x

x

Art. 192 - Valutazione della prova

1. Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati.

2. L’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti.

3. Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’articolo 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità.

4. La disposizione del comma 3 si applica anche alle dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall’articolo 371 comma 2 lettera b).

Rassegna giurisprudenziale

Valutazione della prova (art. 192)

Prova diretta

In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello sia che riformi la decisione di condanna di primo grado, sia che riformi una decisione assolutoria, ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato.

Si è, infatti, osservato che, in tali fattispecie, la motivazione della sentenza di appello si caratterizza per un obbligo peculiare e “rafforzato” di tenuta logico-argomentativa, che si aggiunge a quello generale della non apparenza, non manifesta illogicità e non contraddittorietà, dovendo il giudice di appello non solo indicare l’iter logico argomentativo posto a sostegno del proprio alternativo ragionamento probatorio, ma anche di confutare specificamente i più rilevanti argomenti contenuti nella motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, non potendosi limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perché ritenuta preferibile a quella del primo giudice (Sez. 2, 30369/2018).

Le dichiarazioni a contenuto accusatorio captate ai sensi degli artt. 266 e segg. c.p.p. non sono equiparabili alla chiamata in correità, anche quando ai dialoghi di interesse non abbia partecipato il soggetto nei cui confronti sono utilizzate, sicché esse costituiscono fonte di prova diretta soggetta al generale criterio valutativo del libero convincimento razionalmente motivato, previsto dall'art. 192 co. 1 c.p.p. La loro valutazione non è, quindi, soggetta ai canoni di cui al comma 3 del medesimo articolo e non vi è necessità di reperire riscontri esterni ma il contenuto di ogni conversazione deve essere attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio richiedendo la loro utilizzazione in chiave accusatoria non solo che i fatti e le circostanze oggetto di commento siano chiari e che gli interlocutori ne parlino seriamente senza avere ragioni plausibili di riferire il falso (Nel caso in verifica, secondo la Corte l'assenza di riscontri è efficacemente compensata, sul piano della credibilità intrinseca ed estrinseca, come rilevato dal Tribunale, dalla particolare confidenza esistente tra gli interlocutori, legati da vincoli familiari e privi di qualunque interesse a riferire circostanze false o a pendere impegni con la riserva mentale di non mantenerli) (Sez. 1, 45226/2021).

Gli elementi di prova raccolti nel corso delle intercettazioni di conversazioni alle quali non abbia partecipato l’imputato, costituiscono fonte di prova diretta soggetta al generale criterio valutativo del libero convincimento razionalmente motivato, previsto dall’art. 192, comma 1, senza che sia necessario reperire dati di riscontro esterno; qualora, tuttavia, tali elementi abbiano natura indiziaria, essi dovranno possedere i requisiti di gravità, precisione e concordanza in conformità del disposto dell’art. 192 comma 2  (Sez. Sez. 2. 34227/2018).

 

