x

x

La Cassazione ha "tumulato" l’anatocismo

1. Premessa

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, (finalmente) investite della questione, ormai insostenibile, della legittimità del cosiddetto “anatocismo” (bancario?) [1], hanno in realtà sollevato un polverone senza precedenti nella storia della giurisprudenza bancaria.

Annullare, di fatto, una prassi (vedremo di dimostrare che come tale essa debba essere qualificata) secolare, soprattutto a seguito di innumerevoli pronunzie, sia di merito che di legittimità, a dir poco “schizofreniche” - vuoi nel contenuto, vuoi negli effetti prodotti in dottrina e nel comune sentire - non è cosa da poco.

E allora, quasi automatiche, ne sono derivate previsioni catastrofiche sui rischi bancari legali, azioni cautelative del sistema bancario stesso, sommovimenti di matrice consumeristica, valutazioni di politica economica e del diritto le più disparate.

Tutte cose legittime, va premesso, senza però evitare di criticarne i toni, gli strumenti, le finalità.

Per lo più si è trattato, infatti, di mere difese corporative, degli uni come degli altri interessi in gioco, secondo noi poco o male argomentate, soprattutto in chiave prospettica e non fermandosi al dato testuale della pronunzia che qui si annota [2].

Tra l’altro, condividendo un’opinione espressa da altri, e che ci piace riportare testualmente (ancorché riferita alla medesima ipotesi di tipo economico formulata all’indomani della famigerata delibera CICR del 9 febbraio 2000), “non è ben chiaro sulla base di quali studi sono state elaborate le cifre diffuse degli organi di informazione sul probabile costo dell’ipotizzata restituzione degli interessi anatocistici” .

Da parte del sistema bancario, infatti, si è commesso l’errore – a nostro avviso – di non prevedere adeguatamente, muovendosi magari con strumenti di “concertazione” altre volte utilizzati con successo, gli effetti comunque ineliminabili (a prescindere da questa autorevole decisione) della citata delibera CICR e della mai sopita voglia di “rivalsa” delle associazioni dei consumatori e risparmiatori in subiecta materia.

Da parte avversa, invece, si è subito gridato “al lupo”, sbandierando con troppa facilità la notizia ai disinformati, molti dei quali purtroppo oggi ritengono che con semplice “lettera raccomandata” indirizzata alla propria banca si otterrà – chissà mai sulla base di quali calcoli – la restituzione degli interessi (indebitamente) percepiti con l’applicazione del censurato meccanismo anatocistico.

Nulla di tutto questo, almeno per ora, e non sta a noi dire cosa accadrà, se non consigliare, questo sì, prudenza e, ove mai si giunga a contenzioso, di percorrere la via dell’accordo e non dei tribunali!

Venendo invece al dictum di questa eclatante pronunzia della Suprema Corte, che ci piaccia o no, è con essa che, da oggi in poi, dovremo confrontarci, pur non trovandoci, notoriamente, in un ordinamento di common law, ma che non può di certo ignorarla.

Altre avventate dichiarazioni che abbiamo avuto modo di leggere o ascoltare sul tema, infatti, hanno insistito su questo aspetto, nient’affatto tenendo in (più che) debita considerazione che qualsiasi giudice, nel nostro Paese, è libero di conformarsi (così come di discostarsi) dalle pronunzie della Corte di legittimità, e che questa del 4 novembre del 2004 era molto attesa.

Essa, per molti Tribunali, risulta in qualche modo “liberatoria”, e tenteremo di dimostrare il perché, dato che anche noi ci permettiamo di ritenere che lo sia (o che dovrebbe esserlo) anche per la dottrina, oltre che ovviamente per il mercato creditizio.

2. L’anatocismo come “prassi”, non uso nè consuetudine

Ad essere sinceri, prima di addentrarci nella disamina critica della situazione sino ad oggi creata dalla stessa Cassazione e dalle parti già citate su questo tema, premettiamo di essere convinti che l’idea di fondo che ci conduce a considerare più che giusta la sentenza in commento potrebbe essere giudicata la più debole, a prima vista, tra quelle sino ad oggi autorevolmente esposte [3].

Noi non partiremo, infatti, dal (pur innegabile) revirement giurisprudenziale, dalla legge sull’usura, dalle considerazioni storiche circa l’opportunità dell’anatocismo, dalla distinzione tra usi negoziali e usi normativi, ecc.

Tutto è stato già abbondantemente oggetto di analisi negli scritti che citeremo, ritenendo ultroneo – e non presuntuoso – il ripescaggio di concetti che, per la verità, riteniamo siano stati fin troppo argomentati dalla dottrina, ferma rimanendo la nostra opinione circa la fondatezza o meno delle ricostruzioni utilizzate.

Vogliamo invece proporre un (nuovo?) argomento di riflessione, che è quello dell’utilizzo, noto e inconfutabile, nel sistema delle contrattazioni tra banche e clienti, di “prassi”, ovvero di comportamenti, atti, procedure che, non ci interessa in questa sede quanto, hanno sicuramente finito con l’integrare quel “diritto vivente” di cui parla la stessa sentenza in rassegna, nella sua articolata motivazione.

Parliamo di “prassi” perché, difettando della opinio iuris e, di più, addirittura della “bilateralità” propria di clausole che invece dovessero rispondere ad usi accettati, in quanto almeno noti, essi si vanno a posizionare in un asse mediano tra gli stessi usi, per l’appunto, e le consuetudini [4].

Il nostro mercato finanziario in generale sta lasciando troppo spazio alle “prassi”, le quali sono forme improprie – e pericolose, in quanto per lo più unilaterali - , di “autonormazione”.

Anche qui è bene ricordare che non siamo un Paese di common law, che le best practices sono da accertarsi ma proprio in quanto “migliori” regole di condotta, e non trovano invece da noi legittimazione come fonti del diritto comportamenti, spesso arbitrari, degli operatori, ancorché questi siano accettati – non importa quanto consapevolmente – dalla clientela.

E’ bene chiarirci con un esempio, banale ma a nostro avviso emblematico.

Il cassiere di banca che richiede al cliente occasionale, al fine della negoziazione di un assegno, la presentazione allo sportello di almeno due documenti di identità validi, ferme rimanendo le (astrattamente) sacrosante regole di tutela dell’affidamento e della circolazione dei titoli di credito, non sta osservando alcuna norma di legge, né generale né speciale. Egli sta al limite interpretando “a soggetto” gli obblighi di diligenza del “buon banchiere”, pure imposti dal codice civile (art. 1176, co.2), ma non potrà trincerarsi dietro questa regola, né tantomeno dietro quelle specifiche eventualmente dettate da interpretazioni associative o da circolari interne.

