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La Consulta dichiara: vuoto normativo in tema di omogenitorialità

The kiss, Gustav Klimt, 1908, sterreichische Galerie Belvedere
The kiss, Gustav Klimt, 1908, sterreichische Galerie Belvedere

Abstract

La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Venezia con riferimento alla legge sulle unioni civili e sugli atti dello stato civile.

 

Indice:

1. Introduzione

2. La vicenda

3. Le norme violate

4. La decisione della Corte Costituzionale

 

1. Introduzione

La Corte Costituzionale, con la recente sentenza n. 230 del 2020, si pronuncia su una delle tematiche più spinose dell’attuale società: l’omogenitorialità. La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Venezia pone al centro della controversia la legge n. 76/2016 sulle unioni civili e il D.P.R. n. 396/2000 in materia di atti dello stato civile.

Secondo il Tribunale rimettente, infatti, la disciplina dettata dalla precedente normativa violerebbe non solo i diritti della c.d. “madre intenzionale”, ovvero nel caso specifico la donna unita civilmente a quella biologica, ma anche quelli del minore.

Prima di analizzare i motivi che hanno indotto la Consulta a sostenere come necessario l’intervento del Legislatore per predisporre una tutela effettiva della genitorialità anche per le coppie dello stesso sesso, è opportuno esporre brevemente la vicenda de qua.

 

2. La vicenda

Una donna, unita civilmente a un’altra, si sottoponeva, con il consenso di quest’ultima, a una tecnica di procreazione medicalmente assistita (PMA) all’estero da cui nasceva un bambino in Italia.

Le donne chiedevano quindi di essere registrate entrambe come madri nell’atto di nascita del minore, ricevendo tuttavia il rifiuto dell’ufficiale di stato civile, che annotava soltanto il nome della madre biologica.

 

3. Le norme violate

Di qui il ricorso alla Corte Costituzionale, ricorso argomentato e fondato, secondo il Tribunale rimettente, sulle seguenti violazioni:

a) articolo 2 Costituzione: l’inapplicabilità delle regole sulla genitorialità intenzionale a coppie di donne unite civilmente precluderebbe loro il diritto alla genitorialità, diritto fondamentale dell’individuo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità;

b) articolo 3, c. 1 e 3, Costituzione sotto un duplice profilo: da un lato, legittimando un’irragionevole disparità di trattamento basata sull’orientamento sessuale e sul reddito: viene infatti privilegiato chi dispone di mezzi economici per concepire ma anche per far nascere un figlio all’estero e richiedere la trascrizione dell’atto di nascita straniero in Italia; dall’altro, discriminando il nato, sul piano della sua tutela morale e materiale, in base alla relazione esistente tra i genitori, soprattutto se omosessuale;

c) articolo 30 Costituzione: “sia per gli adulti che per il nato, l’attuale impossibilità di indicare due madri unite civilmente nell’atto di nascita formato in Italia non rispetta il principio di tutela della filiazione”. Per di più, una concezione progressista di tale principio dovrebbe indurre invece ad inquadrarla (e tutelarla) come diritto pretensivo, che - qualora il progresso scientifico lo consenta - non può essere escluso o limitato se non in funzione di interessi reputati di pari grado dal Legislatore;

d) infine l’articolo 117, 1 c., Costituzione. Da quest’ultima disposizione, in combinata lettura con l’articolo 24, paragrafo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, gli artt. 8 e 14 della CEDU e la Convenzione sui diritti del fanciullo, si desume il principio internazionale per cui il matrimonio non costituisce più il discrimine nei rapporti tra genitori e figli.

Il principio de quo permette ai primi il diritto a formarsi una famiglia e diventare genitori anche oltre i limiti imposti dalla natura (sterilità, identità di sesso dei partner) e comunque per effetto di una manifestazione di volontà svincolata dal dato biologico. In tal modo, i secondi sono egualmente tutelati a prescindere dalla forma del legame tra coloro che ne assumono la genitorialità.

 

4. La decisione della corte costituzionale

La Consulta inizialmente sembra essere in linea con la tesi del Tribunale ricorrente, confermando che la genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di PMA è indubbiamente legata anche al “consenso” prestato e alla “responsabilità” conseguentemente assunta da entrambi i soggetti che hanno deciso di accedere a tale tecnica.