Prova indiziaria

Per indizio s’intende “un fatto certo dal quale, per inferenza logica basata su regole di esperienza consolidate e affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare, secondo lo schema del cd. sillogismo giudiziario, ossia un elemento conoscitivo che, senza poter rappresentare in via diretta il fatto da provare, è dotato di un’autonoma capacità rappresentativa, riguardante una o più circostanze diverse, ma collegate sul piano logico con quella da dimostrareSe dall’indizio è deducibile un’unica conseguenza, esso costituisce una prova logica compiuta ed in sè sufficiente), nel senso che presenta una correlazione obbligata tra fatto ignoto e quello noto, al quale, sulla base delle leggi scientifiche, il primo è legato in modo certo ed inevitabile. Solitamente l’indizio è però significativo di una pluralità di fatti non noti, presentando “un livello di gravità e precisione, che è direttamente proporzionale alla forza di necessità logica con la quale l’indizio porta verso il fatto da dimostrare, e inversamente proporzionale alla molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di esperienza”. Tale relativa ambiguità ed inefficienza probatoria diretta dà conto della ragione per la quale il sistema processuale impone un particolare rigore valutativo degli indizi secondo la regola dettata dall’art. 192 comma 2, di cui pretende gravità, precisione e concordanzaLa riflessione esegetica condotta dalla giurisprudenza di legittimità è ormai pervenuta ad esiti consolidati nel ravvisare la corretta applicazione del parametro legale di apprezzamento della prova indiziaria in quanto il fatto assumibile come indizio deve presentare carattere di certezza, intesa, non in senso assoluto e naturalistico, ma quale portato della verifica processualmente conducibile alla stregua delle fonti di prova acquisite. È dunque preteso che la prova critica non sia affidata ad un fatto verosimilmente accaduto, supposto o intuito sulla scorta di opinabili congetture o di elaborazioni del decidente, dovendo ricevere riscontro nelle evidenze probatorie del processo. Per gravità s’intende poi l’intrinseca capacità dimostrativa rispetto al “thema probandum”, ossia la probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto, mentre precisione significa specificità, univocità ed impossibilità di diversa interpretazione, altrettanto o più verosimile e concordanza, requisito proprio della pluralità di indizi, indica convergenza, concordanza e non contraddittorietà di significato in modo tale che, grazie al reciproco collegamento ed alla simultanea direzione verso lo stesso risultato, il loro insieme assume l’efficacia dimostrativa della prova. L’art. 192 comma 2 impone anche un vincolo di metodo operativo per il corretto utilizzo della prova indiziaria, nel senso che, poiché l’indizio in sé considerato può essere indicativo di una pluralità di fatti non noti, incluso quello da dimostrare, il relativo apprezzamento postula una preventiva valutazione per individuarne “la valenza qualitativa individuale e il grado di inferenza derivante dalla loro gravità e precisione” sulla base di affidabili regole di esperienza e di criteri logici e scientifici; quindi, è necessario approdare al passaggio successivo, ossia alla considerazione unitaria e complessiva, che ne evidenzi “i collegamenti e la confluenza in un medesimo, univoco e pregnante contesto dimostrativo” e chiarisca eventuali profili di ambiguità, presentati da ciascuno di essi in sè considerato, in modo da consentire l’attribuzione del fatto illecito all’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” anche in assenza di una prova diretta di reità, non essendo sufficiente dal punto di vista metodologico proporne una lettura in termini di mera sommatoria, né, all’opposto, un’analisi atomistica che prescinda dal loro raffronto e dalla considerazione unitaria. È poi illuminante anche l’avvertenza che nel descritto percorso per l’impiego della prova critica dalla considerazione del singolo dato informativo, saggiato nella sua persuasività, ad una ricostruzione organica dei dati raccolti, il giudizio di gravità può differire per ciascuno di essi ed influenzarne la valutazione complessiva: la pluralità, che consente di ravvisarne la concordanza, e la gravità sono requisiti tra loro collegati e si completano a vicenda, nel senso che, in presenza di indizi poco significativi, può assumere rilievo l’elevato numero degli stessi, quando essi consentano una sola comune ricostruzione, mentre, all’opposto, in presenza di indizi particolarmente gravi, può essere sufficiente un loro numero ridotto per il raggiungimento della prova del fatto. Nell’impiego della prova indiziaria è dunque richiesta al giudice la conduzione di un ragionamento probatorio che attraverso l’utilizzo di regole di esperienza,  tratte dalla osservazione ripetuta del normale svolgimento delle vicende naturali e di quelle umane in presenza di determinate condizioni e dalla logica, che orienta i percorsi mentali della razionalità umana, oppure di leggi scientifiche di valenza universale o di ricorrenza statistica  deve procedere, fornendone adeguata giustificazione, alla verifica, dapprima della validità delle regole o delle leggi utilizzate, quindi della correttezza e consequenzialità logica del risultato ottenuto per proporre una ricostruzione del fatto di reato “in termini di certezza tali da escludere la prospettabilità di ogni altra ragionevole soluzione, ma non anche di escludere la più astratta e remota delle possibilità che, in contrasto con ogni e qualsivoglia verosimiglianza ed in conseguenza di un ipotetico, inusitato combinarsi di imprevisti e imprevedibili fattori, la realtà delle cose sia stata diversa da quella ricostruita in base agli indizi disponibili”. Tale operazione deve essere guidata dalla regola, ora positivizzata dall’art. 533 comma 1, che impone di pronunciare sentenza di condanna solo se la colpevolezza dell’imputato emerga al di là di ogni ragionevole dubbio, criterio generale per il riscontro della consistenza logica e della valenza dimostrativa del discorso probatorio esposto nella sentenza impugnata. Tale canone orientativo, pur non autorizzando il recepimento di spiegazioni alternative del medesimo fatto segnalate dalla difesa, impone che tale duplicità abbia costituito oggetto di puntuale e attenta disamina da parte del giudice d’appello e che l’esistenza di una ragionevole perplessità sulla ricostruzione alternativa, riguardante tanto la causale, che gli autori dell’azione criminosa, sia stata esclusa all’esito di un percorso delibativo, condotto mediante un serrato confronto dialettico con le emergenze processuali; per convalidare sul piano logico il giudizio di colpevolezza, è dunque necessario che i dati probatori acquisiti siano tali da lasciare fuori solo eventualità remote, la cui effettiva realizzazione nella fattispecie concreta sia priva del benché minimo riscontro nelle risultanze processuali. Va completato il quadro degli orientamenti giurisprudenziali sulla prova indiziaria, richiamando la natura del sindacato conducibile da parte della Suprema Corte sulla correttezza del procedimento indiziario, che, senza potersi occupare della gravità, della precisione e della concordanza in sé degli indizi, la cui verifica diretta comporterebbe sconfinamenti indebiti nella ricostruzione del fatto di reato, compito esclusivo del giudice di merito, deve riguardare l’articolazione logica e giuridica della motivazione della relativa sentenza per poterne verificare la corretta applicazione dei criteri legali dettati dall’art. 192 comma 2, delle regole della logica e del principio di non contraddizione, nonché la compiutezza e coerenza argomentativa nella considerazione della valenza dimostrativa dei risultati probatori. Pur nel rispetto del principio che vuole la Corte di cassazione giudice deputato a verificare “la ritualità del procedimento probatorio e non del suo risultato” ed afferma che “il controllo della Corte di cassazione sui vizi di motivazione della sentenza di merito, sotto il profilo della manifesta illogicità, non può estendersi al sindacato sulla scelta delle massime di esperienza delle quali il giudice abbia fatto uso nella ricostruzione del fatto”, ciò nonostante, la doglianza di illogicità può essere accolta quando il ragionamento, che esplicita il libero convincimento del giudice, non si fondi realmente su una massima di esperienza. Quando esso non si basi su un giudizio ipotetico a contenuto generale, indipendente dal caso concreto, ricavato da ripetute esperienze, autonomo da esse e valevole per altri casi, quindi già verificato empiricamente, ma su una congettura o sull’intuizione, intesa quale possibilità astratta, non fondata sull’id quod plerumque accidit, priva di riscontro nella realtà e di plausibilità, oggetto di personale elaborazione del giudicante, allora vi è spazio per ammettere il sindacato sulla logicità motivazionale (Sez. 1, 29832/2018). 

