verifica sarà regolato da diversi statuti probatori[16].

Su un piano più generale, la condotta di partecipazione deve intendersi provata quando la messa a disposizione emerge in termini di serietà e continuità[17].

Ove questa prova sia raggiunta, la messa a disposizione si configura non solo come effetto dell’ammissione nel gruppo associativo ma anche  come un comportamento oggettivo ed attuale in grado di palesare “il profilo dinamico della partecipazione”.

La correttezza di questa visione trova una significativa conferma nella nozione di partecipazione accolta in ambito euro-unitario dalla Decisione Quadro n. 2008/841/GAI del Consiglio relativa alla lotta contro la criminalità organizzata[18].

 

3. I principi di diritto

A conclusione del percorso argomentativo sintetizzato nei paragrafi precedenti le Sezioni unite hanno enunciato i seguenti principi di diritto:

La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell'agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla "messa a disposizione" del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi”.

Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l'affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti - sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza - alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l'espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un'offerta di contribuzione permanente tra affiliato ed associazione”.

 

4. Il commento

4.1. Premessa

I contrasti giurisprudenziali sono indiscutibilmente la causa prossima dell’intervento delle Sezioni unite ma, a loro volta, dipendono da altre cause più remote ma non per questo meno importanti: assetti normativi confusi o a maglie troppo larghe, insorgenza di fenomeni tali da rendere inadeguata la regolamentazione vigente, emersione di nuove sensibilità interpretative legate a nuove letture della realtà criminale e del suo rapporto con gli individui e l’intera comunità.

L’insieme di queste condizioni è un punto d’arrivo allorché viene cristallizzato, ridotto ad un quesito e consegnato alle Sezioni unite per averne una risposta ma anche un punto di partenza poiché dopo, quando i custodi della nomofilachia avranno parlato, l’analisi riprenderà il suo corso e tanto più sarà estesa e prolungata quanto meno quella risposta sarà ritenuta convincente.

L’evoluzione del dibattito sulla partecipazione ad un’associazione mafiosa ripropone in effetti ognuna di queste dinamiche e lo conferma la minuziosità narrativa della sentenza qui commentata, imposta dalla molteplicità dei focolai di conflitto e degli orientamenti che si sono contesi il campo ma, ancora di più, dalla loro irriducibile capacità di rigenerarsi ciclicamente anche dopo decisioni a sezioni unite che si pensava risolutive.

Prudenza vuole, stando così le cose, che ci si accosti a quest’ultima pronuncia senza cedere alla tentazione di considerarla un punto di non ritorno.

Sono numerosi, comunque sia, gli spunti di interesse che se ne possono trarre.

 

4.2. La preoccupazione per derive interpretative lesive di principi essenziali

Il primo tema, assai evidente, è la necessità avvertita dalle Sezioni unite di stigmatizzare e porre un freno a derive interpretative che contraddicono principi essenziali quali la tipicità, la materialità, l’offensività.

Vari e insolitamente netti passaggi testuali della motivazione confermano quest’impressione.

Può servire qualche esempio concreto.

L’accenno ad una marcata tendenza a intendere la nozione di partecipazione in termini diversi secondo il compendio probatorio disponibile equivale ad affermare, se le parole hanno un senso, che nei giudizi in cui questa tendenza si è manifestata si è ceduto alla tentazione di adattare l’interpretazione ad un risultato – l’affermazione di responsabilità per condotta di partecipazione – determinato prima e a prescindere dall’attività valutativa.

È dello stesso tenore il riferimento all’indebita dilatazione del concetto di partecipazione il cui effetto è la creazione della tipologia dell’”autore mafioso”: è come dire che gli interpreti hanno fatto rientrare a forza nell’area della rilevanza penale condizioni potenziali o meri status riproponendo la deprecabile dottrina per tipo d’autore secondo i cui dettami si è puniti per quel che si è e non per quel che si è fatto.

Va ancora nella medesima direzione la negativa considerazione mostrata dalle Sezioni unite verso il cosiddetto modello intermedio di partecipazione associativa. Si legge in motivazione di artifici retorici fondati su logiche presuntive e di surrettizie riproposizioni del modello organizzatorio puro: non soltanto errori concettuali e metodologici, dunque, ma qualcosa di più e di peggio cioè una determinazione finalisticamente orientata ma al tempo stesso occultata da astuzie retoriche.

