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Timeo Danaos et dona ferentes: appello di un novello Laocoonte nei confronti della non commendevole tipologia di contradditorio introdotto dal d.l. n°152/2021

interdittive antimafia
interdittive antimafia

Prologo

Ho sempre pensato e sostenuto che il compito di dare ragionevole forma alla libertà umana pertiene alla scienza giuridica atteso che il diritto, nella sua intima essenza, costituisce il presupposto principe su cui si fonda il nucleo stesso della libertà e non già il suo antagonista. Ed è proprio per questa sua peculiarità che la sua intrinseca ragion d’essere non può mai essere vista come frutto di astratta legalità di stampo formale, bensì quale momento regolatore nel contesto di un sistema di garanzie che sia espressione di ambito privilegiato di confronto delle idee.

Alla luce di siffatto quadro paradigmatico di ragionamento, nell’accingermi a trattare il tema assegnatomi per l’odierno incontro, ossia della, per vero, imperfetta e non esaustiva novità, in materia di contraddittorio, introdotta dal D.L. n°152/2021 [convertito nella L. n°233/2021] all’istituto delle interdittive antimafia, mi è subito venuto in mente il grande Nino Manfredi che, in occasione di una mitica “Canzonissima”  (1959/1960), ha creato la celeberrima macchietta  di “Bastiano, er barista de Ceccano”, al quale ha messo in bocca quella che diventerà negli anni, una locuzione senza tempo: fusse che fusse la vorta bbona che ognuno di noi spesso pronuncia nella speranza di poterci liberare, in qualche modo e misura, dalle impedenze formali che inibiscono il sogno concreto dell’approdo a nuove, radicali e più felici condizioni di vita. Mai concetto mi è parso più icastico ed attuale, per il suo orizzonte di costante, indefinita validità intertemporale, in questa nostra non felice stagione caratterizzata da esempi di attività legislativa spesso abborracciata ed inconcludente.

Ed è proprio in considerazione di siffatta descritta prefazione concettuale che mi corre l’obbligo giuridico oltre che morale di anticipare, ancora una volta, la mia arcinota e più totale insofferenza verso la variegata e complessa architettura su cui suppostamente si regge l’istituto delle interdittive antimafia, avendo più volte ed a più riprese, negli anni, evidenziato quelle che a me appaiono le non sottacibili incongruenze caratterizzanti il coacervo disordinato di norme che continuo a ritenere strutturalmente sbagliate e profondamente illiberali che non pochi e tangibili disastri hanno prodotto, e continuano ad arrecare, al tessuto economico ed imprenditoriale italiano e del sud in particolare.

Ho più volte ribadito come, a mio giudizio, la nobile e serissima esigenza di contrastare la criminalità organizzata – proprio allo scopo di evitare distorsioni applicative inutili e fuorvianti del quadro rappresentato dal sistema delle interdittive, ed a garantire un reale, liberale e corretto equilibrio dei giustapposti interessi correlati alla libertà (insopprimibile) di impresa ed alla salvaguardia dell’ordine pubblico nelle ipotesi in cui non sia concretamente possibile ravvisare, in sede di amministrazione attiva, un indice obiettivamente certo di appartenenza ad una organizzazione criminale – non debba e non possa essere utilmente perseguita se non nel rispetto del sistema di garanzie proprie dello Stato di diritto. Ho anche più volte rammentato che Sant’Agostino in un passo del De civitate Dei, obiettivamente ancora oggi di vibrante attualità, ha affermato che “uno Stato senza diritto è una banda di briganti”, identificando il diritto non già con la semplice legge, bensì con tutto ciò che la legge è tenuta a riconoscere. Non è infatti la legge che fonda la verità, bensì è la verità che dà fondamento alla legge. Ne consegue che l’esigenza di garanzia dei valori si pone quale fondamento essenziale per un concetto di democrazia che non sia soltanto di stampo formale. E ciò perché, per dirla con San Giovanni Paolo II, “una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto”.

Nel mio ultimo e recente scritto sull’argomento[1] ho altresì evidenziato come la mela che San Tommaso mostrava all’inizio delle sue lezioni stava a significare la paradigmaticità tanto del senso del reale che dell’oggettiva realtà.

Il rifiuto pregiudiziale della realtà, in ragione della necessità di adeguamento culturale al mantra del c.d. politicamente corretto, non fa altro che dar corpo al precostituito divieto, sciente o, cosa forse ancor più grave, inconsapevole, di disvelamento del reale.

Invero uniformarsi al c.d. politically correct non produce altro effetto che annientare, con l’ausilio perverso della c.d. cancel culture, la narrazione della verità, perché siffatta acritica adesione al conformismo del pensiero prevale sul principio di realtà, e, quindi, sulla verità. Ormai è dato fattuale ed obiettivamente non contestabile come la civiltà del nostro tempo punti a coniugare, in un idem sentire il concetto qualunquista del politicamente corretto con la ormai più che frequente isteria normativa che caratterizza tanto l’attività legislativa che quella giudiziale nonché quella di amministrazione attiva in subiecta materia, giacché siffatto pensiero unico, che rende asfittica ogni e qualunque libertà di opinione e di parola, si traduce nella insana pretesa di essere, quasi per diritto divino, sempre e comunque dalla parte della ragione.

