Sospensione del procedimento con messa alla prova
Abstract: la trattazione esamina la ratio, i requisiti e le caratteristiche del rito speciale della sospensione del procedimento con messa alla prova evidenziando le differenze con il medesimo istituto in ambito minorile. Inoltre, si ritiene doveroso dedicare un paragrafo alla recente pronuncia di illegittimità costituzionale emessa dalla Corte Costituzionale, n.19/2020.
Indice:
1. Introduzione
2. Ratio dell’istituto
3. Ambito applicativo
4. Caratteristiche
5. Corte Costituzionale n. 19/2020
6. Programma di trattamento
7. Logica premiale anche in caso di esito negativo della prova
8. Conclusioni
1. Introduzione
L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, introdotto nel codice penale e nel codice di procedura penale con la legge n. 67 del 2014, rientra nella categoria giuridica del probation (di origine anglosassone) ed è ispirato all’omologo istituto già previsto nel rito a carico di imputati minorenni.
Attraverso tali istituti lo Stato rinuncia, in tutto o in parte, alla sua pretesa punitiva in cambio della dimostrazione, da parte del reo, di aver compreso il disvalore della propria scelta deviante e di non tornare più a delinquere.
2. Ratio dell’istituto
In particolare, l’istituto in esame appartiene alla categoria della probation processuale, così definita poiché sospende lo svolgimento del processo di cognizione e, in caso di esito positivo della prova, fa sì che il giudice si astenga dall’emettere la sentenza di condanna (logica premiale).
Con l’introduzione della sospensione del procedimento con messa alla prova, il legislatore si è posto come finalità sia quella di deflazionare il carico giudiziale, che quella di perseguire il reinserimento sociale “anticipato” degli imputati dei reati di minore gravità (funzione special-preventiva della pena). Infatti, l’istituto de quo segue la logica deflattiva imposta dalla sentenza pilota della Corte Edu, Torregiani vs Italia, volta a ridurre il problema del sovraffollamento carcerario, introducendo nuove misure alternative alla detenzione o, come in questo caso, riti speciali.
3. Ambito applicativo
Dal punto di vista normativo, l’ambito di applicazione è previsto dall’articolo 168 bis, comma 1, Codice Penale, il quale stabilisce che l’imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova nei procedimenti per i reati puniti con la sola pena pecuniaria, i reati puniti con pena detentiva fino a quattro anni nel massimo, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria e i reati per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio nel rito monocratico.
Riguardo il limite dei quattro anni, le SS.UU. (Cass. pen., sez. un., 2016, n. 36272) hanno ritenuto che il suddetto limite si determina senza l’operare delle circostanze.
Il suddetto ambito applicativo rappresenta una delle differenze con l’omologo istituto nel rito minorile, poiché in quest’ultimo caso il tipo di reato commesso dal minore non rappresenta un fattore impeditivo alla concessione della misura.
Inoltre, altrettanto rilevanti sono i commi 4 e 5 dell’articolo 168 bis Codice Penale, i quali prevedono che la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato può essere concessa una sola volta e non si applica ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza.
Trattandosi di un rito speciale, la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova può essere presentata, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni nello svolgimento ordinario o eccezionale dell’udienza preliminare. In caso di rigetto, l’istanza può essere riproposta nel giudizio, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (articolo 464 quater, c. 2, Codice Procedura Penale).
4. Caratteristiche
La ragione per cui l’istituto è costruito dal legislatore come un rito speciale imperniato sulla volontà dell’imputato, espressa personalmente in udienza o per mezzo del procuratore, risiede nel fatto che nella fase dell’udienza preliminare o prima della dichiarazione di apertura del dibattimento è inevitabile che l’accertamento probatorio sia strutturalmente incompleto, ossia si tratta pur sempre di elementi di prova e non di prove. Proprio per tale motivo, il consenso dell’imputato diviene necessario poiché, ai sensi dell’articolo 111, commi 4 e 5, Costituzione, possa prescindersi dalla formazione della prova in dibattimento e possa giungersi, con la sospensione del procedimento e messa alla prova, ad una conclusione anticipata della vicenda processuale.
