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Quali confini per le acquisizioni nel processo penale delle risultanze tributarie?

“I frutti dell'albero avvelenato” e la falcidia dell’art. 191 c.p.p. tra norma e prassi
risultanze tributarie
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Abstract

Da sempre oggetto di dibattito, al confine tra il diritto processuale penale e quello tributario, si pone la delicata questione del rapporto tra l’art. 220 disp. att. c.p.p. e le violazioni compiute nella fase di accertamento fiscale da parte dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate in sede di accesso. In particolare, si tratta di valutare se, come e con quali forme gli atti “frutto dell’albero avvelenato” possano entrare nel processo penale.

 

Le tipologie di accessi conosciute dalla normativa tributaria: poteri e limiti

Come noto, la fase istruttoria (o conoscitiva) nell’ambito del procedimento tributario finalizzato all’emersione e al contrasto di comportamenti illeciti sul fronte tributario se è rigidamente regolata dal legislatore sul lato fisiologico, cioè sulle modalità e sulle formalità da rispettare nel corso dell’accertamento, lo appare di meno su quello patologico (c.d. illegittimità istruttoria).

Eppure, trattasi, quest’ultimo aspetto, di un elemento estremamente rilevante.

Quando si analizza un potere – nel caso di specie, quello conoscitivo e istruttorio dell’Agenzia delle Entrate – occorre infatti domandarsi primariamente sulle modalità di esercizio di quel potere.

Il potere amministrativo è rigidamente formalizzato, anch’esso vincolato al principio di legalità, tanto più in materia di poteri autoritativi che potenzialmente possono entrare in conflitto con posizioni giuridiche soggettive che derivano da diritti di libertà costituzionalmente garantiti, quali la libertà individuale, di domicilio, di esercizio di un’attività economica e di segretezza della corrispondenza.

L’art. 52 D.P.R. 633/1972 disciplina, in particolare, il potere e le modalità con cui può svolgersi un accesso. Esiste, infatti, un regime autorizzatorio molto dettagliato che è costruito principalmente su due livelli. Un livello più semplice, caratterizzato da autorizzazioni di tipo amministrativo tale per cui per procedere mediante accesso in un locale che sia adibito all’esercizio di attività imprenditoriale o professionale si rende necessaria l’autorizzazione del capo dell’ufficio accertatore (salvo l’ipotesi in cui venga opposto, in tale circostanza, il segreto d’ufficio, v. infra).

Un secondo livello, è caratterizzato da un sistema più evoluto di autorizzazioni dell’Autorità Giudiziaria: si tratta di autorizzazioni – necessarie per svolgere alcune attività – che provengono dal Procuratore della Repubblica o dall’Autorità Giudiziaria più vicina. L’autorizzazione del Pm è necessaria ogni qualvolta si voglia accedere ad un locale adibito anche ad abitazione della persona (cd. accesso domiciliare in locali ad uso promiscuo), oltre all’autorizzazione amministrativa. Nel caso in cui si voglia accedere in locali ad esclusivo uso abitativo (abitazione o residenza) è necessaria l’autorizzazione del Pm la cui concessione è subordinata alla sussistenza di “gravi indizi di violazione”. La necessaria esistenza di questi “gravi indizi di violazione” dovrebbe escludere, da un lato, accessi meramente esplorativi e, dall’altro, presupporre invece una preventiva attività d’indagine svolta da parte dell’Ufficio la quale abbia condotto – per esempio – tramite una ricerca documentale o tramite la richiesta di informazioni al contribuente o ai terzi (c.d. poteri conoscitivi minori) all’emersione dei suddetti gravi indizi di violazione tali da convincere il Pm a concedere l’autorizzazione all’accesso domiciliare.

Infine, come disciplinato dal comma III del citato articolo, è in ogni caso necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’Autorità Giudiziaria più vicina – oltre a quella amministrativa già rilasciata per l’accesso – per procedere durante l’accesso a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l’esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all’articolo 103 del codice di procedura penale.

Una particolare disciplina, di garanzia, è riservata alle ipotesi di accesso negli studi professionali.

Per accedere ad uno studio professionale, cioè a uno studio adibito ad attività di lavoro autonomo (i.e. professione di tipo ordinistico secondo la normativa tributaria), è necessaria l’autorizzazione amministrativa, cioè l’autorizzazione del capo dell’Ufficio in uno con la presenza del titolare dello studio o un suo delegato.