Ciò si desume sia dall’articolo 8 della Legge n. 40/2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) – per cui i nati a seguito di un percorso di fecondazione medicalmente assistita hanno lo stato di “figli nati nel matrimonio” o di “figli riconosciuti” della coppia che ha avviato questo percorso – sia dal successivo articolo 9, che riguardo alla fecondazione di tipo eterologo stabilisce che il coniuge o il convivente (della madre naturale), pur in assenza di un suo apporto biologico, non può comunque esercitare l’azione di disconoscimento della paternità o impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità.

Ma, nonostante l’interpretazione letterale delle predette norme, non bisogna trascurare l’articolo 5 della citata legge, il quale stabilisce che il progetto di genitorialità deve coinvolgere coppie “di sesso diverso”. Da ciò discende il palese divieto per le coppie omosessuali all’accesso di tecniche di PMA in Italia. Anche la Corte di Cassazione, pronunciandosi in una fattispecie analoga a quella in esame, ha negato la rettifica dell’atto di nascita di un minore nato in Italia, proprio in ragione del divieto di ricorso alla PMA per coppie dello stesso sesso, vigente in Italia (C. Cass., 3 aprile 2020, n. 7668).

Nel continuare ad analizzare la sentenza oggetto della trattazione si nota come l’adita Corte incentra la propria motivazione sulla ratio legis della Legge n. 76/2016. Più precisamente, la scelta operata dal legislatore del 2016 è stata quella di riconoscere piena dignità di vita familiare alle coppie omosessuali, rendendo loro applicabili le norme in materia matrimoniale ma non quelle relative al rapporto di filiazione.

Una scelta che presuppone quindi la convinzione che il nucleo familiare composto da “due genitori di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile, rappresenti il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato” (Corte Costituzionale, n. 221 del 2019). Scelta che, secondo la Corte, non viola gli articoli 2 e 30 Costituzione (nei profili evidenziati dal giudice a quo), perché l’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge al rango di diritto fondamentale nell’accezione di cui all’articolo 2 Costituzione.

Al contempo, la nozione di famiglia, contemplata all’articolo 30 Costituzione, non è inscindibilmente correlata alla presenza di figli. La Corte decidente ritiene, dunque, necessario un bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, soprattutto in caso di ricorso a tecniche di PMA che, alterando le dinamiche naturalistiche del processo generativo, aprono scenari inediti rispetto ai tradizionali paradigmi di genitorialità e famiglia, attorno ai quali è costruita la disciplina costituzionale, suscitando delicati interrogativi di ordine etico (Corte Costituzionale n. 221 del 2019).

Infine, in merito al vulnus dell’articolo 3 Costituzione, malgrado la possibilità di riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione nei confronti di “due madri”, è palese la differenza tra la normativa italiana e quelle mondiali. Diversamente dovrebbe concludersi che per evitare una lesione del principio di eguaglianza, la disciplina interna dovrebbe sempre allinearsi alla più permissiva tra le legislazioni estere in materia.

Quanto, invece, alle fonti europee richiamate, sia la Carta di Nizza sia la CEDU, in materia di famiglia, rinviano esplicitamente alle singole legislazioni nazionali e al rispetto dei relativi principi. In particolare la giurisprudenza della Corte EDU ha affermato in più occasioni che nelle materie che sottendono delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano un ampio margine di apprezzamento, soprattutto su temi sui quali non si registra un generale consenso.

Sulla base dell’esposto quadro normativo e dei precedenti giurisprudenziali, la Consulta ha dichiarato che il riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto dai precetti costituzionali. La pronuncia de qua prosegue precisando che tali parametri non sono chiusi a soluzioni di segno opposto. Sarà, dunque, compito del Legislatore colmare il vuoto normativo in materia di omogenitorialità in modo da garantire una tutela sia alla madre intenzionale sia al minore, che vede negato il riconoscimento della genitorialità alla madre intenzionale (diritto al momento garantito solo in via giurisprudenziale).

Letture consigliate

L. n. 76/2016;

L. n. 40/2004;

C. Costituzione n. 230/2020;

C. Costituzione n. 221/2019;

C. Cass. n. 7668/2020.