Inoltre, il consenso dell’imputato deve ritenersi necessario anche sotto il profilo della funzionalità dell’istituto in quanto, come anticipato precedentemente, la messa alla prova non ha solo lo scopo di evitare che l’imputato si astenga dal commettere reati per un certo periodo di tempo, ma mira anche al reinserimento sociale “anticipato” dello stesso, attraverso l’elaborazione di un programma di trattamento ad hoc.
Non a caso, la messa alla prova si basa su una valutazione in negativo, circa l’assenza dei presupposti per il proscioglimento immediato e in positivo, in quanto il giudice valuta l’idoneità del programma al reinserimento sociale e formula una prognosi favorevole in merito all’astensione da futuri reati.
Ritornando al momento della richiesta, la messa alla prova può altresì essere concessa durante la fase delle indagini preliminari ma è subordinata al consenso del pubblico ministero, che “deve risultare da atto scritto e sinteticamente motivato” e “deve essere accompagnato dalla formulazione dell’imputazione” (articolo 464 ter, commi 2 e 3, Codice Procedura Penale).
A tal fine, il giudice trasmette gli atti al pubblico ministero affinché questi esprima il proprio consenso o dissenso nel termine di cinque giorni. La necessità del consenso del pubblico ministero si giustifica in ragione del fatto che, nel corso delle indagini preliminari, l’accusa potrebbe avere ancora necessità di indagare al fine di assumere le proprie scelte procedimentali.
5. Corte Costituzionale n. 19/2020
Proprio in merito alla fase della richiesta, la Corte Costituzionale, con la recente pronuncia del 14 febbraio 2020, n.19, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 456, comma 2, Codice Procedura Penale nella parte in cui non prevede che il decreto che dispone il giudizio immediato contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova: omissione, questa, suscettiva di integrare una nullità di ordine generale ai sensi dell’articolo 178, comma 1, lettera c), Codice Procedura Penale.
La norma si ritiene incostituzionale per violazione del diritto di difesa ex articolo 24 Costituzione, in quanto l’omesso avviso, nel decreto in questione, della facoltà di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova entro quindici giorni dalla notifica dello stesso, compromette irreparabilmente il diritto di difesa dell’imputato, nella misura in cui gli inibisce di conoscere il suo diritto di accedere a tale rito alternativo nei rigidi termini decadenziali stabiliti dall’articolo 458, comma 1, Codice Procedura Penale, richiamato dall’articolo 464 bis, comma 2, Codice Procedura Penale.
Orbene, nella pronuncia in esame, la Corte ha preso le mosse dalla premessa secondo cui la sospensione del procedimento con messa alla prova si configura come un istituto di natura sia sostanziale, laddove dà luogo all’estinzione del reato, sia processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale alternativo al giudizio.
Sulla base delle predette motivazioni, nonché della considerazione della richiesta di riti alternativi come “una delle più qualificanti modalità di esercizio del diritto di difesa”, la Corte Costituzionale ha concluso che, quando il termine entro cui chiedere i riti alternativi è anticipato rispetto alla fase dibattimentale “la mancanza o l’insufficienza del relativo avvertimento può determinare la perdita irrimediabile della facoltà di accedervi”. Pertanto, la violazione del diritto di difesa, come quella verificatosi nel giudizio a quo, in cui l’imputato, non essendo stato avvisato, ha formulato la richiesta in questione solo nel corso dell’udienza dibattimentale, e quindi tardivamente.
6. Programma di trattamento
Ritornando alla disamina dell’istituto in oggetto, di fondamentale rilevanza è il progetto di trattamento cui si sottopone l’imputato. Difatti, alla richiesta di sospensione del procedimento è allegato un programma di trattamento, elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna (U.E.P.E.) al quale è affidato un ruolo penetrante anche nel corso dello svolgimento della messa in prova.
Il programma, così come stabilito dell’articolo 464 bis, c. 3, Codice Procedura Penale, deve prevedere
le modalità di coinvolgimento dell’imputato,
le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato,
le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa.
Qualora la prova non sia perfettamente congrua con il fine rieducativo, il giudice può integrare o modificare il programma di trattamento, sempre con il consenso dell’imputato.