A seguire tout court questo improprio viatico argomentativo si giunge, invece, ad un non intelligente imbarbarimento del pensiero fondato su una irrazionale oltre che sconsiderata cancellazione di tutto ciò che non appare compatibile e comunque non omogeneo con il diktat dell’odierno e sconfortante mainstream teso ad apparire quale momento archetipico della distruzione della tradizione per il solo fatto che il reale (la realtà) non è conforme alla miopia del catechismo ideologico di cui detto pensiero unico voracemente si nutre. In verità questo c.d. “modernismo di maniera” – che non si dimentichi, nella sua forma teologica, ha già subito una condanna da parte di San Pio X in quanto “somma di tutte le eresie”– disattende non soltanto l’autorevole e profondo insegnamento di Sant’Agostino secondo il quale “non è mai la pena, bensì la causa a fare i martiri”, ma addirittura  l’insegnamento crociano della Storia che da giustificatrice diventa, invece, meramente giustiziera, attraverso l’obiettiva evidenza che il deprecato pensiero unico, nutrito dall’altrettanto deplorevole e deliberata cancellazione della cultura (cancel culture), utilizza un insieme sistematico di regole giuridiche e non, le cui finalità sono mirate a violentare la realtà, al fine di capovolgere il senso oggettivo dei fatti, quando non addirittura di giungere sino al paradosso di eliminare i fatti che costituiscono il più che evidente sostrato della realtà medesima per il solo e non già apprezzabile motivo che nei confronti di essa verità il politically correct appare semplicemente miscredente.

Invero, connotato peculiare del sistema appena delineato è che il merito non ha alcun valore perché nell’ipotesi che ad andare avanti sia uno bravo è probabilmente meglio, ma quel che in buona sostanza purtroppo rileva, il requisito principe, il metodo regolatore proprio dell’attuale mainstream è, invece, stare dalla parte strumentalmente opportuna, è collocarsi nella rete delle amicizie giuste. In pratica incarnarsi nella non esaltante tipologia dei falliti di successo!  

Alla luce di queste semplici considerazioni non bisogna aver timore di asserire che la verità unisce mentre la menzogna divide. Il politicamente corretto, infatti, non fa altro che separare la realtà (la mela di San Tommaso) dalla verità.

L’idea di costruire un diritto, senza ragione, illiberale sembra quasi una costante di questi nostri tempi certamente non felici, basti pensare, a mo’ d’esempio e a tacer d’altro, alla considerazione espressa in materia tributaria secondo la quale il contribuente non è un cittadino, bensì un suddito cui è stato sottratto per legge il diritto di parola, la prova della sua innocenza sempre invertita, l’addebito delle somme ad esso imputate, comunque, sempre dovuto, almeno in parte, prima della fine del contenzioso da cui il cittadino potrebbe, udite, udite, risultare persino innocente! 

E pensare che quel gigante del pensiero economico che è stato Luigi Einaudi soleva ripetere in tempi oggettivamente più civili degli attuali la seguente frase: “la frode fiscale non potrà essere mai considerata alla stregua degli altri reati finché le leggi tributarie rimarranno quali sono, vessatorie e pesantissime e finché le sottili arti della frode rimarranno l’unica arma del contribuente contro le esorbitanze del fisco”.

Quel che a me sembra paradossale è la ossessiva ostinazione della cuspide del mainstream e di conseguenza, a ruota, dell’attuale legislatore accidentato di difendere l’indifendibile, ossia di  pretendere di disciplinare non quello che appare semplice e corretto (verità) ai più, bensì di trascinare, a danno del buon senso, tanto la vita dei cittadini che delle istituzioni in una sarabanda di sospetti, di fronte ai quali la ragione ed ogni altro sano sentire civile soggiacciono, immotivatamente ed irrazionalmente, alla faziosità e al cappio dell’unzione concettuale della pretesa di irrogazione di misure afflittive senza la certezza della prova. Di conseguenza continuo a pensare che non sia giusto né auspicabile ulteriormente tollerare, in forza di fattispecie normative di evidente non esaltante qualità, la sistematica violazione di regole e diritti fondamentali a vantaggio della rozza esigenza di interagire in uno Stato organizzato in sistema privo di ogni afflato ideale di tipo liberale e dove l’individuo, sotto la nefasta ala protettrice di un funzionarismo burocratico feroce e connivente, viene schiacciato dal pensiero unico imperante, peraltro senza un vero perché

In buona sostanza, per tornare nell’ambito di analisi di questo odierno intervento, occorre avere la forza e la dignità di riattribuire prestigio e valenza allo Stato di diritto la cui esaltazione non significa attribuire o attenuare, forma alcuna di contrasto alle pulsioni malavitose, bensì assicurare che i diritti di tutti i cittadini non vengano sistematicamente calpestati senza garanzie.