In tema di prova, gli “indizi”, suscettibili di valutazione ai sensi dell’art. 192, comma 2, sono elementi di fatto noti dai quali desumere, in via inferenziale, il fatto ignoto da provare sulla base di regole scientifiche ovvero di massime di esperienza, mentre il “sospetto” si identifica con la congettura, un fenomeno soggettivo di ipotesi con prove da ricercare, ovvero con l’indizio debole o equivoco, tale da assecondare distinte, alternative - ed anche contrapposte - ipotesi nella spiegazione dei fatti oggetto di prova (Sez. 5, 28599/2020).

La previsione di cui all’art. 192 ha inteso ribadire in pieno il principio del libero convincimento, che, nel respingere l’esistenza di prove con valore legale predeterminato, rimane il cardine cui riferire il processo valutativo dei dati probatori, ancorandolo soltanto alla necessità di indicazione specifica “dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”, al fine di evitare che lo stesso trasmodi in uso arbitrario. Nella prospettiva individuata dal legislatore, il giudizio probatorio non si può limitare ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli elementi acquisiti al processo, né procedere ad una mera sommatoria qualitativa di questi ultimi ma deve, preliminarmente, valutare i singoli dati dimostrativi per verificarne l’affidabilità e l’intrinseca valenza persuasiva e, successivamente, procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” e cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano comunque rimaste prive di adeguato riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Sez. 5, 53222/2018).