Non mancano infine giudizi impietosi su gravi errori sistematici (indici dimostrativi della condotta considerati come elementi della tipicità anziché, come sarebbe stato corretto, come elementi probatori) o sul puro e semplice difetto di comprensione delle reali implicazioni di decisione delle Sezioni unite (automatismi probatori applicati sulla scia della sentenza Mannino che li aveva invece stigmatizzati).

Pare che questa linea di pensiero delle Sezioni unite meriti la massima condivisione.

Non sono poi così lontani gli anni in cui si teorizzava l’insostituibilità del “sapere implicito”, delle “aspettative di senso” e delle “precomprensioni” quali chiavi di lettura del fenomeno mafioso[19].

Quelle stesse chiavi sono state spesso utilizzate in giudizio con l’effetto di oscurare la materialità e l’offensività, elevare a categorie giuridiche l’effimero e l’impalpabile, dare al metagiuridico più valore della realtà, vedere all’opera giudici–sociologi e, sopra ogni cosa, dilatare il significato delle parole del diritto fino a smarrirlo completamente.

Le Sezioni unite sconfessano ognuna di queste tendenze e si può solo condividere con sollievo il loro operato.

 

4.3. Le massime d’esperienza come strumento per l’attribuzione di senso ai dati cognitivi

Come si è visto (paragrafo 2.6), le Sezioni unite hanno individuato nella massime d’esperienza, adottando la metodologia della sentenza Mannino che a sua volta era debitrice della notissima decisione Franzese, lo strumento più efficace per la decrittazione degli elementi conoscitivi disponibili ai fini della valutazione della ricorrenza di una condotta di partecipazione.

Le massime d’esperienza dovrebbero dunque servire, pur all’insegna della massima prudenza valutativa, a guidare la dimostrazione non solo della materialità della condotta ma anche della sua traduzione in un contributo concreto alla vita associativa ed è proprio riguardo a questo secondo aspetto che sorgono problemi consistenti.

Si deve ricordare infatti che la sentenza Mannino fa coincidere l’evento del delitto di associazione mafiosa con la conservazione e il rafforzamento dell’associazione.

Si è osservato in dottrina[20] che entrambe le nozioni “oltre a costituire estrapolazioni concettuali  sprovviste di supporto tipico, sono concetti metaforici privi di un contenuto determinato, evocativi di una realtà complessa a comporre la quale intervengono valutazioni, stime, apprezzamenti insuscettibili di tradursi in una descrizione storicamente definita hic et nunc”.

Non solo: l’uso di massime al posto di inesistenti leggi scientifiche implica criteri di collegamento fondati sul criterio di ciò che normalmente accade sicché non si fa altro che proporre stime probabilistiche tutt’altro che risolutive.

Diventa quindi problematica l’assegnazione di un reale valore causale alle condotte incriminate, non tralasciando peraltro di considerare che eventi naturalistici come il mantenimento in vita della compagine criminale o il suo rafforzamento tendono a sottrarsi a un accertamento fondato sulla causalità materiale[21].

È prevedibile, stando così le cose, che anche quest’ultimo intervento delle Sezioni unite si esporrà alle medesime critiche e, ciò che più conta, non riuscirà a prevenire ulteriori dibattiti e conflitti alimentati da differenti visioni di ciò che può essere considerato massima di esperienza in tema di mafia.

 

4.4. I possibili effetti retroattivi

Le Sezioni unite hanno affermato che l’affiliazione rituale, se non accompagnata da altre evidenze dimostrative di un ruolo concreto e causalmente efficace dell’affiliato, non è sufficiente a giustificarne la condanna a titolo di partecipe.

Occorre comprendere se questa chiara presa di posizione può produrre effetti riguardo alle persone condannate in via definitiva in virtù della visione oggi sconfessata.

Si è in presenza di un overruling favorevole, cioè un mutamento giurisprudenziale favorevole al condannato.

Il tema è stato preso in considerazione da autorevoli giuristi, tanto più alla luce della recente riforma dell'art. 618 cod. proc. pen. apportata dalla L. 103/2017 che ha rafforzato il ruolo nomofilattico delle Sezioni unite[22].

La questione è sicuramente problematica e il pur sintetico panorama di opinioni appena riportato lo dimostra.