La sospensione dei diritti, purtroppo tanto cara al non esaltante legislatore dei nostri giorni, nonché l’introduzione degli strumenti di emergenza, quali sono le interdittive e/o informative possono avere una loro utilità soltanto se usati in casi rarissimi e in situazioni del tutto circoscritte e per di più vanno adoperate con assoluto espresso rigore per prevenire il sostanziarsi di prevaricazioni ed ingiustizie e non già, come nell’attuale realtà cronotopica, risultare regola invece che eccezione.

In relazione al ricordato fenomeno delle interdittive generiche l’attuale non illuminato legislatore ha dato vita – sia pur, ripeto, nel tentativo astrattamente lodevole di istituire una nuova frontiera contro le infiltrazioni c.d. mafiose – ad un mostro di inciviltà giuridica, ad un obbrobrio giudiziario che, calpestando il principio della presunzione di innocenza, ha determinato un vulnus, fondato sul sospetto e sull’aberrazione della presunzione di colpevolezza che mina in radice il principio della certezza dei diritti. 

Il tetragono monolite oggetto di questa analisi,  ha, sin qui, avallato da una ermeneusi anche giustiziale che è riuscita, salvo rare ancorché qualificate eccezioni, a delineare concettualmente un’isola che non c’è ed i cui paradigmi di riferimento sono impropriamente rappresentati dalla classificazione dell’istituto quale fattispecie di pericolo che viene, in modo obiettivamente non calzante, considerata quale vera e distintiva pietra angolare del sistema normativo c.d. antimafia a cui è riconnessa la precipua finalità di liberare il corpo sociale dalla pressione delle organizzazioni criminali attraverso l’ausilio dell’ormai standardizzato ed evanescente modello civilistico “del più probabile che non” – peraltro espunto dal suo ambito naturale, riadattato alla bisogna e suppostamente fondato su elementi indiziari gravi, precisi e concordanti e su dati conoscitivi soltanto astrattamente utilizzabili considerato che il pericolo di infiltrazione mafiosa viene cancellato da una risultanza di fatto che rende probabile detta ipotesi di pericolo senza, però, la dimostrazione della sua ragionevole certezza sta subendo importanti incrinature – perché manifesto frutto di una idea di giustizia obiettivamente non correlata alla domanda sociale – che ex eis non contribuiscono, purtroppo, come invece dovrebbe in realtà essere, a riaffermare l’obiettiva necessità del processo di potenziamento dei valori e dei principi dello Stato di diritto; irrobustimento da condursi non soltanto sotto il profilo della mera ed astratta legalità (che non si dimentichi essere soltanto un metodo, che fra l’altro va inscindibilmente correlato al principio di libertà) quanto anche e soprattutto della giustizia sostanziale (vero ed unico immortale valore da perseguire), che, proprio perché tale, determina una reale e concreta, e non soltanto di maniera, lotta alla criminalità organizzata.

L’insufficienza dialettica della tipologia del confronto postulato dal D.L. n°152/2021
 

Le modifiche introdotte dal D.L. n°152/2021 al codice antimafia, in tema di contraddittorio nel procedimento afferente al rilascio dell’interdittiva, peraltro indubbiamente opportune, appaiono, in verità, ancora del tutto insufficienti a delineare in maniera finalmente esaustiva, chiara e puntuale il quadro risolutivo della vexata quaestio. Tali modifiche possono essere così riassunte ed attengono:

1. all’introduzione del contraddittorio nel procedimento afferente al rilascio dell’interdittiva;

2. all’introduzione degli istituti di prevenzione collaborativa che si sostanziano in nuove misure, sempre attraverso l’istituto del contraddittorio, adottabili dal Prefetto nelle fattispecie di agevolazione occasionale.

Per ciò che afferisce al prefato istituto – che poi è l’argomento che mi è stato oggi assegnato, e che come da me più volte con altri scritti ricordato, si è finalmente, da parte del legislatore, giunti alla conclusione che ormai il contraddittorio con il soggetto destinatario del provvedimento antimafia, vada obiettivamente garantito, nello svolgimento dell’iter procedimentale prefettizio, quale  momento di interlocuzione necessaria e non eventuale, atteso che il doveroso ascolto delle ragioni del soggetto destinatario dell’attività prefettizia in subiecta materia assume dirimente importanza essenziale ai fini della tutela della posizione giuridica dell’impresa, la quale potrebbe offrire al Prefetto prove e argomentazioni convincenti pur in presenza di elementi ed indizi sfavorevoli, viepiù anche in considerazione che il provvedimento interdittivo, così come primigeniamente concepito ed in tantissimi casi giustizialmente non correttamente interpretato, ha determinato e determina la sostanziale condanna a morte dell’impresa, senza che di contro, sussistano il più delle volte, motivi giuridicamente validi che possano escludere a priori la previsione del contraddittorio stesso. 