La prova di natura indiziaria o critica non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta o storica, quando la sua attitudine rappresentativa sia conseguita con rigorosità metodologica, che giustifica e sostanzia il principio del c.d. libero convincimento del giudice. Detta prova è regolata dall’art. 192 comma 2, alla cui stregua l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti. L’indizio è un fatto certo dal quale, per inferenza logica basata su regole di esperienza consolidate e affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare, secondo lo schema del c.d. sillogismo giudiziario. Gli indizi devono essere prima vagliati singolarmente verificandone la valenza qualitativa individuale e il grado di inferenza derivante dalla loro gravità e precisione, per poi essere esaminati in una prospettiva globale e unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo, univoco e pregnante contesto dimostrativo (Sez. 5, 34482/2018).

Nel processo penale indiziario, il giudice di merito deve compiere una duplice operazione, atteso che, dapprima, gli è fatto obbligo di procedere alla valutazione dell'elemento indiziario singolarmente considerato, per stabilire se presenti o meno il requisito della precisione e per vagliarne l'attitudine dimostrativa; successivamente, occorre procedere a un esame complessivo degli elementi indiziari acquisiti allo scopo di appurare se i margini di ambiguità, correlati a ciascuno di essi, possano essere superati in una visione unitaria, in modo da consentire l'attribuzione del fatto illecito all'imputato, pur in assenza di una prova diretta di reità, sulla base di un complesso di dati, che saldandosi logicamente, conducano necessariamente a un giudizio di colpevolezza come esito inevitabile, nel rispetto del canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio (la Corte ha escluso che, nel caso di specie, fosse possibile disapplicare il noto principio vigente in tema di valutazione della prova indiziaria secondo il quale il giudice di merito non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve, preliminarmente, valutare i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza [...] e l'intrinseca valenza dimostrativa [...] e, successivamente, procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all'imputato "al di là di ogni ragionevole dubbio", cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana) (Sez. 1, 38928/2021).

Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione dell’illecito, assumendo il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa (Sez. 3, 32497/2018).

L'elemento di prova costituito della presenza di un telefono in una determinata cella dimostra, solo ed esclusivamente, che l'utilizzatore di quel telefono si trova in un data zona: per altro anche piuttosto grande, perché le celle telefoniche non identificano un luogo preciso ma una zona di copertura della rete telefonica di grandezza variabile. La presenza del possessore di un telefono cellulare in una data zona, più o meno ampia rispetto alla grandezza della cella, può essere qualificato quale indizio, ma di per sé non dimostra nulla, anche se l'utenza è precisamente attribuita ad una determinata persona: per avere una valenza probatoria, tale da poter portare ad una sentenza di condanna, occorrono altri indizi, ugualmente gravi e precisi, ed infine tutti concordanti, che possano consentire di affermare che il possessore dell'utenza ha commesso il reato (Sez. 3, 36380/2019).

Massime d'esperienza

È affetta da vizio di motivazione la decisione del giudice di merito che, fondandosi apparentemente su una massima di esperienza, valorizzi in realtà un mero convincimento soggettivo non acquisito al comune sentire (Sez. 4, 9699/2022).

Dichiarazioni del testimone

Non è possibile ricorrere alla valutazione frazionata delle dichiarazioni della persona offesa e, più in generale, del testimone quando le stesse siano riferibili ad un unico episodio avvenuto in un unico contesto temporale, in quanto il giudizio di inattendibilità su alcune circostanze inficia, in tale ipotesi, la credibilità delle altre parti del racconto, essendo sempre e necessariamente ravvisabile un’interferenza fattuale e logica tra le parti del narrato (Sez. 2, 16385/2021).