Ha di certo a che fare con precetti costituzionali primari e con l'accessibilità e la prevedibilità del precetto normativo (senza che abbia alcun rilievo la sua fonte, che sia legislativa o giurisprudenziale), centrali nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e tali da imporre il divieto di irretroattività sfavorevole e l'obbligo della retroattività favorevole.

Riporta, in ultima analisi, alla coesistenza tra la legalità costituzionale e la legalità convenzionale e al loro miglior punto di equilibrio.

Non resta che attendere.

 

[1] Le espressioni racchiuse tra virgolette alte ed in corsivo sono tratte direttamente dalla sentenza commentata in questo scritto. Le decisioni di legittimità citate nel commento sono state tutte ugualmente citate dalla medesima sentenza.

[2] Sezioni unite, sentenza n. 16/1995.

[3] Sezioni unite, sentenza n. 33748/2005

[4] In tal senso, Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 27394/2017.

[5] Tra le tante, Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 18559/2019.

[6] Cass. pen., Sez. I, sentenza n. 55359/2017.

[7] Si segnala, tra le tante, Cass. pen., Sez. V, sentenza n. 49793/2013.

[8] Si veda, ad esempio, Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 46070/2015.

[9] Ne è un recente esempio Cass. pen., Sez. II, 7177/2021.

[10] Le Sezioni unite offrono un’elencazione degli elementi di maggiore pregnanza dimostrativa, in questi termini testuali: “In tal senso, nell'irrinunciabile recupero di una dimensione probatoria, potranno venire in rilievo, oltre all'accertamento della comprovata mafiosità del gruppo associante, la "qualità" dell'adesione ed il tipo di percorso che l'ha preceduta, la dimostrata affidabilità criminale dell'affiliando, la "serietà" del contesto ambientale in cui la decisione è maturata, il rispetto delle forme rituali anche con riferimento all'accertamento dei "poteri" di chi sceglie, di chi presenta e di chi officia il rito dei nuovi adepti, la tipologia del reciproco impegno preso, la misura della disponibilità pretesa e/o offerta ed ogni altro elemento di fatto che, sulla base di tutte le fonti di prova utilizzabili e di comprovate massime di esperienza, costituisca circostanza concreta, capace di rendere inequivoco e certo il contributo attuale dell'associato a favore della consorteria mafiosa: gli indici rivelatori del fatto punibile devono essere tratti da elementi oggettivi e soggettivi di contesto, capaci di fungere da criterio metodologico di verifica processuale, da calibrare caso per caso, in ragione della situazione concretamente considerata”.

[11] Così, sul punto, le Sezioni unite: “deve ritenersi indubbio che il giuramento di mafia - nel suo formalismo preceduto da liturgie scandite da formule e gesti rituali che conferiscono sacralità alla procedura di iniziazione dei nuovi adepti - assume un rilievo denso di significati probatori proprio in conseguenza del valore drammaticamente vincolante che si origina da quel gesto simbolico”.

[12] Queste le variabili più ricorrenti secondo le Sezioni unite: “Si allude, principalmente, a quei contesti ambientali permeati da compagini primariamente composte da soggetti legati da vincoli di affinità e di parentela, laddove il conferimento formale della qualifica di affiliato conseguente al giuramento di mafia potrebbe assumere un significato equivoco, più coerente ad automatismi sociali e familiari che indice, immediato ed autosufficiente, della effettiva intraneità (Sez. 6, n. 39112 del 20/05/2015) e, come tale, inidoneo a costituire quella base indiziaria su cui "costruire" la valutazione della condotta partecipativa punibile. Così come, al contrario, in presenza di rapporti di parentela tra i presunti partecipanti ad una associazione per delinquere di tipo mafioso, deve escludersi l'idoneità di semplici relazioni di parentela o di affinità a costituire, di per sé, prova od anche soltanto indizio dell'appartenenza di taluno all'associazione (Sez. 2, n. 19177 del 15/03/2013, nella quale, tuttavia, si precisa che, ai fini dell'adozione di misure cautelari, una volta accertata, da un lato, la probabile esistenza di un'organizzazione delinquenziale a base familiare e, dall'altro, una non occasionale attività criminosa di singoli esponenti della stessa famiglia - intesa in senso lato - alla quale fa capo l'organizzazione stessa, nel medesimo campo nel quale questa opera, può essere considerato come non privo di valore indiziante, in ordine alla partecipazione dei suindicati soggetti al sodalizio criminoso, anche il fatto che vi siano legami di parentela o affinità fra essi e coloro che in quel sodalizio occupano posizioni di vertice o, comunque, di rilievo)”.