Questa “prassi” dei documenti, che ha conosciuto anche eccessi che hanno creato contenzioso non così infrequente, non è balzata agli onori delle cronache al pari dell’anatocismo, solo perché – in limine- essa non crea più di tanti problemi concreti come quello di dover pagare delle somme maggiori a fronte di denaro preso a prestito!

Tutto ciò per ribadire un concetto del quale ci siamo convinti nell’analisi della vicenda “anatocismo”: trattasi, cioè, di “prassi” ma, per essere tranchante, anche laddove si trattasse di “uso” poco importerebbe se negoziale o normativa fosse la sua natura, a questo punto questione meramente “accademica” [5].

Un uso, prassi o comportamento consuetudinario che dir si voglia non può trovare posto, oggi, nel nostro panorama delle fonti del diritto [6], in specie di quello bancario e finanziario.

Esso, come è stato efficacemente affermato, sarebbe infatti più oscuro al cliente delle norme di legge, “e ciò specialmente in materie che presuppongono nozioni specialistiche” [7].

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, a nostro parere, mostrano di cogliere questo profilo della tematica, scottante, dell’anatocismo, tutte protese alla “sanatoria”, si badi bene, non di posizioni pregresse – come malamente ha tentato di fare il legislatore del 1999, prendendosi le giuste censure della Corte Costituzionale – ma di una lacuna nell’apparato normativo a tutela del cosiddetto “contraente debole”, consumatore o imprenditore che sia.

Infatti, altro errore di valutazione che abbiamo sentito fare nei vari commenti di questi anni, è quello di considerare più difendibile un imprenditore/professionista rispetto al consumatore.

Ciò non è sempre vero, proprio come in questo caso, tanto che non condividiamo il mero richiamo, nell’ottica de qua, delle sole norme codicistiche del 1469-bis e ss., perché l’anatocismo, se danni ha prodotto, ne ha causati maggiormente alle imprese [8].

A nostro avviso, la pattuizione di anatocismo avrebbe dovuto trovare (e dovrebbe trovare), in conclusione, apposito spazio negoziale, con sottoscrizione a parte della relativa clausola, così come stabilisce l’art. 1341 c.c.. Ciò evidentemente per il futuro, stante altresì il richiamo proveniente dalla pronunzia in rassegna, ed in vista della prevenzione di ulteriori conflitti con la clientela [9].

3. L’evoluzione giurisprudenziale

La S.C. non ha sbagliato, quindi, oggi, compiendo questa “inversione a U” ritenuta, dai più, pericolosa e fuori dalla storia.

Ha sbagliato, invece, prima della sentenza del 1999, quando ha riconosciuto – con minore convinzione ed argomentazione – la prassi dell’anatocismo.

E’ qui che ha creato l’illusione – va ribadito che non trattasi, come d’altronde oggi, di certezza – che calcolare gli interessi, compensativi o moratori che fossero, su un montante (di per se stesso fatto di capitale e interessi maturati sul medesimo) fosse corretto.

Come dicevamo poco sopra, le clausole anatocistiche – le quali, va ricordato, sono lecite se rispecchiano la configurazione ammessa dall’art. 1283 c.c. – dovrebbero formare oggetto di (futura) negoziazione.

La Cassazione, con una frase che si presta, a nostro modo di vedere, a poche interpretazioni, in ossequio al vecchio e saggio brocardo “in claris non fit interpretatio”, afferma – nella articolata motivazione della sentenza 21095/2004 – che “di fatto, le pattuizioni anatocistiche, come clausole non negoziate e non negoziabili, perché già predisposte dagli istituti di credito (…) venivano sottoscritte dalla parte che aveva necessità di usufruire del credito bancario e non aveva, quindi, altra alternativa per accedere ad un sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare”.

Ecco perché abbiamo utilizzato il termine “prassi”, che ci piace maggiormente di altri per indicare una ripetizione di atti o fatti che sono, in genere, condizionati dall’agere di chi li ha creati, difettando (lo ribadiamo) quasi sempre dell’accondiscendenza della parte che si trova a porli in essere.

E’ altrettanto ovvio che la ricognizione di usi, quand’anche avesse prodotto – come da taluni dimostrato – la loro validazione attraverso le sentenze ante 1999, non può certamente ritenersi produttiva di effetti oggi, in un ordinamento sezionale (quale è quello bancario e finanziario) iper- regolamentato, denso di norme non solo di rango primario ma, soprattutto, secondario (queste sì, fonti del diritto).

Ciò premesso, si comprende come risultino inconferenti – ai fini che qui ci si propone – l’attribuzione alle c.d. “NUB” del valore di usi negoziali, la declaratoria di validità dei soli usi normativi come fonti del diritto, la sussistenza o meno della opinio come requisito per il formarsi dell’uso [10].

4. Conclusioni: l’anatocismo è legittimo?

Viene a questo punto da chiedersi se questo istituto, dal nome cacofonico e difficile a metabolizzarsi da parte dei non addetti ai lavori, trovi ancora una sua collocazione nel nostro ordinamento giuridico e, se sì, quale essa debba essere.

La risposta alla prima domanda è certamente affermativa.

L’anatocismo, ovvero la capitalizzazione di interessi (su interessi, va precisato, altrimenti non è anatocismo; v. a tale proposito, recente dottrina [11]) è assolutamente possibile, lecito e corretto, ma solo se praticato in ossequio alle regole di cui all’art. 1283 del nostro codice civile.

Questo prevede che si possano chiedere gli interessi su interessi “scaduti” (particolare, quest’ultimo, spesso dimenticato dai commentatori), cioè che sono già dovuti in virtù di un rapporto concluso per un certo periodo [12], se ( e solo se) è stata proposta idonea domanda giudiziale – cioè si è fatta istanza ad un giudice per il riconoscimento, in via monitoria, di detta capitalizzazione e delle somme che ne derivano –, ovvero se si è stipulata apposita “convenzione posteriore” alla loro scadenza [13].

Non si ritiene, ci si perdonerà la superficialità ma è solo una semplificazione, utile in questa sede (soprattutto perché tutto, si può dire, è stato già scritto!) intrattenersi sia sulla locuzione “dovuti da almeno sei mesi” riferita agli interessi medesimi, sia sull’incipit della norma in esame, costituito dalla frase “salvo usi contrari”, in quanto abbiamo già abbondantemente ribadito il nostro giudizio circa la validità di siffatti usi, anche laddove esistenti (e contrari).

L’Organo Supremo di legittimità ha suggellato questa conclusione, che abbiamo sopra sintetizzato, in una sentenza delle sue Sezioni Unite; lo ripetiamo, ribadendo ciò che per noi è ovvio, che poteva di certo essere detto prima, che forse avrebbe potuto essere detto meglio [14], ma che appare ormai ineluttabile.