L’art. 48 del ricordato D.L. n°152/2021, ha, infatti, sensibilmente inciso in senso modificativo l’art. 92 del codice antimafia anche se, per vero, tale graffio legislativo è avvenuto con molto poco coraggio!

La visione prosopagnosica del G.A., sino alla introdotta modifica, era orientata, peraltro senza alcuna ragione plausibile, a considerare come oggettive ed intrinseche le ragioni di urgenza che presiedono all’adozione della misura preventiva de qua. Tale, in verità non lineare convinzione, ha trovato linfa, peraltro ingiustificata, nel pronunciamento di irricevibilità disposto dalla Corte di Giustizia dell’U.E., che – chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla compatibilità degli artt. 91,92 e 93 del ricordato codice antimafia con il principio del contraddittorio inteso quale principio di diritto dell’Unione – ha dichiarato e ritenuto – e giustamente aggiungo io – che la normativa sottoposta al suo esame censorio si collocava a chiare note al di fuori dell’ambito di applicazione del diritto dell’U.E.

Tale dichiarazione di irricevibilità ha consentito, a mio avviso altrettanto ingiustificatamente, al Consiglio di Stato di sostenere  che l’informazione antimafia non postulasse la necessaria osservanza del contraddittorio procedimentale ed anzi ha permesso allo stesso Organismo giustiziale di affermare come il contraddittorio medesimo non potesse essere considerato del tutto assente in subiecta materia, ma piuttosto meramente eventuale, atteso che ai sensi dell’art. 93, 7° comma del più volte richiamato codice antimafia – peraltro anch’esso oggi modificato dal D.L. in esame – al Prefetto era comunque riconosciuta la possibilità, a suo insindacabile giudizio, di invitare “i soggetti interessati a produrre ogni informazione ritenuta utile”. La legittimità di siffatta feroce compressione di garanzie difensive è stata giustificata dal predetto G.A. sulla scorta del solito abusato refrain dell’esigenza di contrastare il fenomeno della infiltrazione mafiosa nel settore degli appalti pubblici.

A dire il vero mi sono sforzato a più riprese nei miei scritti e nei numerosi convegni in tutta Italia nei quali sono stato chiamato ad intervenire – anche se per vero qualche timida apertura nella giurisprudenza amministrativa si era nel frattempo registrata – ad insistere circa l’assoluta necessità del pieno e non soltanto formale recupero della garanzie di metodo in tutte quelle vicende rispetto alle quali l’apporto procedimentale del soggetto potenzialmente inciso dal provvedimento prefettizio avrebbe potuto apportare elementi utili a chiarire ad essa autorità procedente la natura dei rapporti tra il soggetto e le dinamiche obiettivamente fluide del mondo criminale, onde evitare il non commendevole e spesso del tutto sproporzionato sacrificio del diritto di difesa.

Infatti non appare revocabile in dubbio considerare l’esigenza obiettiva di conseguire la finalità di giungere ad un reale bilanciamento dei valori in gioco, onde evitare un inadeguato e disarmonico sacrifico del diritto di difesa che ex se determinerebbe una ingiustificata grave limitazione di diritti costituzionalmente garantiti, atteso che il connotato della proporzionalità appare ictu oculi condizione essenziale ed integrante dell’azione amministrativa.  

Finalmente, con la normazione in parola, quello che si appalesava come un auspicio dogmatico, fra l’altro sposato in qualche rara evenienza anche dal G.A., è stato, ancorché timidamente, recepito anche dalla Commissione bicamerale antimafia e, quindi, accolto dal legislatore. In buona sostanza la nuova formulazione dell’art. 92, 2° comma-bis, prevede che qualora “il Prefetto sulla base degli esiti e delle verifiche disposte ai sensi di esso 2° comma, ritenga sussistenti i presupposti per l’adozione dell’informazione interdittiva antimafia ne dà tempestiva comunicazione al soggetto interessato”, in uno con l’obbligo di indicare “gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa”. Siffatta forma di istaurazione di contraddittorio, non è, però, piena – come, invece, avrebbe dovuto essere – perché rivela e presenta un duplice limite nella sua applicazione: da un canto prevede che al soggetto interessato tale garanzia procedimentale  non sia dovuta – mutuando tale limite da quanto avviene in tema di comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. n°241/90 – “laddove ricorrano particolari esigenze di celerità del procedimento”; dall’altro viene comunque “preclusa la comunicazione di elementi informativi il cui disvelamento sia idoneo a pregiudicare procedimenti amministrativi o attività processuali in corso, ovvero l’esito di altri accertamenti finalizzati alla prevenzione delle infiltrazioni mafiose”.

