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La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice penale

L’istituto della disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice ordinario trova la propria fonte normativa negli articoli 4 e 5, legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. E.

Attraverso il potere di disapplicazione il giudice ordinario, pur non potendo procedere alla invalidazione dell’atto amministrativo, ove ne riscontri l’illegittimità, è abilitato a disapplicarlo, cioè a decidere la questione sottoposta alla sua cognizione come se l’atto stesso non esistesse.

L’ingerenza del potere giudiziario nella sfera dell’azione amministrativa è evitata dalla previsione di cui all’art. 4, ove si esclude che il giudice ordinario possa intervenire sull’atto amministrativo annullandolo, revocandolo o modificandolo.

Tale disposizione pone un problema circa la natura giuridica dell’istituto: una parte della dottrina ritiene che il potere di disapplicazione del giudice ordinario si sostanzia in una facoltà di carattere processuale che consente al giudice ordinario di decidere la causa portata alla sua cognizione senza tener conto dell’atto amministrativo illegittimo; altra parte la ritiene, invece, un istituto di diritto sostanziale, che si connota come un tipo di invalidità degli atti amministrativi, riguardante non l’atto in se stesso, ma i suoi effetti che sarebbero giuridicamente irrilevanti.

Il successivo art. 5 stabilisce che le autorità giudiziarie hanno facoltà di applicare “in questo come in ogni altro caso…gli atti amministrativi ed i regolamenti generali in quanto…conformi alle leggi”.

La norma va intesa nel senso che il giudice può utilizzare nella decisione di una controversia sottoposta alla sua cognizione solo gli atti legittimi della P.A.

Dal combinato dei due articoli se ne ricava che, una volta riconosciuta la illegittimità del provvedimento, il giudice lo disapplica tamquam non esset, e cioè ne disconosce l’efficacia dispositiva che esso dovrebbe avere ai fini della disciplina del rapporto controverso; fuori dal processo de quo, l’atto conserverà tutta la sua efficacia, ma al suo interno la causa verrà decisa come se il provvedimento non fosse stato emanato.

In realtà questo originario assetto normativo deve oggi essere necessariamente rivisto ed integrato alla luce sia della Costituzione, sia dei principi fondamentali del nostro sistema penale.

Nell’elaborazione più recente, infatti, l’istituto della disapplicazione si configura come un meccanismo di risoluzione di conflitti fra norme fondato sul principio della gerarchia delle fonti, in virtù del quale la fonte di grado superiore prevale sulla fonte di grado inferiore (lex superior derogat inferiori): la norma che deriva dalla fonte giuridicamente superiore rende infatti invalida quella inferiore, posto che il principio di gerarchia comporta che il contrasto tra fonti di grado differenziato si risolva con la prevalenza della fonte considerata più elevata in grado.

In questo senso appare particolarmente significativo quanto osservato dal Consiglio di Stato nella pronuncia n. 154 del 1992: “nel conflitto tra due norme di rango diverso non può darsi preminenza che a quella legislativa, di livello superiore rispetto alla disposizione regolamentare”.

Se si accetta dunque la tesi per cui il provvedimento amministrativo, come il regolamento amministrativo, è atto produttivo di diritto, ossia fonte di norme individuali, entrambi possono ricadere nell’ambito della disapplicazione in materia penale, intesa come criterio risolutivo di conflitti tra norme, criterio che il giudice penale deve necessariamente applicare qualora il conflitto gli si presenti nella controversia che sta per decidere.

Il controllo sulla legalità degli atti amministrativi da parte del giudice penale, qualora essi interferiscano nell’applicazione della sanzione penale, può essere inoltre prospettato come problema inerente i rapporti tra giurisdizione e legislazione.

Al riguardo ex art. 101 Cost. co. 2 “ I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, affermandosi in tal modo che i giudici sono soggetti incondizionatamente solo ed esclusivamente alla legge formale e agli atti ad essa equiparati.

Di conseguenza ogni atto della P.A. è soggetto al controllo giurisdizionale di legalità (art. 113 Cost.), e il giudice può e deve disapplicare tutti i tipi di atto della P.A., che siano in contrasto con la legge formale. Se ne evince che il giudice non è obbligato ad applicare sempre gli atti del potere esecutivo: essi sono vincolanti ai fini della decisione se ed in quanto risultino formalmente fondati sulla legge e, al tempo stesso, materialmente conformi ad essa (art. 4 disp. prel. c.c.).