Anche questo concetto è banale, ma ci piace riprenderlo.

Dinnanzi alla coesistenza, in una medesima situazione giuridica, di due interessi contrapposti, astrattamente entrambi meritevoli di tutela, chi ha il compito di stabilire quale tra i due debba prevalere guarderà, come noto, a quello “superiore”, a quello che, anche (perché no) in termini “quantitativi”, debba essere ritenuto maggiormente diffuso e giuridicamente tutelato.

Una “scala dei valori”, anche nel diritto, si impone; con la differenza che quella dei valori morali è personalizzata, personalizzabile, individuale per definizione e non necessariamente condivisibile.

Quella che stabilisce la legge, e con essa chi la interpreta e la applica (o deve farla applicare), deve tenere conto, al contrario, di interessi diffusi (in casi come questo), non particolaristici, concreti, universali, comunque maggiormente rispondenti non solo alle regole scritte, ma anche a quelle non scritte del nostro ordinamento [15] .

Bene.

Nel settore dell’intermediazione bancaria e finanziaria vanno trovando sempre più spazio norme e regole (si badi bene, non “usi”), per lo più condivise anche a livello europeo e internazionale, di customer protection, di fairness, di accountability (l’inglese qui vuole sottolineare l’universalità, nel dibattito odierno, dei confini del nostro diritto).

Tutte riconducibili, come abbiamo tentato di dimostrare altrove [16], a nostri già consolidati e granitici principi costituzionali e civilistici (tutela del risparmio e dell’affidamento, del contraente debole, buona fede precontrattuale e contrattuale, diligenza del mandatario, trasparenza, ecc.)

La sentenza in rassegna, da questo punto di vista è – al contrario di quanto affermato dai primi commentatori – ben argomentata, quando dice, in particolare, che:

a) “in presenza di una ricognizione, pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi, però, erronea nel presupporre l’esistenza di una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva [deve] avere una portata naturaliter retroattiva”; b) “l’evoluzione del quadro normativo – impressa dalla giurisprudenza e dalla legislazione degli anni ’90, in direzione della valorizzazione della buona fede come clausola di protezione del contraente più debole, della tutela specifica del consumatore, della garanzia della trasparenza bancaria, della disciplina dell’usura – ha innegabilmente avuto il suo peso nel determinare la ribellione del cliente”.

E’ stato ricordato da autorevole dottrina che “la vicenda dell’anatocismo rende evidente uno stato di insoddisfazione di tutti, operatori, clienti, giudici sull’assetto regolamentare del sistema bancario e finanziario (…); qualche sbaglio, da qualche parte, almeno qualcuno deve pur averlo commesso” [17] .

Ci permettiamo di aggiungere che perseverare nell’errore, non cercando soluzioni adeguate in un sistema che vuole definirsi “moderno” ed “avanzato”, sarebbe oltremodo diabolico!

Non è poi revocabile in dubbio la circostanza che, nel bene e nel male, il legislatore abbia inteso – di concerto, oggi, con la giurisprudenza dominante – avocare a sé la competenza sulla materia; ciò sin dall’intervento del 1999 [18] e, ce lo auguriamo, anche nell’immediato futuro, magari con un’azione più “chirurgica” sulle norme bancarie dettate ad hoc nello stesso testo unico bancario o, addirittura, nel codice civile [19].

Lo stesso articolo 1283 potrebbe essere oggetto di intervento, recidendo quell’inciso che si riferisce ad usi che certamente, oggi, non sono richiamabili.

Inoltre, la nuova normativa sulla “conciliazione” recata dalla riforma del diritto societario ben potrebbe recepire le istanze del risparmio, nel senso di favorire il ricorso a questo importante, quanto misconosciuto nel nostro Paese, istituto di risoluzione alternativa delle controversie, onde porre un argine all’immane contenzioso che, sicuramente, si riverserà – in subjecta materia – sui tribunali.

La questione anatocismo dimostra ancora una volta, per concludere, che il nostro ordinamento bancario, nella sua sottosezione attinente le condizioni generali di contratto [20] e, quindi, ai rapporti banche-clienti, è ancora immaturo: è questa la via maestra dettata dalla Cassazione, e forse ora converrà seguirla.



[1] Sarà poi opportuno chiedersi se a questo termine debba oggi riconoscersi ancora una valenza più generale ovvero limitarne la portata, come appare a chi scrive.

[2] G. DI BENEDETTO, Anatocismo e costo della disponibilità tra vecchi contratti e nei sistemi di pagamento elettronici, in questa Riv., 2000, I, p. 600, nota 28.

[3] Ci limitiamo a ricordare, scusandoci per eventuali omissioni e con riferimento alla questione “anatocismo” in generale (ovvero riferita ad altre pronunzie giurisprudenziali), gli scritti di A. NIGRO, La legge sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari,in Dir.ban.mer.fin., 1992, I, p. 421; dello stesso A., Disciplina della trasparenza delle operazioni bancarie e contenuto delle obbligazioni contrattuali: note esegetiche, stessa Riv., 1998, II, p. 511 e ss.; ancora, dello stesso A., L’anatocismo nei rapporti bancari: una storia infinita?, stessa Riv., 2001, I, p. 269 e ss.; G. CABRAS, Conto corrente bancario ed anatocismo fra diritto e pregiudizio, stessa Riv., 1999, I, p. 282; Contratti bancari, anatocismo e problemi di costituzionalità (con nota redazionale), stessa Riv., 2000, II, p. 284 e ss.; C. GARILLI, L’anatocismo nei rapporti bancari alla luce della deliberazione del CICR 9 febbraio 2000, stessa Riv., 2001, I, p. 165 e ss.; A. NIUTTA, Sul c.d. “anatocismo bancario” il Tribunale di Roma non si adegua…., stessa Riv., 2002, I, p. 210 e ss..

[4] Per la distinzione tra “usi” e “consuetudini”, esaminata con doviziosa attenzione, proprio in relazione al casus belli dell’anatocismo, si veda, per tutti, A. M. CAROZZI, Contratti bancari e anatocismo, in Dir.ban.mer.fin.., 2000, I, pp. 206-228.

[5] E’ stato opportunamente affermato da DI BENEDETTO, op. cit., p. 610, che “di fatto il generico collegamento agli usi trasforma l’anatocismo in una sorta di dogma di cui, smarrite le ragioni, vengono per ciò stesso smarriti i confini”.

[6] Come non concordare con chi afferma (sempre DI BENEDETTO, op. cit., p. 614) che “l’importanza degli usi va quindi considerata recessiva e l’attenzione concentrata sulla disciplina dettata dalle fonti legali”?