La prefata disposizione caratterizzante, siffatta peculiare tipologia di contraddittorio, presuppone che la qualificazione dell’elemento informativo non disvelabile, definisca un perimetro degli atti, appunto, non disvelabili, del tutto non coincidente con l’ambito degli atti coperti da segreto investigativo i quali, proprio perché oggetto di indagini preliminari non possono essere conosciuti neppure dal Prefetto. Il concetto, quindi, di non disvelabilità in questa sede delineato esalta oltre misura, oserei dire sino al parossismo e senza plausibile ragione tecnica, il potere discrezionale dell’autorità prefettizia in subiecta materia

La conclusione a cui giunge il legislatore, dunque, in termini di tutta evidenza non appare a mio avviso risolutiva del problema, anche se purtuttavia bisogna riconoscere che essa, comunque, costituisce un quid novi rispetto all’ottuso atteggiamento normativo e giustiziale pregresso.

La modalità attraverso la quale si avvia il contraddittorio inizia con la nota dell’Ufficio Territoriale del Governo inviata al soggetto interessato al quale viene assegnato un termine (max 20 gg) entro il quale il soggetto medesimo può presentare osservazioni, peraltro corredate da eventuale documentazione a discarico, unitamente alla richiesta di essere sentito; audizione da eseguirsi con e nelle modalità previste dall’art. 93, commi, 7 e 9, del più volte richiamato codice antimafia. Non è inutile ricordare che a tale audience il Prefetto provvede mediante comunicazione formale da inviarsi al responsabile legale dell’impresa contenente l’indicazione della data, dell’ora e dell’Ufficio di Prefettura presso il quale l’interessato, o la persona da lui delegata, potrà essere sentito. Di tale audizione dovrà essere redatto apposito verbale, in duplice copia, una delle quali va consegnata nelle mani dell’interessato.

Va, ancora, per ciò che riguarda gli effetti, ulteriormente evidenziato che la comunicazione de qua sospende, a far tempo dalla relativa data di invio, il termine postulato dall’art. 92, 2° comma, del codice antimafia, ossia del termine di emissione dell’informazione antimafia da parte del Prefetto. Non appare inutile ricordare che l’intero sopra descritto procedimento deve essere, in ogni caso, concluso entro sessanta giorni dalla data di ricezione della comunicazione da parte dell’interessato. Non è ancora pleonastico ricordare che la normativa del D.L. n°152/2021 ha introdotto all’art. 92 (del codice antimafia) un comma 2-ter, illustrativo dei possibili esiti della riferita procedura in contraddittorio e precisamente la previsione che il Prefetto può:

1. rilasciare un’informativa antimafia di stampo liberatorio;

2. disporre l’applicazione delle nuove misure amministrative di prevenzione collaborativa ex art. 94-bis in ipotesi di emersione di un’agevolazione di tipo occasionale;

3. adottare l’informativa interdittiva sulla scorta di una sicura sussistenza di presupposti chiari ed univoci per l’applicazione delle misure ex art. 32, 10° comma, del D.L. n°90/2014 (nomina di un commissario o rinnovazione degli organi sociali) con relativa, tempestiva informazione presso il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione.

La nuova normativa in esame ha, altresì, aggiunto sempre all’art. 94-bis, il comma 2-quater in forza del quale viene precisato che ai fini dell’informazione interdittiva “possono essere valutate anche talune sopravvenienze verificatesi nel periodo tra la ricezione della comunicazione e la conclusione della procedura in contraddittorio” e segnatamente: a) il cambiamento di sede, di denominazione, della ragione e/o dell’oggetto sociale, della composizione degli organi di amministrazione, direzione e vigilanza; b) la sostituzione degli organi sociali, della rappresentanza legale della società, nonché della titolarità delle imprese individuali, ovvero delle quote societarie, c) la realizzazione di fusioni o di qualsivoglia altra variazione dell’assetto sociale, organizzativo, gestionale e patrimoniale delle società e delle imprese interessate da tentativi di infiltrazione mafiosa. Elementi di valutazione questi che possono, ciascuno e tutti, essere considerati utili allo scopo di giungere alla determinazione dell’adozione o meno dell’informativa interdittiva antimafia.

Va, inoltre, per completezza espositiva soggiunto che una volta esitata la sopra evidenziata procedura del contraddittorio, nel caso in cui il Prefetto non ritenga di poter giungere alla risoluzione di disporre il rilascio di una informativa antimafia liberatoria, e ravvisi, invece, nella fattispecie oggetto del suo esame, soltanto l’emersione di profili di agevolazione di tipo meramente occasionale, la medesima Autorità procedente potrà, altresì, pervenire alla conclusione di applicare il regime meno invasivo delle nuove misure amministrative di prevenzione collaborativa postulato dall’art. 94-bis del codice antimafia.

Non appare inutile ricordare che siffatte misure si fondano sulla medesima ratio ispiratrice del c.d. “controllo giudiziario volontario” previsto dall’art. 34-bis del codice antimafia anche se rispetto a quest’ultimo paradigma normativo hanno un potere vincolistico sicuramente più tenue e di maggiore interazione con il destinatario.