Dichiarazioni del coimputato o dell’imputato in procedimento connesso o collegato

Anche gli elementi di prova raccolti nel corso delle intercettazioni di conversazioni alle quali non abbia partecipato l’imputato (o l’indagato) costituiscono fonte di prova diretta, soggetta al generale criterio valutativo del libero convincimento, razionalmente motivato, previsto dall’art. 192 co. 1 c.p.p., senza che sia necessario reperire dati di riscontro esterno, ai sensi dell’art. 192 comma 3, fermo restando che, qualora però tali elementi abbiano natura intrinsecamente indiziaria, essi dovranno possedere i requisiti di gravità, precisione e concordanza in conformità del disposto dell’art. 192 comma 2. In tale prospettiva, le conversazioni intercorse tra l’imputato (o l’indagato) e altri soggetti intranei all’associazione mafiosa inconsapevoli della captazione in corso, non sono assimilabili a dichiarazioni de relato, assumendo valore di prova diretta, in quanto i loro contenuti sono frutto di un patrimonio condiviso, derivante dalla circolazione, all’interno del sodalizio, di informazioni e notizie relative a fatti di interesse comune degli associati (Sez. 1, 821/2021).

Ai fini della corretta valutazione della chiamata in reità o correità, la metodologia a cui il giudice di merito deve conformarsi non può che essere quella trifasica, fondata sulla valutazione della credibilità del dichiarante, desunta dalla sua personalità, dalle sue condizioni socio-economiche e familiari, dal suo passato, dai rapporti con l'accusato, dalla genesi remota e prossima delle ragioni che lo hanno indotto all'accusa nei confronti del chiamato, dalla valutazione dell'attendibilità intrinseca della chiamata effettuata dal propalante, fondata sui criteri della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; dalla verifica esterna dell'attendibilità della dichiarazione accusatoria, effettuata attraverso l'esame di elementi estrinseci di riscontro alla stessa chiamata, idonei ad attestarne la veridicità ma tale sequenza non deve svilupparsi rigidamente - essendo espressione di un giudizio unitario, omogeneo e non frazionabile sulle propalazioni di volta in volta esaminate - nel senso che il percorso valutativo dei vari passaggi non deve muoversi lungo linee separate, in quanto la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo racconto, influenzandosi reciprocamente, al pari di quanto accade per ogni altra fonte di prova di natura dichiarativa, deve essere valutata unitariamente, conformemente ai criteri epistemologici generali e non prevedendo, per converso, la disposizione dell'art. 192 comma 3, alcuna specifica deroga (Sez. 1, 9902/2021).

Le dichiarazioni di persone indagate nello stesso o in procedimento connesso devono essere valutate in ordine alla credibilità soggettiva del dichiarante e alla oggettiva attendibilità del contenuto dichiarativo. I riscontri, richiesti dall’art. 192, comma 3, possono essere costituiti da qualsiasi elemento di prova, anche meramente indiziario purchè autonomo rispetto alla fonte dichiarativa principale e avente carattere individualizzante, relativo, cioè, al soggetto accusato e al fatto di reato attribuito. Con particolare riferimento al concorso di più chiamate in correità o in reità, è stato precisato che è ben possibile che esse si diano riscontro reciproco, purchè, all’esito positivo della verifica circa la credibilità soggettiva e oggettiva di ciascuno contributo dichiarativo, risulti la reciproca autonomia delle fonti informative e il contenuto cd. individualizzante di ciascuna chiamata. Con particolare riferimento al caso di chiamate de relato, è necessario considerare, in ordine alla valutazione di credibilità intrinseca, anche i rapporti fra il dichiarante e la sua fonte informativa e, ai fini della verifica di autonomia reciproca, l’originaria fonte informativa di ciascun dichiarante. Infine, quanto al metodo valutativo da seguire, la valutazione di credibilità intrinseca, sotto i due profili della soggettiva credibilità e della attendibilità oggettiva, deve essere complessiva, ed è preliminare e distinta da quella concernente i riscontri esterni, richiesti dall’art. 192, sebbene gli elementi considerati come riscontri possano anche essere valorizzati nel giudizio sulla oggettiva credibilità della dichiarazione. Nella valutazione da ultimo menzionata l’oggetto del giudizio sono i fatti storici dichiarati, di cui si considera, alla luce di tutte le emergenze disponibili, la verosimiglianza, mentre i riscontri, richiesti dall’art. 192, comma 3, devono riguardare l’accusa formulata, e non i singoli fatti storici riferiti dal dichiarante principale (Sez. 1, 32616/2018).