Una volta effettuato l’accesso potrebbe ben darsi, atteso lo status di professionista, al quale è imposto deontologicamente il segreto professionale, che questi lo opponga ai verificatori. Se il contribuente oppone il segreto professionale – e solo in quel caso – per potere prendere visione e quindi per poter ispezionare i documenti in relazione ai quali il contribuente oppone il segreto professionale è necessaria l’autorizzazione del Pm.

Esiste però, come noto, un segreto professionale che è un po’ più delicato degli altri, che è quello degli avvocati e dei commercialisti. Più delicato degli altri perché non è inverosimile che durante l’attività di accertamento diretta alla verifica del libero professionista la stessa si propaghi anche sui suoi clienti. La Corte Edu ha ritenuto il segreto difensivo (avvocato o commercialista) non comprimibile da parte dell’Agenzia delle Entrate, non potendo questa chiedere l’esibizione di atti o documenti relativi ai clienti; la Corte di Cassazione – al contrario – ritiene che il segreto professionale dell’avvocato o del commercialista sia uguale a tutti gli altri segreti professionali, ritenendo quindi consentito, in sede di accesso in uno studio di un professionista (avvocato o commercialista), recuperare documenti relativi ai clienti (favor fisci).

 

L’illegittimità istruttoria e conseguenze sul procedimento penale: l’inutilizzabilità ai sensi dell’art. 220 disp. att. c.p.p.

Se esiste un modo di formalizzazione del potere occorre indagare le conseguenze nel caso in cui il potere amministrativo sia esercitato al di fuori dalle modalità tipiche di esercizio previste dal Legislatore.

Tale questione assume particolare rilevanza quando, a seguito di un primo accesso presso la sede di una società verificata da parte di funzionari dell’Agenzia delle Entrate, l’attività degli stessi, iniziata come prodromica all’accertamento delle imposte, si trasformi in un’attività di ricerca della prova, tipica di quella propria di soggetti appartenenti alla Polizia Giudiziaria, finalizzata ad un suo ingresso dibattimentale. Qualifica – quella di agenti o ufficiali di PG – del quale i verificatori dell’Agenzia delle Entrate sono del tutto sprovvisti, essendo gli stessi meri pubblici ufficiali, obbligati, per l’appunto, alla segnalazione della notizia di reato.

In proposito, appare opportuno menzionare l’art. 220 disp. att. c.p.p. che ratifica quanto qui detto là dove afferma che “quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergano indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice”.

Per l’applicabilità del succitato articolo attuativo è essenziale individuare una definizione di “indizio di reato” che circoscriva ed individui l’istante temporale esatto dal momento a partire dal quale l’ispezione deve rispettare gli stretti dettami del Codice di rito [per tali e successive considerazioni v. A. PARROTTA, I confini delle acquisizioni tributarie nel processo penale: regole e limiti. in Riv. diritto penale della globalizzazione, 5 marzo 2018]. In particolare, l’indizio di reato si distingue dal semplice sospetto poiché il primo è legato ad elementi fattuali certi e concreti mentre il secondo è una mera supposizione, vaga ed imprecisa. La nozione di reato è utile anche ai fini di individuare la linea di demarcazione tra la funzione di polizia amministrativa (preventiva) e la funzione di polizia giudiziaria (postuma e repressiva). Dunque, proprio in tale contesto, l’art. 220 disp. att. c.p.p. costituisce un presidio garantista a favore del soggetto potenzialmente sottoponibile ad indagini e, perciò, potenziale attenzionato dal Sistema penale. Quanto al momento a partire dal quale sorge l’obbligo di osservare le norme del codice di procedura penale e, dunque, diviene operativo l’art. 220 disp. att. c.p.p., da parte di chi svolge attività ispettiva, occorre muovere dalle Sezioni Unite Ranieri, le quali hanno chiarito che il presupposto dell’operatività della norma sia non l’insorgenza di una prova indiretta, quale quella indicata dall’art. 192 c.p.p., bensì la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e, nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Raineri, Rv. 220291). Ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale ha circondato tale norma. Il “dilemma” concerne proprio l’utilizzabilità in sede dibattimentale di atti o dichiarazioni assunte, nella fase di accesso, in violazione (formale) dell’art. 220 disp. att. c.p.p.