[7] Così di Benedetto, op. cit., p. 614.

[8] Ovviamente via dato atto a A. NIGRO, Disciplina della trasparenza delle operazioni bancarie, cit., p. 511, di aver individuato per primo nel divieto di rinvio agli usi di cui all’art. 117 del TU bancario un divieto di anatocismo. La circostanza è peraltro sia nota che, a maggioranza, condivisa.

[9] In tal senso, più autorevolmente, G. DE NOVA, Capitalizzazione trimestrale: verso un revirement della Cassazione, in I Contratti, 1999, p. 446.

[10] A tale proposito, sinceramente è parso un mero esercizio teoretico, non utile al fine di dare chiarezza alla situazione creatasi dopo la(e) pronunzia(e) di cui discorriamo, il richiamo ai principi del diritto pubblico (rectius: a talune teorie sugli usi) che vedrebbero bene un “uso” anche senza una di quelle due caratteristiche, la opinio, che da sempre è stata ritenuta coessenziale all’esistenza del medesimo. Aggrapparsi a tale escamotage ermeneutico per giungere e confutare le tesi della Suprema Corte ci è sembrato francamente eccessivo, anche perché crea confusione e distoglie l’attenzione dalla considerazione, assorbente, che l’uso non può avere valore se non richiamato e, quand’anche lo fosse, dovrebbe mancare in quella materia ogni altro riferimento normativo. In materia di anatocismo o, come taluni preferiscono, di “capitalizzazione di interessi”, vi sono sia norme civilistiche, come noto, che speciali, per cui il problema non ha da porsi.

[11] G. DI BENEDETTO, op. cit., passim.

[12] Inutile precisare che intendiamo per “concluso” anche un rapporto continuativo che prevede diverse e periodiche “chiusure contabili”, perché di questo e non di altro si dovrebbe parlare se non si vuole essere fuorviati nell’esame di questo meccanismo tecnico. Anche per queste importanti considerazioni tecnico-finanziarie si veda DI BENEDETTO, op. cit., pp. 593 e ss., il quale opportunamente parla di un metodo di “appuramento del conto”.

[13] Qui ha ragione da vendere G. GABRIELLI, Capitalizzazione trimestrale degli interessi attivi ed usi creditizi, in Riv. Dir. Civ., 1999, p. 446, quando afferma che “solo un legislatore del tutto sordo alle esigenze della pratica operativa avrebbe potuto imporre …una convenzione posteriore al termine di esigibilità”.

[14] E’ stato giustamente osservato (ex multiis, A. BELLUSCIO, Nullità retroattiva per le clausole bancarie anatocistiche, in Dir. Pr. Soc., 2004, n. 23, p. 73; A. BUSANI, Interessi: l’incognita della prescrizione, in Il Sole 24Ore, 10 novembre 2004, p. 28; N. SALANITRO, Gli interessi bancari anatocistici, in B.b.t.c., Suppl. al . n.4/04, p. 21) che la sentenza de qua lascia aperte questioni e non offre soluzioni a quelle già esplose a seguito delle pronunzie del 1999. Questo è vero, ma a nostro avviso non è la S.C. l’Organo (costituzionalmente) preposto a dare suggerimenti – tradotti in atti aventi forza di legge – circa l’applicazione concreta di istituti giuridici a fattispecie di quotidiana esistenza!

[15] E’ il “diritto vivente” evocato nella motivazione della sentenza e da molti giuristi.

[16] R. RAZZANTE, Il conflitto di interessi tra lex specialis e normativa civilistica: un tentativo di ricostruzione della disciplina applicabile, in Riv. Dir. Comm., 2004, II, p.

[17] P. FERRO-LUZZI, Una nuova fattispecie giurisprudenziale: l’anatocismo bancario; postulati e conseguenze, in Giur. Comm., 2001, I, p. 34.

[18] Come ricorda opportunamente A. M. CAROZZI, op. cit., p. 210. Nello stesso senso , C. GARILLI, op. cit., p.168.

[19] Nelle more, non può comunque non concordarsi – come già abbiamo peraltro più volte sottolineato nel presente scritto – con l’idea di M. SOLFERINI, Il risarcimento derivante dalla capitalizzazione trimestrale di interessi anatocistici, in Tidona.com, dicembre 2004, il quale afferma lapidariamente che “se l’unico contenuto di una regola consuetudinaria fosse quello di ammettere l’anatocismo nei rapporti tra banca e cliente, si tratterebbe di una regola inutile, in quanto puramente ripetitiva della norma di legge, che (…) non contiene un divieto assoluto, ma, all’opposto, afferma l’ammissibilità dell’anatocismo, sia pure nei limiti dalla stessa norma indicati”.

[20] In tal senso, esplicitamente, N. SALANITRO, op. cit., p.13. Si badi bene che vogliamo riferirci a “condizioni generali di contratto” che siano rispettose dei paletti inseriti, per la contrattazione “di massa”, nel nostro codice civile. Infatti, in tutti i commenti nei quali sono state richiamate le condizioni generali predisposte dall’ABI (le ex NUB, per intenderci) si è dimenticato il particolare, di centrale rilevanza, che esse non possano costituire – per loro stessa previsione e sottolineatura della Banca d’Italia in corso di istruttoria e istruzioni di vigilanza – che una mera “traccia” per gli operatori, non assolutamente obbligati a seguire gli schemi di contratto ivi proposti per la sottoposizione alla clientela dei rispettivi moduli da sottoscrivere. Se ciò è vero, come è vero, non si vede come esse avrebbero potuto (e potrebbero) mai diventare “uso negoziale” e, tantomeno, “normativo”, attraverso il quale giustificare l’inserzione di clausole anatocistiche nei contratti de quibus.

Come ha poi efficacemente osservato V. CARBONE, Interessi anatocistici tra interventi giurisprudenziali, cit., p.1489, “accade spesso, quando la giurisprudenza, nel tentativo di dare concretezza alle nuove regole di tutela del consumatore (…), interviene in un sistema interpretativo ormai consolidato, modificando l’assetto degli interessi che si sono venuti cristallizzando, che la parte pregiudicata dall’intervento giurisprudenziale, reagisce (…)”. Ancora più sferzante G. COTTINO, La Cassazione muta indirizzo in tema di anatocismo, in Giur. It., 1999, I, p.1223, il quale afferma che “certe tentazioni, sempre striscianti nel mondo creditizio, di tartassare contrattualmente e finanziariamente l’utente, paiono un po’ fuori moda”. Queste opinioni, ancorché espresse all’indomani delle sentenze del 1999, sono del pari esportabili nel quadro che si è oggi delineato.