Le riferite disposizioni, infatti, si connotano quali misure di controllo preordinato a rimuovere o a prevenire cause di agevolazione occasionale finalizzate a consentire, ove possibile, il reinserimento di imprenditori e di imprese solo incidenter tantum a contatto con le organizzazioni mafiose, ovvero perché angariati dalla prepotenza della criminalità organizzata.

Non è inutile riferire che anche quest’ultimo istituto presuppone, comunque, l’obbligatoria necessità dell’instaurazione del contraddittorio procedimentale anche in ragione del fatto che l’adozione di siffatta misura può essere in ogni tempo revocata e ed essere trasformata dal Prefetto in una informazione interdittiva antimafia, ovvero in una informazione liberatoria in caso di accertata assenza di altri tentativi di infiltrazione mafiosa.

Da ultimo va infine specificato che tanto nell’adozione del provvedimento liberatorio che nell’ipotesi opposta, l’Autorità procedente in ogni caso deve dare, comunque, esplicita contezza delle osservazioni fornite nella sede istruttoria di audizione del soggetto destinatario, costituendo le stesse parte integrante della misura prefettizia, indipendentemente dal suo contenuto, per consentire all’autorità giustiziale la possibilità di un sindacato pieno ed effettivo delle misure assunte dal Prefetto[2].     

Il limite di non soddisfazione della situazione legislativa prospettata
 

Come già più volte ed a più riprese da me sostenuto il provvedimento di interdittiva in subiecta materia, non costituisce mai una misura provvisoria e strumentale, bensì esso si connota “quale atto conclusivo del procedimento avente effetti definitivi, conclusivi e dissolutori del rapporto giuridico tra l’impresa e la P.A., con riverberi assai durevoli nel tempo, se non addirittura permanenti, indelebili ed inemendabili” dal momento che l’interdittiva ha come effetto “la sostanziale messa al bando dell’impresa e dell’imprenditore (a tal proposito appare agghiacciante la frase contenuta in una sentenza del G.A. di qualche anno addietro nella quale si era addirittura sostenuto che l’interdittiva “è come un diamante: eterna”). Infatti la sostanziale messa al bando dell’impresa e dell’imprenditore che da quel momento e per sempre, non possono di fatto rientrare nel circuito economico dei rapporti con la P.A. dal quale vengono estromessi, costituisce, senza se e senza ma, l’equivalente di una sostanziale condanna a morte.

Ed è in ragione di ciò e proprio per prevenire tale nefasto esito che non appare revocabile in dubbio che il provvedimento di interdittiva – così come ancor oggi strutturato – giammai possa essere considerato parte di provvedimenti interinali e cautelari che consentono di escludere la necessità del pieno  contraddittorio, viepiù che la doverosa partecipazione al procedimento amministrativo, che deve essere garantita, attraverso l’ascolto delle ragioni del destinatario del ricordato provvedimento interdittivo non ha controindicazioni perché il soggetto nei cui confronti opera la misura non ha alcuna possibilità di mettere in atto strategie elusive o condotte ostruzionistiche con l’intento di sottrarsi al provvedimento conclusivo medesimo.

In buona sostanza il contraddittorio tra Prefetto ed impresa assume importanza essenziale ai fini della tutela della posizione giuridica dell’impresa, la quale potrebbe offrire al Prefetto prove ed argomenti convincenti per ottenere un’interdittiva liberatoria, pur in presenza di elementi o indizi sfavorevoli”.

Orbene, e poiché non è dubbio che in linea di assoluto principio sia effettivamente così, la timida modifica introdotta dal D.L. n°152/2021 non può essere ritenuta esaustiva e, in verità, non rappresenta altro che un pannicello caldo, patentemente del tutto inidoneo a perimetrare compiutamente l’ambito nel quale può e deve, dogmaticamente e correttamente, interagire la funzione autoritativa cui è preordinato l’istituto del contraddittorio procedimentale.

A dire il vero, pur prendendo atto con favore che qualcosa si è mosso nel delineato monolite rappresentato dall’istituto delle interdittive, occorre evidenziare anche le criticità del rachitismo intellettuale che la fa da padrone in tutta l’attuale disciplina c.d. antimafia, sempre così poco attenta alle esigenze del diritto nobilmente inteso, atteso che l’esigenza di difesa per chi subisce la più delle volte piratesca aggressione di uno Stato, che ormai appare disattento alle doverose garanzie, viene forse inconsapevolmente (il che è ancora più grave) spinta in avanti ossia in quella fase in cui si è maturato, in capo alla P.A. prefettizia, il cupo convincimento (questo sì non certo nobile) della sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura interdittiva, visto e considerato la pressocché pratica impossibilità per chi è inciso dalla comunicazione di addurre, nel termine ultra ristretto dei venti giorni sopra ricordati, corroboranti elementi a propria difesa, viepiù – ed il confronto appare impari – alla luce del fatto per ciò che attiene agli elementi a carico, gli stessi si sono, sul piano del convincimento, già ampiamente radicati in capo alla P.A. in un giudizio prognostico del tutto presumibilmente sfavorevole per chi deve confrontarsi con l’Autorità prefettizia