Va rilevato che l’art. 2 c.p.p., secondo cui “il giudice penale risolve ogni questione da cui dipende la sua decisione”, sancisce il più ampio controllo possibile del giudice penale sulla rispondenza alla legge dell’azione amministrativa.

Tuttavia, anche se il giudice penale deve controllare la legalità dell’atto amministrativo prima di applicarlo nella controversia sottoposta alla sua decisione, la legalità del provvedimento non implica la sua opportunità: tradizionalmente infatti si individua, quale limite al controllo del giudice penale sull’atto amministrativo, l’impossibilità di sindacare il cd. merito amministrativo, ossia l’opportunità del provvedimento stesso.

Il controllo sulla legittimità dell’atto amministrativo, al fine della sua disapplicazione, è dunque legato nel nostro ordinamento all’individuazione di uno dei tre vizi espressamente previsti: violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere (art. 26 t.u. Cons. Stato del 1924; artt. 2 e 3 L. T.A.R. del 1971; art. 21-octies L. 7 agosto 1990, n. 241); mentre per i primi due non sussiste problema, si è discusso molto, invece, sulla possibilità di sindacare l’atto sotto il profilo dell’eccesso di potere poiché parte della dottrina riteneva che ciò comportasse un’indagine sul merito del provvedimento, interdetta al giudice ordinario.

In realtà, tale tesi è considerata ormai superata, attesa la possibilità riconosciuta del giudice di poter effettuare controlli sull’attività della P.A., almeno con riguardo alla realizzazione dell’interesse pubblico, nonché in seguito al dettato dell’art. 113 Cost., che vieta una limitazione all’impugnativa dei provvedimenti sulla base del tipo di vizio dal quale sono inficiati.

Se è vero che esiste sempre la potestà per il giudice di disapplicare un atto amministrativo illegittimo, tale potere-dovere parrebbe astrattamente essere configurabile anche in malam partem, ossia in modo tale da condurre all’affermazione di responsabilità dell’imputato, perfino quando l’atto amministrativo entri a far parte della fattispecie incriminatrice quale presupposto negativo della condotta.

In realtà, nelle ipotesi in cui il provvedimento amministrativo concorre ad integrare il precetto della norma incriminatrice, la non operatività del potere-dovere di disapplicazione del giudice penale trova la sua giustificazione normativa nel sistema penale costituzionale.

Il principio di legalità in materia penale (art. 1 c.p.), accolto dalla nostra Costituzione (art.25 co.2 Cost.) e sancito anche dall’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, esige infatti che l’applicazione di misure punitive sia legata ad una previa previsione legislativa espressa, sia di ciò che costituisce reato sia del tipo di sanzione: esso garantisce ad ogni individuo la conoscibilità sia delle azioni penalmente vietate, sia la prevedibilità delle sanzioni ad esse connesse.

Conseguentemente la colpevolezza, intesa quale principio costituzionale, impedisce che, a seguito dell’utilizzo della potestà di disapplicazione in malam partem, possa essere punito un soggetto non “rimproverabile per un fatto da lui commesso”.

Il giudice penale deve, però, disapplicare in malam partem l’atto amministrativo illegittimo qualora questo abbia una rilevanza esterna alla fattispecie penale, ossia quando il provvedimento non concorre ad esprimere la regola di condotta della norma, e più in particolare quando esso si ponga in funzione scriminante, escludendo l’antigiuridicità della condotta, ovvero operi quale causa estintiva del reato.

Infatti, quando il provvedimento non partecipa all’integrazione della norma, è ben possibile per il giudice ricorrere all’istituto della disapplicazione, non ostando i principi penali costituzionali di legalità e tipicità.

Con riguardo per esempio all’art. 734 c.p., che si riferisce alla distruzione o deturpamento di bellezze naturali in luoghi soggetti alla speciale protezione dell’Autorità, qui la tutela amministrativa è assicurata attraverso un provvedimento amministrativo, che non concorre in alcun modo a descrivere il precetto: esso delimita soltanto il campo delle “bellezze naturali” tutelate dalla disposizione in esame.