1. Premessa

Le Sezioni Unite della Suprema Corte, (finalmente) investite della questione, ormai insostenibile, della legittimità del cosiddetto “anatocismo” (bancario?) [1], hanno in realtà sollevato un polverone senza precedenti nella storia della giurisprudenza bancaria.

Annullare, di fatto, una prassi (vedremo di dimostrare che come tale essa debba essere qualificata) secolare, soprattutto a seguito di innumerevoli pronunzie, sia di merito che di legittimità, a dir poco “schizofreniche” - vuoi nel contenuto, vuoi negli effetti prodotti in dottrina e nel comune sentire - non è cosa da poco.

E allora, quasi automatiche, ne sono derivate previsioni catastrofiche sui rischi bancari legali, azioni cautelative del sistema bancario stesso, sommovimenti di matrice consumeristica, valutazioni di politica economica e del diritto le più disparate.

Tutte cose legittime, va premesso, senza però evitare di criticarne i toni, gli strumenti, le finalità.

Per lo più si è trattato, infatti, di mere difese corporative, degli uni come degli altri interessi in gioco, secondo noi poco o male argomentate, soprattutto in chiave prospettica e non fermandosi al dato testuale della pronunzia che qui si annota [2].

Tra l’altro, condividendo un’opinione espressa da altri, e che ci piace riportare testualmente (ancorché riferita alla medesima ipotesi di tipo economico formulata all’indomani della famigerata delibera CICR del 9 febbraio 2000), “non è ben chiaro sulla base di quali studi sono state elaborate le cifre diffuse degli organi di informazione sul probabile costo dell’ipotizzata restituzione degli interessi anatocistici” .

Da parte del sistema bancario, infatti, si è commesso l’errore – a nostro avviso – di non prevedere adeguatamente, muovendosi magari con strumenti di “concertazione” altre volte utilizzati con successo, gli effetti comunque ineliminabili (a prescindere da questa autorevole decisione) della citata delibera CICR e della mai sopita voglia di “rivalsa” delle associazioni dei consumatori e risparmiatori in subiecta materia.

Da parte avversa, invece, si è subito gridato “al lupo”, sbandierando con troppa facilità la notizia ai disinformati, molti dei quali purtroppo oggi ritengono che con semplice “lettera raccomandata” indirizzata alla propria banca si otterrà – chissà mai sulla base di quali calcoli – la restituzione degli interessi (indebitamente) percepiti con l’applicazione del censurato meccanismo anatocistico.

Nulla di tutto questo, almeno per ora, e non sta a noi dire cosa accadrà, se non consigliare, questo sì, prudenza e, ove mai si giunga a contenzioso, di percorrere la via dell’accordo e non dei tribunali!

Venendo invece al dictum di questa eclatante pronunzia della Suprema Corte, che ci piaccia o no, è con essa che, da oggi in poi, dovremo confrontarci, pur non trovandoci, notoriamente, in un ordinamento di common law, ma che non può di certo ignorarla.

Altre avventate dichiarazioni che abbiamo avuto modo di leggere o ascoltare sul tema, infatti, hanno insistito su questo aspetto, nient’affatto tenendo in (più che) debita considerazione che qualsiasi giudice, nel nostro Paese, è libero di conformarsi (così come di discostarsi) dalle pronunzie della Corte di legittimità, e che questa del 4 novembre del 2004 era molto attesa.

Essa, per molti Tribunali, risulta in qualche modo “liberatoria”, e tenteremo di dimostrare il perché, dato che anche noi ci permettiamo di ritenere che lo sia (o che dovrebbe esserlo) anche per la dottrina, oltre che ovviamente per il mercato creditizio.

2. L’anatocismo come “prassi”, non uso nè consuetudine

Ad essere sinceri, prima di addentrarci nella disamina critica della situazione sino ad oggi creata dalla stessa Cassazione e dalle parti già citate su questo tema, premettiamo di essere convinti che l’idea di fondo che ci conduce a considerare più che giusta la sentenza in commento potrebbe essere giudicata la più debole, a prima vista, tra quelle sino ad oggi autorevolmente esposte [3].

Noi non partiremo, infatti, dal (pur innegabile) revirement giurisprudenziale, dalla legge sull’usura, dalle considerazioni storiche circa l’opportunità dell’anatocismo, dalla distinzione tra usi negoziali e usi normativi, ecc.

Tutto è stato già abbondantemente oggetto di analisi negli scritti che citeremo, ritenendo ultroneo – e non presuntuoso – il ripescaggio di concetti che, per la verità, riteniamo siano stati fin troppo argomentati dalla dottrina, ferma rimanendo la nostra opinione circa la fondatezza o meno delle ricostruzioni utilizzate.

Vogliamo invece proporre un (nuovo?) argomento di riflessione, che è quello dell’utilizzo, noto e inconfutabile, nel sistema delle contrattazioni tra banche e clienti, di “prassi”, ovvero di comportamenti, atti, procedure che, non ci interessa in questa sede quanto, hanno sicuramente finito con l’integrare quel “diritto vivente” di cui parla la stessa sentenza in rassegna, nella sua articolata motivazione.

Parliamo di “prassi” perché, difettando della opinio iuris e, di più, addirittura della “bilateralità” propria di clausole che invece dovessero rispondere ad usi accettati, in quanto almeno noti, essi si vanno a posizionare in un asse mediano tra gli stessi usi, per l’appunto, e le consuetudini [4].

Il nostro mercato finanziario in generale sta lasciando troppo spazio alle “prassi”, le quali sono forme improprie – e pericolose, in quanto per lo più unilaterali - , di “autonormazione”.

Anche qui è bene ricordare che non siamo un Paese di common law, che le best practices sono da accertarsi ma proprio in quanto “migliori” regole di condotta, e non trovano invece da noi legittimazione come fonti del diritto comportamenti, spesso arbitrari, degli operatori, ancorché questi siano accettati – non importa quanto consapevolmente – dalla clientela.

E’ bene chiarirci con un esempio, banale ma a nostro avviso emblematico.

Il cassiere di banca che richiede al cliente occasionale, al fine della negoziazione di un assegno, la presentazione allo sportello di almeno due documenti di identità validi, ferme rimanendo le (astrattamente) sacrosante regole di tutela dell’affidamento e della circolazione dei titoli di credito, non sta osservando alcuna norma di legge, né generale né speciale. Egli sta al limite interpretando “a soggetto” gli obblighi di diligenza del “buon banchiere”, pure imposti dal codice civile (art. 1176, co.2), ma non potrà trincerarsi dietro questa regola, né tantomeno dietro quelle specifiche eventualmente dettate da interpretazioni associative o da circolari interne.