Al fine di evitare che il procedimento resti sospeso per un tempo indeterminato, un elemento essenziale dell’ordinanza del giudice è l’indicazione del termine entro il quale le prescrizioni e gli obblighi relativi alle condotte riparatorie o risarcitorie imposti devono essere adempiuti.
Il termine può essere prorogato, su istanza dell’imputato, non più di una volta e solo per gravi motivi (articolo 464 quinquies, comma 1, Codice Procedura Penale).
In ogni caso, il procedimento non può essere sospeso per un periodo
superiore a due anni quando si procede per i reati per i quali è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria;
superiore a un anno quando si procede per i reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria.
Tali termini decorrono dalla sottoscrizione del verbale di messa alla prova dell’imputato, verbale che non coincide con la sottoscrizione del programma di trattamento. Inoltre, durante il suddetto periodo di sospensione il corso della prescrizione del reato è sospeso nei confronti dell’imputato (articolo 168 ter, c. 1, Codice Penale).
Un’ulteriore differenza tra la sospensione del procedimento con messa alla prova nei confronti dell’imputato minorenne e nei confronti dell’imputato maggiorenne attiene alla durata massima di sospensione del procedimento. Nel primo caso, la durata massima di sospensione del procedimento è pari a tre anni nel caso in cui il minore abbia commesso reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni (un anno, invece, in tutti gli altri casi).
Decorso il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice dichiara con sentenza estinto il reato se, tenuto conto del comportamento dell’imputato e del rispetto delle prescrizioni stabilite, ritiene che la prova abbia avuto esito positivo.
7. Logica premiale anche in caso di esito negativo della prova
In caso di esito negativo della prova, il giudice, invece, dispone con ordinanza che il processo riprenda il suo corso.
In quest’ultima ipotesi e in caso di revoca, ex articolo 168 quater Codice Penale, è comunque previsto un effetto favorevole nei confronti dell’imputato: se il procedimento termina con una condanna, il pubblico ministero deve decurtare dalla pena in concreto un periodo corrispondente a quello della prova esperita, ovvero tre giorni di prova sono equiparati a un giorno di reclusione o di arresto, o a 250 euro di multa o ammenda (articolo 657 bis Codice Procedura Penale).
Nonostante l’istituto in esame sia nato all’interno del rito minorile e sia stato “costruito” con una ben precisa logica deflattiva, trattamentale e premiale, quest’ultimo aspetto rappresenta una differenza con l’omologo istituto inserito nel codice di rito. Difatti, in caso di esito negativo della prova o in caso di revoca, il minore non avrà diritto ad alcun tipo di decurtazione dalla pena in concreto per il periodo corrispondente a quello della prova esperita.
8. Conclusioni
In conclusione, come si evince dalla disamina della normativa e dell’ermeneutica conseguente, i motivi sottesi all’introduzione dell’istituto in esame attengono: in primis, ad un’esigenza di deflazione del carico giudiziale, esigenza imposta dalla pronuncia Torregiani ma, al contempo, concorde oltre che con il principio della ragionevole durata del processo ex articolo 111, comma 2, Costituzione, anche con i lavori preparatori del codice di rito, i quali prevedevano la fase dibattimentale come un’eccezione e i riti speciali come la regola.
Inoltre, dal momento in cui l’istituto de quo viene costruito come un rito speciale che, tendenzialmente, viene richiesto nella fase dell’udienza preliminare e prevede la rinuncia alla fase, costituzionalmente prevista, del dibattimento (articolo 111, commi 4 e 5, Costituzione) deve essere un rito appetibile e deve, dunque, possedere una logica premiale. Anche tale logica premiale è concorde con la precedente logica deflattiva (sentenza Torregiani-riduzione sovraffollamento carcerario), in quanto in caso di esito positivo della prova il giudice dichiarerà estinto il reato e, dunque, il reo non farà ingresso all’interno dell’istituto penitenziario.
Infine, è anche presente una logica trattamentale poiché la sospensione del procedimento con messa alla prova si pone come obiettivo quello del reinserimento sociale “anticipato” del reo, attraverso l’elaborazione di un programma di trattamento ad hoc.