Dibattuta in giurisprudenza, in ordine a tale reato, è stata la questione della rilevanza del nulla-osta o dell’atto amministrativo autorizzativo nell’ambito del procedimento penale: se cioè la presenza di tale provvedimento possa esercitare influenza sul giudizio penale tale da far configurare o meno la contravvenzione in esame.

Con la sentenza a Sezioni Unite del 2002 la Cassazione ha affermato che l’atto autorizzatorio rilasciato dalle autorità preposte al controllo non può esercitare alcuna influenza nel giudizio penale, dato che l’unico presupposto richiesto dalla norma è la sottoposizione a protezioni di beni vincolati e che l’autorizzazione costituisce un modo di gestione del vincolo sul luogo protetto (potendo comunque venire in considerazione ai fini della valutazione della sussistenza dell’elemento soggettivo della colpevolezza), secondo regole alle quali la norma penale effettua rinvio.

Ciò non comporta che il giudice penale debba limitarsi a prendere atto dell’esistenza di un’autorizzazione, essendo suo compito accertare se l’opera eseguita abbia distrutto o danneggiato bellezze naturali soggette al vincolo paesaggistico e verificare, a fronte di una compromissione del paesaggio e dell’ambiente derivante da opere autorizzate dalla P.A., la effettiva esecuzione delle opere nei limiti in cui è stato autorizzato l’impatto territoriale nonché la liceità e legittimità (ma non l’opportunità) dei relativi atti amministrativi.

Posto che l’istituto della disapplicazione venne concepito in funzione di garanzia del cittadino, quale strumento di tutela delle situazioni giuridiche soggettive che questi vantava nei confronti della P.A., dottrina e giurisprudenza non sembrano dubitare della possibilità della disapplicazione in bonam partem.

Si è in presenza di quest’ultima ogniqualvolta dall’operazione di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo discendono effetti favorevoli per il soggetto agente: specificamente, nelle ipotesi in cui, considerato il provvedimento tamquam non esset, non risulta integrata alcuna fattispecie penalmente rilevante: il venir meno degli effetti del provvedimento, in quanto illegittimo, rende ab origine la condotta pienamente lecita e, dunque, penalmente irrilevante.

Esempio di questa ipotesi è l’art. 2 della L. 1423/56 (Rimpatrio con foglio di via obbligatorio), che punisce chiunque contravviene al provvedimento del questore di rimpatrio e al conseguente foglio di via obbligatorio: qui il giudice deve verificare la legittimità del provvedimento amministrativo, al fine della sua disapplicazione, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello formale, con riferimento ai tre vizi tipici che possono determinare l’illegittimità degli atti amministrativi.

Ulteriore ipotesi di disapplicazione in bonam partem si rinviene in tema di “immigrazione”, sulla quale è recentemente intervenuta la cd. legge Bossi-Fini (n. 189/02), che ha cercato di regolamentare gli arrivi degli stranieri nel Paese, consentendo l’accesso sulla base di una più rigorosa disciplina: sono stati regolati minuziosamente, infatti, i tempi entro cui l’immigrato, pur munito di permesso di soggiorno, può trattenersi sul territorio nazionale, nonché i presupposti, le modalità dell’ordine di espulsione del prefetto, del conseguente ordine del questore di lasciare il territorio entro cinque giorni e della permanenza senza giustificato motivo nel Paese nonostante il decreto di espulsione.

La condotta dello straniero qui è penalmente sanzionabile soltanto quando il provvedimento amministrativo risulti adottato in conformità dei presupposti legislativi che ne disciplinano l’emissione: di conseguenza, l’illegittimità dell’ordine del questore - o l’illegittimità del decreto di espulsione del prefetto che si ripercuote sulla legittimità dell’ordine del questore - comporta la necessaria disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice penale e l’assoluzione dell’imputato per insussistenza del fatto.

L’istituto della disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice ordinario trova la propria fonte normativa negli articoli 4 e 5, legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. E.