Questa “prassi” dei documenti, che ha conosciuto anche eccessi che hanno creato contenzioso non così infrequente, non è balzata agli onori delle cronache al pari dell’anatocismo, solo perché – in limine- essa non crea più di tanti problemi concreti come quello di dover pagare delle somme maggiori a fronte di denaro preso a prestito!

Tutto ciò per ribadire un concetto del quale ci siamo convinti nell’analisi della vicenda “anatocismo”: trattasi, cioè, di “prassi” ma, per essere tranchante, anche laddove si trattasse di “uso” poco importerebbe se negoziale o normativa fosse la sua natura, a questo punto questione meramente “accademica” [5].

Un uso, prassi o comportamento consuetudinario che dir si voglia non può trovare posto, oggi, nel nostro panorama delle fonti del diritto [6], in specie di quello bancario e finanziario.

Esso, come è stato efficacemente affermato, sarebbe infatti più oscuro al cliente delle norme di legge, “e ciò specialmente in materie che presuppongono nozioni specialistiche” [7].

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, a nostro parere, mostrano di cogliere questo profilo della tematica, scottante, dell’anatocismo, tutte protese alla “sanatoria”, si badi bene, non di posizioni pregresse – come malamente ha tentato di fare il legislatore del 1999, prendendosi le giuste censure della Corte Costituzionale – ma di una lacuna nell’apparato normativo a tutela del cosiddetto “contraente debole”, consumatore o imprenditore che sia.

Infatti, altro errore di valutazione che abbiamo sentito fare nei vari commenti di questi anni, è quello di considerare più difendibile un imprenditore/professionista rispetto al consumatore.

Ciò non è sempre vero, proprio come in questo caso, tanto che non condividiamo il mero richiamo, nell’ottica de qua, delle sole norme codicistiche del 1469-bis e ss., perché l’anatocismo, se danni ha prodotto, ne ha causati maggiormente alle imprese [8].

A nostro avviso, la pattuizione di anatocismo avrebbe dovuto trovare (e dovrebbe trovare), in conclusione, apposito spazio negoziale, con sottoscrizione a parte della relativa clausola, così come stabilisce l’art. 1341 c.c.. Ciò evidentemente per il futuro, stante altresì il richiamo proveniente dalla pronunzia in rassegna, ed in vista della prevenzione di ulteriori conflitti con la clientela [9].

3. L’evoluzione giurisprudenziale

La S.C. non ha sbagliato, quindi, oggi, compiendo questa “inversione a U” ritenuta, dai più, pericolosa e fuori dalla storia.

Ha sbagliato, invece, prima della sentenza del 1999, quando ha riconosciuto – con minore convinzione ed argomentazione – la prassi dell’anatocismo.

E’ qui che ha creato l’illusione – va ribadito che non trattasi, come d’altronde oggi, di certezza – che calcolare gli interessi, compensativi o moratori che fossero, su un montante (di per se stesso fatto di capitale e interessi maturati sul medesimo) fosse corretto.

Come dicevamo poco sopra, le clausole anatocistiche – le quali, va ricordato, sono lecite se rispecchiano la configurazione ammessa dall’art. 1283 c.c. – dovrebbero formare oggetto di (futura) negoziazione.

La Cassazione, con una frase che si presta, a nostro modo di vedere, a poche interpretazioni, in ossequio al vecchio e saggio brocardo “in claris non fit interpretatio”, afferma – nella articolata motivazione della sentenza 21095/2004 – che “di fatto, le pattuizioni anatocistiche, come clausole non negoziate e non negoziabili, perché già predisposte dagli istituti di credito (…) venivano sottoscritte dalla parte che aveva necessità di usufruire del credito bancario e non aveva, quindi, altra alternativa per accedere ad un sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare”.

Ecco perché abbiamo utilizzato il termine “prassi”, che ci piace maggiormente di altri per indicare una ripetizione di atti o fatti che sono, in genere, condizionati dall’agere di chi li ha creati, difettando (lo ribadiamo) quasi sempre dell’accondiscendenza della parte che si trova a porli in essere.

E’ altrettanto ovvio che la ricognizione di usi, quand’anche avesse prodotto – come da taluni dimostrato – la loro validazione attraverso le sentenze ante 1999, non può certamente ritenersi produttiva di effetti oggi, in un ordinamento sezionale (quale è quello bancario e finanziario) iper- regolamentato, denso di norme non solo di rango primario ma, soprattutto, secondario (queste sì, fonti del diritto).

Ciò premesso, si comprende come risultino inconferenti – ai fini che qui ci si propone – l’attribuzione alle c.d. “NUB” del valore di usi negoziali, la declaratoria di validità dei soli usi normativi come fonti del diritto, la sussistenza o meno della opinio come requisito per il formarsi dell’uso [10].

4. Conclusioni: l’anatocismo è legittimo?

Viene a questo punto da chiedersi se questo istituto, dal nome cacofonico e difficile a metabolizzarsi da parte dei non addetti ai lavori, trovi ancora una sua collocazione nel nostro ordinamento giuridico e, se sì, quale essa debba essere.

La risposta alla prima domanda è certamente affermativa.

L’anatocismo, ovvero la capitalizzazione di interessi (su interessi, va precisato, altrimenti non è anatocismo; v. a tale proposito, recente dottrina [11]) è assolutamente possibile, lecito e corretto, ma solo se praticato in ossequio alle regole di cui all’art. 1283 del nostro codice civile.

Questo prevede che si possano chiedere gli interessi su interessi “scaduti” (particolare, quest’ultimo, spesso dimenticato dai commentatori), cioè che sono già dovuti in virtù di un rapporto concluso per un certo periodo [12], se ( e solo se) è stata proposta idonea domanda giudiziale – cioè si è fatta istanza ad un giudice per il riconoscimento, in via monitoria, di detta capitalizzazione e delle somme che ne derivano –, ovvero se si è stipulata apposita “convenzione posteriore” alla loro scadenza [13].

Non si ritiene, ci si perdonerà la superficialità ma è solo una semplificazione, utile in questa sede (soprattutto perché tutto, si può dire, è stato già scritto!) intrattenersi sia sulla locuzione “dovuti da almeno sei mesi” riferita agli interessi medesimi, sia sull’incipit della norma in esame, costituito dalla frase “salvo usi contrari”, in quanto abbiamo già abbondantemente ribadito il nostro giudizio circa la validità di siffatti usi, anche laddove esistenti (e contrari).

L’Organo Supremo di legittimità ha suggellato questa conclusione, che abbiamo sopra sintetizzato, in una sentenza delle sue Sezioni Unite; lo ripetiamo, ribadendo ciò che per noi è ovvio, che poteva di certo essere detto prima, che forse avrebbe potuto essere detto meglio [14], ma che appare ormai ineluttabile.