La chiamata di correo è una prova che non si trova sottoordinata in una immaginaria piramide, fino al punto che  come talvolta si pretende  sarebbe apprezzabile solo nei casi in cui si affianchi ad una prova diversa e da sola sufficiente. Si deve aggiungere, con chiarezza, che gli “altri elementi” utili per confermarne l’attendibilità sono ugualmente sottratti all’inesistente gerarchia, e dunque possono consistere in una qualunque fonte di conoscenza, alla sola condizione che il loro valore confermativo sussista veramenteCosì, perfino una chiamata di correo o una dichiarazione eteroaccusatoria de relato possono essere riscontrate da una fonte narrativa del medesimo genere, sia pure a condizione dell’utilizzo di parametri proporzionati all’entità dei “rischi” connaturati alla situazione. Allo stesso modo, non è necessario che l’elemento di riscontro sia rappresentato da una prova diretta o storica, ben potendo accadere, sempre con le cautele del caso, che la conferma sia ottenuta per il mezzo della prova logica. La garanzia di efficacia della funzione confermativa dell’elemento di riscontro richiede ulteriori presupposti. Oggetto della prova sono i fatti che si riferiscono all’imputazione (art. 187 comma 1). Ciò non vuoi dire che siano ammissibili e valutabili solo prove concernenti gli elementi essenziali della fattispecie contestata (la condotta, l’evento, la causalità, l’elemento soggettivo), poiché il criterio di pertinenza attiene a tutte le circostanze utili per la verifica delle ipotesi ricostruttive formulate dalle parti. Nondimeno, l’oggetto diretto, minimo ed indispensabile dell’accertamento demandato al giudice è costituito proprio dagli elementi che fondano la colpevolezza dell’imputato per il reato ascrittogli, secondo il criterio dell’esclusione di ogni ragionevole dubbio (art. 533, comma 1). Occorre che gli elementi di conferma dell’ipotesi di accusa attengano anzitutto alla sussistenza dello specifico fatto criminoso in contestazione, in termini di sussistenza e di corrispondenza alla fattispecie incriminatrice; ma è necessario, ancora, che gli elementi in discorso confermino in modo specifico la partecipazione al fatto della persona accusata, nei termini che fondano la relativa contestazione. Ciò non impedisce che l’elemento confermativo possa consistere nella prova logica desumibile dall’accertamento di una circostanza diversa: occorre, però, che si tratti di una prova logica effettivamente pertinente al fatto, che lo confermi in modo puntuale, e non valga semplicemente ad incrementare, in termini generali ed astratti, la credibilità dell’accusa. La cosiddetta convergenza del molteplice non esige che gli elementi concorrenti riguardino la medesima circostanza di fatto che assume rilievo nell’economia della contestazione; se così fosse, verrebbe meno il criterio di sufficienza del riscontro logico che si è richiamato e che non risulta oggetto di particolari contestazioni nel dibattito giurisprudenziale. Tuttavia la convergenza deve riguardare circostanze pertinenti alla specifica partecipazione criminosa. In definitiva, tra gli “altri elementi di prova che confermano l’attendibilità” delle dichiarazioni dei coimputati del medesimo reato vi sono anche i riscontri di natura logica; questi possono essere costituiti anche da prove di fatti storici diversi purché si tratti di riscontro logico effettivamente pertinente al fatto, che lo confermi in modo puntuale, e non valga semplicemente ad incrementare, in termini generali ed astratti, la credibilità dell’accusa (Sez. 1, 34352/2018). 

La ritrattazione non è indefettibilmente idonea a svalutare le dichiarazioni accusatorie rese da un collaborante con l'AG e il giudice può riconoscere valore probatorio alle prime dichiarazioni, a condizione che eserciti su queste un controllo più incisivo, possibilmente esteso ai motivi della loro variazione, potendo persino ritenere che la ritrattazione inattendibile o mendace si traduca, proprio perché tale, in un ulteriore elemento di conferma delle accuse originarie (Sez. 6, 35680/2019).