In particolare, secondo un primo orientamento la mancata osservanza delle disposizioni ex art. 220 disp. att. c.p.p. comporterebbe, nel processo penale, l’inutilizzabilità degli atti acquisiti in violazione di tale norma. Si tratta della tesi, di derivazione strettamente penalistica e garantistica per i diritti della persona sottoposta ad un processo penale, dell’inutilizzabilità derivata o patologica degli atti successivi a quelli dal momento in cui sono emersi indizi di reato senza la preventiva adozione delle cautele e garanzie di cui al Codice di rito, evocativamente indicata anche come la tesi del “frutto dell’albero avvelenato”: ciò che è derivato da un’attività illegittima genera materiale inutilizzabile (cfr. Cass. sez. III, 10 febbraio 2010, n. 15372; Cass. sez. III, 2 ottobre 2014, n. 3207; con particolare riferimento al processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, Cass. sez. III, 18 novembre 2008, n. 242523). Un secondo orientamento, invece, colloca questa ipotesi di invalidità nello schema della nullità ex art. 178 c.p.p. lett. c (“intervento, assistenza e rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private nonché la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante”) (cfr. di recente, Cass. sez. III, 24 maggio 2016, n. 5235). Una sentenza del 2016 apre una terza via: in questo caso i Giudici affermano che “la violazione dell’art. 220 disp. Att. C.p.p. non determina automaticamente l’inutilizzabilità dei risultati probatori, ma è necessario che la nullità o la inutilizzabilità sia autonomamente prevista dalle norme del codice di procedura penale”, che quindi andranno individuate di volta in volta nel caso in cui si voglia azionare ex art. 220 disp. att. c.p.p. l’inutilizzabilità dell’atto. In altre parole, il tipo di invalidità va analizzato caso per caso e non può essere predeterminata.

Infine, sulla scia di questa “terza via”, la tesi prevalente in giurisprudenza del “male captum bene retentum” secondo cui ciò che è stato acquisito in fase di accesso fiscale, sebbene in violazione di un precetto procedimentale, è comunque utilizzabile nel processo penale.

Le giustificazioni che si danno in ambito tributario sono sostanzialmente due: a) mancanza di un divieto specifico di inutilizzabilità di quanto illegittimamente acquisto in ambito tributario (giustificazione formale); b) osservanza del principio di capacità contributiva: l’obbligazione tributaria è un’obbligazione di riparto, se si concedessero delle garanzie a chi evade si genererebbe una ricaduta su tutti gli altri contribuenti.

Come anticipato sopra, l’oggetto del “dilemma” concerne principalmente i documenti (es. allegati ad un PVC) e le dichiarazioni rese in sede di accesso.

Con riferimento ai documenti v’è una parte della giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Torino, sez. IV, sent. n. 1842 del 5.8.2022) la quale ritiene che il consenso prestato dal contribuente sottoposto a verifica fiscale avrebbe potenzialmente efficacia sanante di violazioni procedimentali commesse dai funzionari delle Entrate; l’assenza del consenso, al contrario, in quanto soggetti privi della qualifica di PG, impedirebbe loro di procedere al sequestro d’urgenza tipico del rito penale (cfr. Cass. civ., sez. V, n. 21446/2009). Altra parte della giurisprudenza, su questo fronte, ritiene al contrario che il consenso del contribuente, non essendo elemento normativamente richiesto ma solo frutto di interpretazioni giurisprudenziali, costituisca elemento neutro non in grado di sopperire alle violazioni commesse dagli organi accertatori. Orientamento, quest’ultimo, maggiormente condivisibile e ossequioso delle garanzie difensive, costituzionalmente tutelate, proprie del processo penale.

Si evidenzia in giurisprudenza che “in caso di accesso domiciliare senza autorizzazione, 1) la mancata opposizione del contribuente non equivale a consenso all’accesso né rende legittimo un accesso operato al di fuori delle previsioni legislative, comunque, 2) perché l’eventuale consenso o dissenso dello stesso contribuente all’accesso, legittimo od illegittimo che sia, è del tutto privo di rilievo giuridico non essendo richiesto e/o preso in considerazione da nessuna norma di legge” (Cass. Civ., n. 19689/2004). E ancora, la Suprema Corte ha, successivamente, precisato che: “d’altra parte, i superiori principi non possono essere derogati per effetto della consegna spontanea della documentazione da parte del contribuente ove si consideri che secondo questa Corte essa non può (...) rendere legittimo un accesso operato al di fuori delle previsioni legislative e, comunque, perché l’eventuale consenso o dissenso dello stesso contribuente all’accesso, legittimo od illegittimo che sia, è del tutto privo di rilievo giuridico non essendo richiesto e/o preso in considerazione da nessuna norma di legge” (Cass. Civ., n. 14701/2018).