Anche questo concetto è banale, ma ci piace riprenderlo.

Dinnanzi alla coesistenza, in una medesima situazione giuridica, di due interessi contrapposti, astrattamente entrambi meritevoli di tutela, chi ha il compito di stabilire quale tra i due debba prevalere guarderà, come noto, a quello “superiore”, a quello che, anche (perché no) in termini “quantitativi”, debba essere ritenuto maggiormente diffuso e giuridicamente tutelato.

Una “scala dei valori”, anche nel diritto, si impone; con la differenza che quella dei valori morali è personalizzata, personalizzabile, individuale per definizione e non necessariamente condivisibile.

Quella che stabilisce la legge, e con essa chi la interpreta e la applica (o deve farla applicare), deve tenere conto, al contrario, di interessi diffusi (in casi come questo), non particolaristici, concreti, universali, comunque maggiormente rispondenti non solo alle regole scritte, ma anche a quelle non scritte del nostro ordinamento [15] .

Bene.

Nel settore dell’intermediazione bancaria e finanziaria vanno trovando sempre più spazio norme e regole (si badi bene, non “usi”), per lo più condivise anche a livello europeo e internazionale, di customer protection, di fairness, di accountability (l’inglese qui vuole sottolineare l’universalità, nel dibattito odierno, dei confini del nostro diritto).

Tutte riconducibili, come abbiamo tentato di dimostrare altrove [16], a nostri già consolidati e granitici principi costituzionali e civilistici (tutela del risparmio e dell’affidamento, del contraente debole, buona fede precontrattuale e contrattuale, diligenza del mandatario, trasparenza, ecc.)

La sentenza in rassegna, da questo punto di vista è – al contrario di quanto affermato dai primi commentatori – ben argomentata, quando dice, in particolare, che:

a) “in presenza di una ricognizione, pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi, però, erronea nel presupporre l’esistenza di una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva [deve] avere una portata naturaliter retroattiva”; b) “l’evoluzione del quadro normativo – impressa dalla giurisprudenza e dalla legislazione degli anni ’90, in direzione della valorizzazione della buona fede come clausola di protezione del contraente più debole, della tutela specifica del consumatore, della garanzia della trasparenza bancaria, della disciplina dell’usura – ha innegabilmente avuto il suo peso nel determinare la ribellione del cliente”.

E’ stato ricordato da autorevole dottrina che “la vicenda dell’anatocismo rende evidente uno stato di insoddisfazione di tutti, operatori, clienti, giudici sull’assetto regolamentare del sistema bancario e finanziario (…); qualche sbaglio, da qualche parte, almeno qualcuno deve pur averlo commesso” [17] .

Ci permettiamo di aggiungere che perseverare nell’errore, non cercando soluzioni adeguate in un sistema che vuole definirsi “moderno” ed “avanzato”, sarebbe oltremodo diabolico!

Non è poi revocabile in dubbio la circostanza che, nel bene e nel male, il legislatore abbia inteso – di concerto, oggi, con la giurisprudenza dominante – avocare a sé la competenza sulla materia; ciò sin dall’intervento del 1999 [18] e, ce lo auguriamo, anche nell’immediato futuro, magari con un’azione più “chirurgica” sulle norme bancarie dettate ad hoc nello stesso testo unico bancario o, addirittura, nel codice civile [19].

Lo stesso articolo 1283 potrebbe essere oggetto di intervento, recidendo quell’inciso che si riferisce ad usi che certamente, oggi, non sono richiamabili.

Inoltre, la nuova normativa sulla “conciliazione” recata dalla riforma del diritto societario ben potrebbe recepire le istanze del risparmio, nel senso di favorire il ricorso a questo importante, quanto misconosciuto nel nostro Paese, istituto di risoluzione alternativa delle controversie, onde porre un argine all’immane contenzioso che, sicuramente, si riverserà – in subjecta materia – sui tribunali.

La questione anatocismo dimostra ancora una volta, per concludere, che il nostro ordinamento bancario, nella sua sottosezione attinente le condizioni generali di contratto [20] e, quindi, ai rapporti banche-clienti, è ancora immaturo: è questa la via maestra dettata dalla Cassazione, e forse ora converrà seguirla.



[1] Sarà poi opportuno chiedersi se a questo termine debba oggi riconoscersi ancora una valenza più generale ovvero limitarne la portata, come appare a chi scrive.

[2] G. DI BENEDETTO, Anatocismo e costo della disponibilità tra vecchi contratti e nei sistemi di pagamento elettronici, in questa Riv., 2000, I, p. 600, nota 28.

[3] Ci limitiamo a ricordare, scusandoci per eventuali omissioni e con riferimento alla questione “anatocismo” in generale (ovvero riferita ad altre pronunzie giurisprudenziali), gli scritti di A. NIGRO, La legge sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari,in Dir.ban.mer.fin., 1992, I, p. 421; dello stesso A., Disciplina della trasparenza delle operazioni bancarie e contenuto delle obbligazioni contrattuali: note esegetiche, stessa Riv., 1998, II, p. 511 e ss.; ancora, dello stesso A., L’anatocismo nei rapporti bancari: una storia infinita?, stessa Riv., 2001, I, p. 269 e ss.; G. CABRAS, Conto corrente bancario ed anatocismo fra diritto e pregiudizio, stessa Riv., 1999, I, p. 282; Contratti bancari, anatocismo e problemi di costituzionalità (con nota redazionale), stessa Riv., 2000, II, p. 284 e ss.; C. GARILLI, L’anatocismo nei rapporti bancari alla luce della deliberazione del CICR 9 febbraio 2000, stessa Riv., 2001, I, p. 165 e ss.; A. NIUTTA, Sul c.d. “anatocismo bancario” il Tribunale di Roma non si adegua…., stessa Riv., 2002, I, p. 210 e ss..

[4] Per la distinzione tra “usi” e “consuetudini”, esaminata con doviziosa attenzione, proprio in relazione al casus belli dell’anatocismo, si veda, per tutti, A. M. CAROZZI, Contratti bancari e anatocismo, in Dir.ban.mer.fin.., 2000, I, pp. 206-228.

[5] E’ stato opportunamente affermato da DI BENEDETTO, op. cit., p. 610, che “di fatto il generico collegamento agli usi trasforma l’anatocismo in una sorta di dogma di cui, smarrite le ragioni, vengono per ciò stesso smarriti i confini”.

[6] Come non concordare con chi afferma (sempre DI BENEDETTO, op. cit., p. 614) che “l’importanza degli usi va quindi considerata recessiva e l’attenzione concentrata sulla disciplina dettata dalle fonti legali”?

