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Intendiamoci!

riflessioni
riflessioni

Vorremmo pensare soltanto alle muse e discipline a loro sorelle, vorremmo interessarci solo di poesia, e polemizzare solo con la vita rivolgendoci alla natura, per trovarla di volta in volta, francescanamente sorella o leopardianamente matrigna. Vorremmo poter guardare agli uomini e alle opere loro con il distacco del saggio e capirne il fatale divenire con rassegnata partecipazione, vorremmo restare nelle alte regioni della conscia illusione.

Ma se questo tempo è ovunque ingrato alla poesia e nemico del sogno, il nostro paese sembra proprio fatto apposta per togliere ogni feconda illusione, con l’offerta di una umiliante realtà.

Quando ci tocca assistere allo spettacolo di un paese mortificato da una turba vociante di politici arrivisti,  presuntuosi e inetti,  quando ogni parola che sottintenda alti ideali la vediamo usata soltanto (con voluta retorica) in poche cerimonie ufficiali e poi sbeffeggiata in ogni altra occasione, quando ogni elementare virtù cade nell’indifferenza ostentata dai cinici e disonesti mestatori della cosa pubblica: come possiamo starcene in disparte a conversare con le muse?

Quando ci tocca assistere impotenti al progressivo rimbecillimento dell’Occidente (salvo qualche sporadica ripresa che mantiene in vita l’idea della rinascita), e vediamo il nostro paese farsi portabandiera di ogni meschino rinunciatarismo, da qualsiasi parte si levi, come possiamo rifugiarci nella poesia per non sentire il richiamo di una virilità che si vuole avvilire?

E se vi sono momenti che la speranza ci abbandona, e la tentazione a lasciar correre si presenta con l’aspetto indiscutibile della fatalità, restano soltanto momenti e ci basta la voce, una parola, un atto o solo l’aspetto indisponente dei nostri avversari per restituirci forza e combattività. Ci bastano spesso poche parole, di chi siede in alto loco, sonanti offesa alla dignità e al buon senso, perché subito sorga in noi lo sdegno pensando al ridicolo che sommerge il paese, per sentire un trasporto, un moto spontaneo che non è propriamente poesia.

Allora scendiamo nella mischia e attacchiamo rabbiosamente e senza mezzi termini tutti coloro che riteniamo in qualche modo responsabili dell’estrema decadenza del paese. Al sogno poetico viene a sostituirsi il sogno di un paese migliore, un paese del quale non ci si debba vergognare come ora invece accade.

Non ci si dica, per carità, che restiamo i soliti sognatori proprio perché sogniamo un paese migliore; non pensiamo ad un paese di tutti galantuomini, di tutti patriotti, di tutti valorosi; questo non lo pensiamo e nemmeno lo vorremmo. A noi piace il mondo, la società, l’uomo, così com’è, il sublime riscatta il misero a tal punto che un santo basta per illuminare più generazioni.

Vorremmo però, e non ci sembra di chiedere troppo, un governo degno di questo nome, vorremmo che i ladri, almeno quando vengono scoperti, finissero in galera anche se, e a maggior ragione, sono onorevoli e siedono in parlamento, vorremmo che il papa, possibilmente non scadesse mai al rango di un sindacalista, o che almeno non avesse ad immischiarsi d’autorità nelle faccende dello stato italiano; è chiedere troppo?

E possiamo anche aggiungere il desiderio che la scuola, la radio, la televisione avessero veramente e solamente il compito di educare, che alle forze dell’ordine fosse data la possibilità di funzionare sul serio. Quando questo avverrà, e prima o poi dovrà avvenire, noi torneremo ad occuparci delle muse lasciando volentieri a chi di dovere la cura delle cose pubbliche.

Pubblicato il 25 giugno 1967