[13] Con questa espressione si intende il conferimento ad un affiliato di particolari gradi o qualifiche nell’organigramma di una cosca o di una federazione di cosche.

[14] Cass. pen., Sez. I, 35775/2020.

[15] Cass. pen., Sez. VI, 16543/2021.

[16] La scelta di quello più adeguato avverrà, secondo le Sezioni unite, “a seconda che il dichiarante riferisca quanto appreso da altri oppure riveli quanto accaduto in sua presenza perché: a) ha preso parte alla cerimonia; b) il soggetto gli è stato presentato come "uomo d'onore"; c) è entrato in contatto con soggetto che si è rapportato a lui come "uomo d'onore"”.

[17] Occorrono a tal fine, secondo le Sezioni unite, “comportamenti di fatto - precedenti e/o successivi al rituale di affiliazione - non necessariamente attuativi delle finalità criminali dell'associazione, ma tuttavia capaci di dimostrare in concreto l'adesione libera e volontaria a quella consapevole scelta e di rivelare una reciproca vocazione di "irrevocabilità" (intesa, nel senso di una stabile e duratura relazione, potenzialmente permanente), testimoniandosi in fatto e non solo nelle intenzioni il rapporto organico tra singolo e struttura”.

[18] Il riferimento va inteso all’art. 2 della Decisione laddove si precisa la condotta di partecipazione come «il comportamento di una persona che [...] partecipi attivamente alle attività criminali dell'organizzazione, ivi compresi la

fornitura di informazioni o mezzi materiali, il reclutamento di nuovi membri, nonché qualsiasi forma di finanziamento delle sue attività, essendo consapevole che la sua partecipazione contribuirà alla realizzazione delle attività criminali di tale organizzazione».

[19] È il pensiero, certo non isolato, di A. Balsamo e S. Recchione, Mafie al Nord. L'interpretazione dell'art. 416 bis c.p. e l'efficacia degli strumenti di contrasto, in Diritto Penale Contemporaneo, 18 ottobre 2013. Così si esprimono gli Autori: «Se in passato il ruolo del “sapere implicito” nella produzione della conoscenza era stato trascurato dalla filosofia e dalle scienze sociali, da diversi decenni si è assistito ad una netta inversione di tendenza in tutti gli ambiti disciplinari, dove emerge una forte attenzione al processo circolare che viene a svilupparsi tra i presupposti cognitivi e le pratiche interpretative. Sul piano giuridico, le moderne teorie dell'interpretazione hanno posto in luce il ruolo essenziale ed insostituibile della pre-comprensione, intesa come anticipazione di significati, come condizione di conoscenza positiva, anche se provvisoria, del problema in gioco. Si tratta, infatti, di quel pre-requisito del procedimento di soluzione di casi giuridici che precede ogni interpretazione delle norme ed ogni valutazione del materiale probatorio. In una approfondita analisi del cambiamento culturale sotteso alla lotta contro il crimine nelle società attuali, si è persuasivamente osservato come le conoscenze della realtà che sono oggetto del procedimento penale siano «sempre mediate da precomprensioni, da aspettative di senso che stanno alla base della nostra percezione, che non possiamo semplicemente scrollarci di dosso, ma su cui possiamo solo riflettere, divenendone consapevoli […] la “fissità” del diritto non è più un elemento portante degli attuali sistemi giuridici, nei quali l'interpretazione giudiziale assume sempre più un carattere bipolare, come ricerca della norma adeguata tanto alla ratio del caso concreto quanto alla volontà dell'ordinamento, e richiede quindi una profonda consapevolezza del senso, della logica sociale e del valore dei fenomeni verso cui è indirizzato l'intervento legislativo […] Che la lettera della norma possa legittimare l’interpretazione che richieda non solo la prova dell’esistenza di una organizzazione “tipicamente” mafiosa, ma anche la produzione degli effetti tipici che (di regola) scaturiscono dal contatto tra il consorzio criminale e la società civile è indubbio. Portare alle estreme conseguenze tale percorso logico-interpretativo, tuttavia, significa rischiare di legittimare la proliferazione di organizzazioni strutturate, ma silenti: non ancora attive ma capaci di inquinare pesantemente mercati, politica e dinamiche sociali […] Non vi è chi non veda come sia ingestibile una interpretazione che crei una (sottile e critica) dipendenza tra consumazione del reato e prova degli effetti “psicologici” da impatto intimidatorio. L’esito soggettivo del contatto con le mafie è infatti imprevedibile e legato a variabili mutevoli in relazione alle caratteristiche soggettive, culturali e sociali delle persone che entrano in contatto con l’organizzazione».