In tema di dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, il c.d. “pentimento”, collegato nella maggior parte dei casi a motivazioni utilitaristiche ed all’intento di conseguire vantaggi di vario genere, non può essere assunto ad indice di una metamorfosi morale del soggetto già dedito al crimine, capace di fondare un’intrinseca attendibilità delle sue propalazioni. Ne consegue che l’indagine sulla credibilità del collaboratore deve essere compiuta dal giudice non tanto facendo leva sulle qualità morali della persona  e quindi sulla genuinità del suo pentimento – quanto sulle ragioni che possono averlo indotto alla collaborazione e sulla valutazione dei suoi rapporti con i chiamati in correità, oltre che sulla precisione, coerenza, costanza e spontaneità delle dichiarazioni. Le dichiarazioni del collaboratore di giustizia su fatti e circostanze attinenti la vita e le attività del sodalizio criminoso, appresi come componente dello stesso, seppure non sono assimilabili a dichiarazioni “de relato”, possono assumere rilievo probatorio, purché supportate da validi elementi di verifica che consentano di ritenerle effettivamente oggetto di patrimonio conoscitivo comune agli associati, in aggiunta ai normali riscontri richiesti ex art. 192. Sono direttamente utilizzabili le dichiarazioni rese da collaboratore di giustizia su circostanze apprese in relazione al ruolo di vertice del sodalizio criminoso di appartenenza e derivanti da patrimonio conoscitivo costituito da un flusso circolare di informazioni relative a fatti di interesse comune degli associati, in quanto non assimilabili né a dichiarazioni “de relato”, utilizzabili solo attraverso la particolare procedura di cui all’art. 195, né alle cosiddette “voci correnti nel pubblico” delle quali la legge prevede l’inutilizzabilità. In tema di valutazione probatoria della chiamata di correo, l’accertata falsità di uno specifico fatto narrato non impedisce di valorizzare le ulteriori parti di un racconto più complesso svolto dal dichiarante, se supportate da precisione di riscontri, anche non specifici su ciascun elemento dichiarato, idonei a compensare il difetto di attendibilità soggettiva. Allorché il chiamante in reità o correità renda dichiarazioni concernenti un’attività continuativa di programmazione ed organizzazione di un fatto di reato, gli elementi di riscontro esterno relativi ad alcuni sviluppi significativi, pur se penalmente irrilevanti, di detta attività sono sufficienti a fornire conferma anche dei segmenti ulteriori, assurgenti a rilievo penale, attesa l’inscindibilità della valutazione di attendibilità riferita ad un tessuto dichiarativo unitario (Sez. 5, 12188/2019).

Le regole dettate dall’art. 192, comma 3 non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di responsabilità, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che in tal caso deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello a cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. 2, 33792/2018).

Prova scientifica

In tema di prova scientifica del nesso causale, mentre ai fini dell'assoluzione dell'imputato è sufficiente il solo serio dubbio, in seno alla comunità scientifica, sul rapporto di causalità tra la condotta e l'evento, la condanna deve, invece, fondarsi su un sapere scientifico largamente accreditato tra gli studiosi, richiedendosi che la colpevolezza dell'imputato sia provata al di là di ogni ragionevole dubbio (Sez. 4, 3932/2021).

Conversazioni intercettate

In materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all'esclusiva competenza del giudice di merito, l'interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 1, 36523/2021).

In tema di stupefacenti, qualora gli indizi a carico di un soggetto consistano in mere dichiarazioni captate nel corso di operazioni di intercettazione senza che sia operato il sequestro della sostanza stupefacente (la c.d. droga parlata), la loro valutazione, ai sensi dell'art.192, c. 2, deve essere compiuta dal giudice con particolare attenzione e rigore e, ove siano prospettate più ipotesi ricostruttive del fatto, la scelta che conduce alla condanna dell'imputato deve essere fondata in ogni caso su un dato probatorio al di là di ogni ragionevole dubbio, caratterizzato da un alto grado di credibilità razionale, con esclusione soltanto delle eventualità più remote (Sez. 4, 4147/2022).