L’evidenza di tutto questo si coglie a piene mani, e senza possibilità di ermeneusi di segno contrario, laddove risulta del tutto non sottacibile l’abissale differenza che intercorre tra la comunicazione postulata dall’art.92, comma 2°-bis, del codice antimafia e la comunicazione di avvio del procedimento disciplinata in via generale dall’art. 7 della L. n°241/90. L’introdotto procedimento del contraddittorio, così come oggi articolato, infatti può meglio essere configurato, anzi piuttosto parificato, e con la medesima incidenza di valore, propria al c.d. preavviso di rigetto ex art. art.10 sempre della sopra ricordata L. n°241/90, con l’aggravante, nella evenienza di tale ultima ricordata normazione, che la c.d. comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della istanza di cui alla legge sul procedimento amministrativo afferisce esclusivamente ai procedimenti ad istanza di parte, ossia in quei procedimenti in cui l’interessato ha già avuto l’occasione di interfacciarsi con la P.A., al contrario di quanto, invece, avviene nell’ipotesi prefigurata nel procedimento di rilascio dell’interdittiva antimafia.

In realtà se è vero  che con l’introduzione ex D.L. n°152/2021 il legislatore ha inteso estendere l’ambito di applicazione dell’istituto del contraddittorio procedimentale il quale ha assunto un carattere di novità rispetto a quanto contemplato dalla pregressa normativa, purtuttavia non può sottacersi che il campo di applicazione del prefato istituto continua ad attribuire al Prefetto un eccessivo margine di discrezionalità che si sostanzia con riferimento ai presupposti che ne consentono il ricorso, ma anche, e ciò non è cosa da poco, alla scelta della sua attivazione. In buona sostanza si è in presenza di una forma di contraddittorio che, con riferimento alla valutazione del ricorso al medesimo, si presenta come eventuale e comunque di forza incisiva, in termini di efficacia, del tutto dimidiata, nella sua portata atteso che tanto il profilo valutativo che quello della effettiva utilità vengono ancora oggi demandate al potere discrezionale del Prefetto. In ragione di ciò, ritengo giusto ed auspicabile, ed anche con tempestiva celerità, promuovere una riforma che con consapevolezza confini l’istituto dell’interdittiva ad espressione provvedimentale da adottarsi quale extrema ratio; ossia esclusivamente in presenza di situazioni (fattispecie) del tutto obiettivamente chiare ed inequivocabili.

Sul punto occorre, infatti, fare chiarezza assoluta, viepiù che il limen tra la necessità del ricorso ad un sacrificio del valore del pericolo di infiltrazione mafiosa è estremamente tenue sicché il medesimo non può che avere carattere temporaneo ed incidenza proporzionale. Ritenere, infatti, che l’emergenza possa sempre e comunque legittimare ogni cosa, è conato illusorio e privo di ragionevolezza che non può in alcun modo sacrificare in aeternum alcun diritto di libertà a vantaggio miserrimo di una loro esecuzione sommaria e inutilmente dimostrativa di quella che non ho esitazione a definire “bolsa tirannia di una minoranza” di chi esercita il potere che, però, non può essere mai legittimata all’abuso dello stesso.

In buona sostanza permane nella sua intrinseca essenza ed intima pregnanza la sussistenza in capo al Prefetto la possibilità di continuare a generare azioni ed atti ravvisabili come potenzialmente viziati sotto il profilo della figura sintomatica dell’eccesso di potere, inteso quale vizio della funzione[3], peraltro, purtroppo raramente (quasi mai) sindacato, come invece dovrebbe essere con serietà, in sede giustiziale amministrativa.

Occorre normativamente indirizzare l’ago della bussola verso un più serio rimodellamento della disciplina normativa dell’istituto; revisione che si indirizzi verso orizzonti previsionali più marcatamente garantisti e non esasperatamente generici ed asettici come quelli attuali e che non omettano, ancora una volta, di considerare che le ricadute applicative di questo istituto si connotino come pervasive in negativo sulla vita reale delle sfere giuridiche soggettive private anche il più delle volte a dispetto delle garanzie costituzionali poste a loro tutela.