[20] T. Padovani, Note sul cd. concorso esterno, in Archivio Penale, 2012, n. 2.

[21] I. Giugni, Il problema della causalità nel concorso esterno, in Diritto Penale Contemporaneo, 10/2017.

[22] Si rinvia anzitutto a G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione Giustizia, fascicolo 4/2018, Una giustizia (im)prevedibile? L’obbligo della comunicazione. Secondo l’Autore ulteriori problemi derivano anche dai mutamenti di giurisprudenza pro reo, in particolare sulla attitudine degli overruling favorevoli ad avere effetti sul giudi­cato di condanna. Il tema è complesso, in quanto coinvolge il di­battito sulla natura della giurisprudenza quale fonte creatrice del diritto e sul rapporto concorrenziale tra legge e decisione giudiziaria, sicché in questa sede può solo essere accennato, limitandosi a dare conto di come la Corte di cassazione penale lo stia affron­tando. Nel 2010 le sezioni unite [l'Autore si riferisce a Sezioni unite penali, sentenza n. 18288/2010, Beschi – nda] hanno ritenuto, tra l’altro, che la svolta giurisprudenziale autorevole, a situazione di fatto invariata, costituisce ius novum sostanzialmente equiparabile a una modifica legisla­tiva. Si è trattato di una decisione particolarmente innovativa, che ha posto a base del suo ragionamen­to la necessità di garantire il rispetto dei diritti fon­damentali della persona, in linea con i principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il cui ar­ticolo 7, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, include nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di deriva­zione giurisprudenziale. Nello stesso periodo, le sezioni unite civili si sono assestate su posizioni di maggior cautela, in quanto, pur riconoscendo effetti processuali all’overruling, si sono basate sulla natura dichiarativa del precedente giudiziario, di cui non hanno riconosciuto la dimen­sione creativa. Tuttavia, lo slancio in avanti delle sezioni unite penali ha subito, nel 2010, una battuta di arresto a seguito dell’intervento della Corte costituzionale che, con la decisione n. 230 del 2012, ha perentoriamen­te escluso ogni possibilità di accostamento tra legge e giurisprudenza e, richiamandosi agli articoli 25 e 101 Cost., ha negato che il diritto vivente abbia una funzione equiparabile a quella della legge”.

Si rinvia ulteriormente a G. Amarelli, Legalità costituzionale, legalità convenzionale e diritto giurisprudenziale, in Criminal Justice Network, 16 novembre 2018. L’Autore, pur nella consapevolezza dello sbarramento creato dalla Consulta con la sentenza 230/2012, ritiene possibili se non addirittura doverose maggiori aperture: “il principio di retroattività della lex mitior deve estendersi al mutamento interpretativo favorevole unicamente quando questo sia intervenuto con una decisione delle Sezioni unite, vale a dire con un provvedimento giudiziario che abbia proprio la funzione nomofilattica di chiarire quale sia la lettura corretta di una fattispecie incriminatrice. Non ogni sentenza che si discosti da un’altra di segno antagonistico sfavorevole può determinare effetti rilevanti quale la retroazione favorevole; ma solo quella adottata dalla Cassazione nella sua più autorevole composizione, dal momento che esprime una mutata e stabile percezione del disvalore del fatto commesso tale da rendere irragionevole e discriminatoria la prosecuzione anche dell’esecuzione delle pene già inflitte: come possono dirsi rispettati i principi della funzione rieducativa e della proporzionalità della pena di cui agli artt. 27, co. 3, e 3 Cost. nei confronti di quel reo che continui ad espiare la pena inflittagli per un comportamento divenuto successivamente lecito secondo il massimo organo nomofilattico?».