In altre parole, sia il consenso espresso che la mancata manifestazione di un dissenso del contribuente o di terzi rispetto all’esercizio di una attività̀ ispettiva eseguita al di fuori delle garanzie predisposte dal legislatore a tutela del contribuente non hanno efficacia sanante del vizio procedimentale.

C’è poi un orientamento di mezzo che, in via di sintesi, ammette una terza possibilità là dove acconsente che il consenso del contribuente all’acquisizione di atti in sede di accertamento possa ricoprire efficacia sanante purché il consenso prestato, anche in ossequio a quanto statuito dalla normativa di tutela di cui allo Statuto del contribuente, possa dirsi essere realmente “informato”, cioè che il contribuente sia stata reso edotto delle conseguenze (e delle garanzie) che l’ordinamento fa derivare nel momento in cui lo stesso intenda prestare acquiescenza.

Tale interpretazione sarebbe fatta discendere dall’espressione “apertura coattiva” di cui all’art. 52, comma 3 D.P.R. 633/1972, secondo una lettura a contrario della norma, per sottolineare che la stessa sussisterebbe solo quando non vi sia il consenso del contribuente, dunque ammettendo – implicitamente – la possibilità di acquiescenza da parte dello stesso.

Ad esempio, in materia di apertura di una borsa rinvenuta in sede di un accesso si è affermato che l’autorizzazione dell’autorità̀ giudiziaria sia richiesta esclusivamente nel caso di “apertura coattiva” e non anche quando ci sia la collaborazione del contribuente. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 737/2021, ha precisato che: “è legittima l’acquisizione di documentazione custodita all’interno di una borsa rinvenuta in sede di verifica fiscale laddove l’apertura della stessa è avvenuta sia pur non spontaneamente, comunque volontariamente. In altre parole, la mancata contestazione da parte del contribuente in sede di chiusura del processo verbale di constatazione consentirebbe di superare la mancanza dello strumento di garanzia (il controllo dell’Autorità̀ Giudiziaria) di cui all’articolo 52, comma 3, D.P.R. 633/1972. In questo caso sarà̀, tuttavia, necessaria la preventiva informazione al contribuente della possibilità̀ di farsi assistere da un professionista, come previsto dall’articolo 12, comma 2, L. 212/2000.

Proprio su tale ultimo esempio la Cassazione, con ordinanza interlocutoria n. 10664/2021, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per valutare la possibilità̀ di assegnare la questione alle Sezioni Unite per risolvere il seguente contrasto: chiarire “se, in caso di apertura della valigetta reperita in sede di accesso, la mancanza di autorizzazione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, articolo 52, comma 3, possa essere superata dal consenso prestato dal titolare del diritto; se, nel caso in cui si dia risposta positiva alla prima questione, il consenso può dirsi libero ed informato anche qualora l’amministrazione finanziaria non abbia informato il titolare del diritto della facoltà, di cui alla L. 212 del 2000, articolo 12, comma 2, di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi della giustizia tributaria; se, infine, l’eventuale inosservanza del suddetto obbligo di informazione ed il conseguente vizio del consenso del titolare del diritto comporti l’inutilizzabilità della documentazione acquisita in mancanza della prescritta autorizzazione”.

Le Sezioni Unite si sono pronunciate con sentenza n. 3182 del 2 febbraio 2022 le quali, smentendo le conclusioni cui è pervenuta la sezione rimettente, più garantistica, ha ritenuto che l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria (PM) sia necessaria solo nei predetti casi di “coattività” all’acquisizione della documentazione in sede di accesso, non anche nei casi di apertura volontaria o in assenza di dissenso. Inoltre, adottando una lettura marcatamente di favore dell’Amministrazione finanziaria, si afferma l’insussistenza di precisi e specifici oneri di informazione a carico della stessa durante le fasi di una verifica fiscale, non potendo desumersi tali oneri – a detta della Corte – dallo Statuto del contribuente.