La necessità giuridica, logica ed ideale di tirare le fila di questo discorso
 

In buona sostanza, e qui veramente chiudo, da vecchio liberale che non crede nei decisori illuminati – i quali molto spesso pretendono, all’interno di precostituiti schemi di fatto autoritari, di pianificare dall’alto ogni comportamento dei cittadini – ed in quanto convinto assertore dello Stato di diritto ed attratto da sempre dai valori della democrazia e dell’umanesimo, aborro ogni tentativo, in questo nostro tempo di costumi e tendenza intellettuali non certo felici di trascinare tanto la vita dei cittadini che delle istituzioni in una sarabanda di sospetti, di fronte ai quali la ragione ed ogni altro sano sentire civile soggiacciono, immotivatamente ed irrazionalmente, alla faziosità ed al cappio dell’unzione concettuale della pretesa di irrogazione di misure afflittive senza la certezza della prova.

Credo, invece, che occorra riflettere sull’obiettiva evidenza di dover al più presto recuperare una visione generale della realtà e prendere coscienza dell’inutilità di aderire acriticamente ed in modo automatico a quelli che vengono ritenuti, senza una vera e reale motivazione, i canoni dominanti veicolati dal mainstream che tende, attraverso un insano processo di conformazione coatta, ad agevolare la creazione di regimi di sorveglianza globale allo scopo di revocare, sempre e comunque, la realtà, nonché a dettare un sistema articolato di divieti, obblighi e cancellazioni intellettuali attraverso i quali siffatta nuova, deprecata e deprecabile, inquisizione, censura e controlla la vita non soltanto delle persone fisiche e delle imprese ma anche delle istituzioni in un sistema di sorveglianza totale che tende a dominare, oscurando persino le aree di azione istituzionale, utilizzando i non limpidi caratteri di una continua e perpetua emergenza che vanno dalla salute, al vivere quotidiano e per quel che in questa sede interessa al diritto ed al rapporto tra cittadini imprese ed istituzioni.   

Di conseguenza continuo a pensare che non sia giusto né auspicabile ulteriormente tollerare, in forza di fattispecie normative di evidente non esaltante qualità, perché contrassegnate da una sconcertante asfissia – propria di un pensiero recluso – la sistematica violazione di regole e diritti fondamentali.

Occorre, invece, essere capaci di fornire delle risposte normative serie, corrette e liberali all’altezza delle verità del reale che permettano di conseguire la sola ed unica finalità alla quale devono tendere tanto il legislatore che la giurisdizione che gli organi di amministrazioni attiva che operano in subiecta materia. E ciò anche  al fine di evitare e prevenire distorsioni applicative, inutili e fuorvianti del sistema delle interdittive, ed a garantire un reale, liberale e giusto equilibrio dei contrapposti interessi correlati alla libertà (insopprimibile) di impresa ed alla salvaguardia dell’ordine pubblico nelle ipotesi in cui non sia concretamente possibile, ravvisare in sede di amministrazione attiva, indice alcuno di appartenenza ad una organizzazione criminale e che permettano, in sede di giurisdizione, di conseguire il solo ed unico fine a cui tanto la P.A. procedente che il Giudice devono tendere: ossia di assicurare giustizia sostanziale.

In ragione ed in conformità a quello che Tacito definisce “principio morale superiore”, la politica legislativa di uno Stato serio, conscio della vigoria dei suoi principi costituzionali non deve seguitare a mantenere nel corpo del proprio ordinamento, provvedimenti interdittivi il più delle volte soltanto suppostamente e pretenziosamente indicati come di tipo mafioso e non consentire, come ha sempre sostenuto quel grande uomo di cultura e propugnacolo di sincera ed autentica passione civile che è stato Leonardo Sciascia[4], di usare l’antimafia come strumento improprio di potere.

Solo così il cielo della civiltà giuridica di stampo liberale tornerà a splendere senza retorica ed in tutto il suo fulgore, con buona pace di “Bastiano, er barista de Ceccano” che finalmente potrà godere, almeno per un momento plastico, di vedere esaudito il proprio sogno di percepire concretamente la tanto sua agognata “vorta bbona”.

[Relazione tenuta il 27 maggio 2022 presso l’Aula Magna dell’Istituto Italiano di Criminologia degli Studi di Vibo Valentia ad Ordinamento Universitario, Palazzo Gagliardi, Piazza Garibaldi, 9, nella Tavola Rotonda organizzata dal medesimo Istituto, sul tema più generale “Interdittive antimafia e scioglimento dei Comuni: strumenti ai limiti della costituzionalità”, moderata da Pasquale Motta (Giornalista) e con gli interventi di Stefano Luciano (Docente dell’Istituto), di Fausto De Angelis (Senatore delle Repubblica), di Giacomo Francesco Saccomanno (Responsabile scientifico della Fondazione A. Scopelliti) di Luciano Maria Delfino (Componente del Comitato Scientifico di Filodiritto (BO), Componente del Comitato Scientifico di Milano Vapore (MI) e Direttore Scientifico della Sezione Convegni e Master giuridico-economici patrocinati dall’Associazione Culturale Anassilaos di Reggio Calabria) e di Gianluca Cantalamessa (Onorevole al Parlamento, Componente della Commissione Parlamentare Antimafia e Presidente del Dipartimento Antimafia della Lega).]