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Il Violino

Il violino
Il violino

Una straordinaria eccezione, tratta dal riordinamento dell’archivio di Piero Buscaroli, un racconto. Pubblicato, sempre col nome di Piero Santerno, sul “Roma” di cui era allora direttore.

Non si sa chi racconti e chi osservi: l’io narrante si sdoppia e si accompagna all’aura di una malinconia esistenziale e immaginaria, che sale e scende come un andamento musicale, appunto. Tutto nel nome di un concerto irraccontabile, se non nel nome di un sogno, di un rimpianto, una nostalgia senza nomi e senza scopi. La nostra?

 

Lui stava lì, in piedi, sul bordo del marciapiede, e guardava passare la gente. Era uscito di casa per fare due passi. Devi muoverti un po’, s’era detto: ingrassi in questa città. Ma non si muoveva. Dall’altra parte della strada, c’è un banchetto di collanine, cinture, quella ferraglia luccicante che le ragazze si mettono addosso, al collo, alla cintola. Cambiavano di continuo. Lui le vedeva da dietro e pensava, ma guarda, che natiche meravigliose hanno adesso, così rotonde, perfette, con questi calzoni, poi, ai miei tempi, non erano così. Sopra il banchetto, c’era il rosso manifesto d’un concerto. Debbo assolutamente sentire Szeryng, pensò, almeno la prima parte. Una sonata di Beethoven, quella stupenda sonata in sol maggiore di Brahms. Fece un po’ di conti: alle sette, al giornale, poi la telefonata a Roma, alle otto e mezzo, via di corsa.

Per Szeryng bisogna, è il più grande violinista d’oggi. Fu in quel momento che udì il suono del violino. Proprio dietro di lui, c’era quel vecchio, che tutti conoscono: le palpebre calate sugli occhi (è cieco, o non gl’importa di vedere?) il cappello grigio in capo, il cappotto grigio penzoloni sul corpo. L’aveva visto tante volte, passando, darci dentro con l’archetto inaridito su quelle corde polverose che gemono stridono. Gli era parso, un giorno, di Riconoscere un Capriccio di Paganini, poi concluse che doveva essersi sbagliato.

Ora, però, non c’erano dubbi, il vecchietto suonava il Concerto di Mendelsshon, in mi minore, per violino e orchestra. Ascoltò, attento, restando dov’era. Suonerà un frammento, a orecchio, si disse. Ma no, il vecchio, appoggiato al muro, suonava e suonava il concerto di Mendelsshon, lo suonava tutto. Proprio tutte le note, pensò. E l’intonazione, sotto quelle macerie, c’è. Già, si diceva, il mi minore è così estremista, come tonalità, che non è poi tanto difficile tenerla. Qui, però, in mezzo alla strada. E i passaggi veloci erano come rallentati, il vecchio ne usciva ansimando e zoppicando, ma vivo. C’era un avanzo di nobiltà, il ricordo lontano d’uno studio, la rovina d’un fraseggio. Il vecchio aveva studiato, sì.

Ecco, pensava allora lui, dov’è l’intoppo, e come si stringe quel nodo che blocca, e ferma tutto per un istante e poi ti spinge la vita verso la gloria di Szeryng, o il marciapiede di Chiaia? Chissà. Il vecchio continuava, solo, inascoltato tranne che da lui che stava lì: incespicava, sembrava cadere ad ogni istante, ma zoppicando andava verso il traguardo del primo tempo. Era tranquillo, il vecchio. Era lui, invece che se ne andava via, e pensava come è solo e nudo il violino quando non squilla le sue frasi di solista, ma tesse le piccola trame che lo tengono legato all’orchestra. E l’orchestra, senz’accorgersene, ce la metteva tutta, strumento per strumento. Però, pensava, questo concerto di Mendelssohn, non ci fai caso per degli anni, ma come è sempre bello. Ormai stava dirigendo lui, ed era già oltre il concerto di Mendelssohn, e pensava che cosa gli sarebbe piaciuto dirigere, una volta che il solista fosse uscito di scena, dopo gli applausi dopo l’intervallo.

Vediamo qualcosa di malinconico e forte, preso da quel declino struggente, a lui così caro della musica tedesca. Tedesca, pensò. Come dice Thomas Mann, esiste poi una musica che non sia tedesca? Il Requiem Tedesco, forse, poi lo scartò: troppo lungo. O il Canto del Destino, o quella cantata lancinante Rinaldo di Johannes Brahms? Caro Brahms, pensò, Ma anche Bruckner, la Quarta, la Settima o l’Ottava. Una volta, Giorgio Vigolo gli aveva scritto, caro amico, sono d’accordo con Lei, il primo tempo dell’Ottava Sinfonia è il capolavoro di Bruckner.

Lo riscosse dai suoi sogni un arrivo. Fresca, elegante, sicura di sé, l’amica si fermò sorridendo. Il più bel sorriso di Napoli, certamente. Che cosa fai? Lui avrebbe voluto rispondere, non vedi, stiamo suonando Mendelsshon. Disse soltanto, ascolto. E lei: ma come, ascolti quel vecchietto che strimpella? Lui disse, distratto, non strimpella mica tanto, sai, è un musicista. Suona il concerto di Mendelssohn, lui ci mette il violino, io l’orchestra. Poi tacque e concluse, con se stesso: due carriere sbagliate. Lei lo guardò, e disse, ma come, cantavi? Lui rispose, sì in un certo senso, nella memoria. Lei gli toccò un braccio, lieve: ma insomma vuoi offrirmi un aperitivo da Caflisch? Volentieri, disse lui, compito. Attraversarono la strada ingombra di automobili strombettanti, isteriche, idiote.

Le luci s’erano spente, era finito tutto: prima dell’intervallo.