Sulla natura dei documenti acquisiti rispetto all’impianto codicistico occorre, peraltro, rammentare quell’ormai consolidato orientamento di legittimità con cui la Suprema Corte ha stabilito che il p.v.c. redatto dalla Guardia di Finanza (e lo stesso varrebbe per l’anagrafe tributaria ovvero l’Agenzia delle Entrate, n.d.r.) sia un atto amministrativo extraprocessuale, come tale acquisibile ed utilizzabile ex art. 234 c.p.p. In particolare, gli atti formatisi nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza (esterni quindi al procedimento penale) costituiscono documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p. fino a quando non sono emersi indizi di reato, mentre gli accertamenti compiuti a partire da quel momento dovranno essere considerati atti del procedimento, anche se questo non è ancora stato aperto dall’autorità giudiziaria. In altre parole, se emergono indizi di reato occorre procedere secondo le modalità previste dall’art. 220 disp. att. c.p.p. poiché altrimenti la parte del documento redatta successivamente a detta emersione non può assumere efficacia probatoria e quindi non è utilizzabile.

Con riferimento, invece, alle dichiarazioni rese dal contribuente nella fase di verifica fiscale esse sono utilizzabili finché ancora non apparivano elementi riconducibili all’emersione di un illecito penale-tributario (cfr. Trib. Torino, sent. cit.). Del tutto condivisibilmente, la Suprema Corte ha ricordato che, nella fase amministrativa delle verifiche fiscali, volte all’acquisizione di dati relativi al presunto inadempimento di un contribuente, in caso di emersione di indizi di reità la prosecuzione della raccolta dei dati deve avvenire nel rispetto delle disposizioni del Codice di procedura penale. Tuttavia, l’obbligo scatta soltanto quando, sulla base dei dati raccolti, siano già stati individuati tutti i profili costitutivi della fattispecie penale (come detto sopra in materia di momento “a quo” a partire dal quale valutare la presenza di indizi di reato).

Al contrario, risultano inutilizzabili le dichiarazioni rese dai soggetti coinvolti ai funzionari delle Entrate, se avvenute in epoca successiva all’emersione di indizi di reato: secondo il più attendibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, “in materia di prove, le dichiarazioni rese da persona nei cui confronti siano emersi, nel corso di attività ispettiva, anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato sono inutilizzabili nel caso in cui esse siano state assunte in violazione delle norme poste dal codice di rito a garanzia del diritto di difesa” (Cass. pen., sez. III, n. 3207/2015). Come detto sopra, i Funzionari delle Entrate, in quanto sforniti della qualifica di agenti di PG, non possono assicurare l’applicazione delle norme del codice di procedura penale, poste a tutela del diritto di difesa, che richiedono, in primo luogo, che siano forniti alla persona escussa, lambita da indizi di reato, gli avvisi ex art. 64 c.p.p.

 

Conclusioni

In conclusione, non pare superfluo sottolineare come l’obiettivo del sistema processuale penale italiano di escludere le prove acquisite contra legem attraverso la regola dell’exclusionary rules imponga in capo agli organi inquirenti/verificatori il rispetto di tutte le regole e i divieti del codice di rito nella fase delle indagini o delle attività ispettive, come nel caso oggetto del presente elaborato [A. PARROTTA, I confini delle acquisizioni tributarie nel processo penale: regole e limiti., cit.]. Riveste primaria importanza, come si è cercato di evidenziare, la risoluzione del “dilemma” di cui si è detto ossia la contrapposizione tra la c.d. “teoria del frutto dell’albero avvelenato”, la quale ritiene che i vizi incidano sugli atti successivi rendendoli inutilizzabili precludendo, dunque, l’utilizzo di ogni risultato ottenuto in seguito ad attività investigative o ispettive illegittime, e la c.d. tesi del “male captum bene retentum” , che invece nega la propagazione del vizio sull’atto successivo affermando l’utilizzabilità della prova acquisita illegittimamente.

A parere di chi scrive appare da ritenersi preferibile la prima delle succitate teorie, dell’invalidità derivata in altri termini, poiché, portando dentro sé un’anima più garantista sembra rendersi meno disponibile per eventuali utilizzi strumentali e politici della prova illegittima. Risulta, in conclusione, opportuno prendere posizione riguardo proprio al tipo di invalidità che investe la prova acquisita in violazione dell’art. 220 disp. att. c.p.p.: ad avviso di chi scrive una risultanza probatoria acquisita senza il pieno rispetto delle regole e dei vincoli processuali, su cui l’intero procedimento penale è fondato, deve essere dichiarata inutilizzabile ed essa non andrebbe assunta come base di una futura decisione del Giudice.