[7] Così di Benedetto, op. cit., p. 614.

[8] Ovviamente via dato atto a A. NIGRO, Disciplina della trasparenza delle operazioni bancarie, cit., p. 511, di aver individuato per primo nel divieto di rinvio agli usi di cui all’art. 117 del TU bancario un divieto di anatocismo. La circostanza è peraltro sia nota che, a maggioranza, condivisa.

[9] In tal senso, più autorevolmente, G. DE NOVA, Capitalizzazione trimestrale: verso un revirement della Cassazione, in I Contratti, 1999, p. 446.

[10] A tale proposito, sinceramente è parso un mero esercizio teoretico, non utile al fine di dare chiarezza alla situazione creatasi dopo la(e) pronunzia(e) di cui discorriamo, il richiamo ai principi del diritto pubblico (rectius: a talune teorie sugli usi) che vedrebbero bene un “uso” anche senza una di quelle due caratteristiche, la opinio, che da sempre è stata ritenuta coessenziale all’esistenza del medesimo. Aggrapparsi a tale escamotage ermeneutico per giungere e confutare le tesi della Suprema Corte ci è sembrato francamente eccessivo, anche perché crea confusione e distoglie l’attenzione dalla considerazione, assorbente, che l’uso non può avere valore se non richiamato e, quand’anche lo fosse, dovrebbe mancare in quella materia ogni altro riferimento normativo. In materia di anatocismo o, come taluni preferiscono, di “capitalizzazione di interessi”, vi sono sia norme civilistiche, come noto, che speciali, per cui il problema non ha da porsi.

[11] G. DI BENEDETTO, op. cit., passim.

[12] Inutile precisare che intendiamo per “concluso” anche un rapporto continuativo che prevede diverse e periodiche “chiusure contabili”, perché di questo e non di altro si dovrebbe parlare se non si vuole essere fuorviati nell’esame di questo meccanismo tecnico. Anche per queste importanti considerazioni tecnico-finanziarie si veda DI BENEDETTO, op. cit., pp. 593 e ss., il quale opportunamente parla di un metodo di “appuramento del conto”.

[13] Qui ha ragione da vendere G. GABRIELLI, Capitalizzazione trimestrale degli interessi attivi ed usi creditizi, in Riv. Dir. Civ., 1999, p. 446, quando afferma che “solo un legislatore del tutto sordo alle esigenze della pratica operativa avrebbe potuto imporre …una convenzione posteriore al termine di esigibilità”.

[14] E’ stato giustamente osservato (ex multiis, A. BELLUSCIO, Nullità retroattiva per le clausole bancarie anatocistiche, in Dir. Pr. Soc., 2004, n. 23, p. 73; A. BUSANI, Interessi: l’incognita della prescrizione, in Il Sole 24Ore, 10 novembre 2004, p. 28; N. SALANITRO, Gli interessi bancari anatocistici, in B.b.t.c., Suppl. al . n.4/04, p. 21) che la sentenza de qua lascia aperte questioni e non offre soluzioni a quelle già esplose a seguito delle pronunzie del 1999. Questo è vero, ma a nostro avviso non è la S.C. l’Organo (costituzionalmente) preposto a dare suggerimenti – tradotti in atti aventi forza di legge – circa l’applicazione concreta di istituti giuridici a fattispecie di quotidiana esistenza!

[15] E’ il “diritto vivente” evocato nella motivazione della sentenza e da molti giuristi.

[16] R. RAZZANTE, Il conflitto di interessi tra lex specialis e normativa civilistica: un tentativo di ricostruzione della disciplina applicabile, in Riv. Dir. Comm., 2004, II, p.

[17] P. FERRO-LUZZI, Una nuova fattispecie giurisprudenziale: l’anatocismo bancario; postulati e conseguenze, in Giur. Comm., 2001, I, p. 34.

[18] Come ricorda opportunamente A. M. CAROZZI, op. cit., p. 210. Nello stesso senso , C. GARILLI, op. cit., p.168.

[19] Nelle more, non può comunque non concordarsi – come già abbiamo peraltro più volte sottolineato nel presente scritto – con l’idea di M. SOLFERINI, Il risarcimento derivante dalla capitalizzazione trimestrale di interessi anatocistici, in Tidona.com, dicembre 2004, il quale afferma lapidariamente che “se l’unico contenuto di una regola consuetudinaria fosse quello di ammettere l’anatocismo nei rapporti tra banca e cliente, si tratterebbe di una regola inutile, in quanto puramente ripetitiva della norma di legge, che (…) non contiene un divieto assoluto, ma, all’opposto, afferma l’ammissibilità dell’anatocismo, sia pure nei limiti dalla stessa norma indicati”.

[20] In tal senso, esplicitamente, N. SALANITRO, op. cit., p.13. Si badi bene che vogliamo riferirci a “condizioni generali di contratto” che siano rispettose dei paletti inseriti, per la contrattazione “di massa”, nel nostro codice civile. Infatti, in tutti i commenti nei quali sono state richiamate le condizioni generali predisposte dall’ABI (le ex NUB, per intenderci) si è dimenticato il particolare, di centrale rilevanza, che esse non possano costituire – per loro stessa previsione e sottolineatura della Banca d’Italia in corso di istruttoria e istruzioni di vigilanza – che una mera “traccia” per gli operatori, non assolutamente obbligati a seguire gli schemi di contratto ivi proposti per la sottoposizione alla clientela dei rispettivi moduli da sottoscrivere. Se ciò è vero, come è vero, non si vede come esse avrebbero potuto (e potrebbero) mai diventare “uso negoziale” e, tantomeno, “normativo”, attraverso il quale giustificare l’inserzione di clausole anatocistiche nei contratti de quibus.

Come ha poi efficacemente osservato V. CARBONE, Interessi anatocistici tra interventi giurisprudenziali, cit., p.1489, “accade spesso, quando la giurisprudenza, nel tentativo di dare concretezza alle nuove regole di tutela del consumatore (…), interviene in un sistema interpretativo ormai consolidato, modificando l’assetto degli interessi che si sono venuti cristallizzando, che la parte pregiudicata dall’intervento giurisprudenziale, reagisce (…)”. Ancora più sferzante G. COTTINO, La Cassazione muta indirizzo in tema di anatocismo, in Giur. It., 1999, I, p.1223, il quale afferma che “certe tentazioni, sempre striscianti nel mondo creditizio, di tartassare contrattualmente e finanziariamente l’utente, paiono un po’ fuori moda”. Queste opinioni, ancorché espresse all’indomani delle sentenze del 1999, sono del pari esportabili nel quadro che si è oggi delineato.