Attraverso il potere di disapplicazione il giudice ordinario, pur non potendo procedere alla invalidazione dell’atto amministrativo, ove ne riscontri l’illegittimità, è abilitato a disapplicarlo, cioè a decidere la questione sottoposta alla sua cognizione come se l’atto stesso non esistesse.

L’ingerenza del potere giudiziario nella sfera dell’azione amministrativa è evitata dalla previsione di cui all’art. 4, ove si esclude che il giudice ordinario possa intervenire sull’atto amministrativo annullandolo, revocandolo o modificandolo.

Tale disposizione pone un problema circa la natura giuridica dell’istituto: una parte della dottrina ritiene che il potere di disapplicazione del giudice ordinario si sostanzia in una facoltà di carattere processuale che consente al giudice ordinario di decidere la causa portata alla sua cognizione senza tener conto dell’atto amministrativo illegittimo; altra parte la ritiene, invece, un istituto di diritto sostanziale, che si connota come un tipo di invalidità degli atti amministrativi, riguardante non l’atto in se stesso, ma i suoi effetti che sarebbero giuridicamente irrilevanti.

Il successivo art. 5 stabilisce che le autorità giudiziarie hanno facoltà di applicare “in questo come in ogni altro caso…gli atti amministrativi ed i regolamenti generali in quanto…conformi alle leggi”.

La norma va intesa nel senso che il giudice può utilizzare nella decisione di una controversia sottoposta alla sua cognizione solo gli atti legittimi della P.A.

Dal combinato dei due articoli se ne ricava che, una volta riconosciuta la illegittimità del provvedimento, il giudice lo disapplica tamquam non esset, e cioè ne disconosce l’efficacia dispositiva che esso dovrebbe avere ai fini della disciplina del rapporto controverso; fuori dal processo de quo, l’atto conserverà tutta la sua efficacia, ma al suo interno la causa verrà decisa come se il provvedimento non fosse stato emanato.

In realtà questo originario assetto normativo deve oggi essere necessariamente rivisto ed integrato alla luce sia della Costituzione, sia dei principi fondamentali del nostro sistema penale.

Nell’elaborazione più recente, infatti, l’istituto della disapplicazione si configura come un meccanismo di risoluzione di conflitti fra norme fondato sul principio della gerarchia delle fonti, in virtù del quale la fonte di grado superiore prevale sulla fonte di grado inferiore (lex superior derogat inferiori): la norma che deriva dalla fonte giuridicamente superiore rende infatti invalida quella inferiore, posto che il principio di gerarchia comporta che il contrasto tra fonti di grado differenziato si risolva con la prevalenza della fonte considerata più elevata in grado.

In questo senso appare particolarmente significativo quanto osservato dal Consiglio di Stato nella pronuncia n. 154 del 1992: “nel conflitto tra due norme di rango diverso non può darsi preminenza che a quella legislativa, di livello superiore rispetto alla disposizione regolamentare”.

Se si accetta dunque la tesi per cui il provvedimento amministrativo, come il regolamento amministrativo, è atto produttivo di diritto, ossia fonte di norme individuali, entrambi possono ricadere nell’ambito della disapplicazione in materia penale, intesa come criterio risolutivo di conflitti tra norme, criterio che il giudice penale deve necessariamente applicare qualora il conflitto gli si presenti nella controversia che sta per decidere.

Il controllo sulla legalità degli atti amministrativi da parte del giudice penale, qualora essi interferiscano nell’applicazione della sanzione penale, può essere inoltre prospettato come problema inerente i rapporti tra giurisdizione e legislazione.

Al riguardo ex art. 101 Cost. co. 2 “ I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, affermandosi in tal modo che i giudici sono soggetti incondizionatamente solo ed esclusivamente alla legge formale e agli atti ad essa equiparati.

Di conseguenza ogni atto della P.A. è soggetto al controllo giurisdizionale di legalità (art. 113 Cost.), e il giudice può e deve disapplicare tutti i tipi di atto della P.A., che siano in contrasto con la legge formale. Se ne evince che il giudice non è obbligato ad applicare sempre gli atti del potere esecutivo: essi sono vincolanti ai fini della decisione se ed in quanto risultino formalmente fondati sulla legge e, al tempo stesso, materialmente conformi ad essa (art. 4 disp. prel. c.c.).

Va rilevato che l’art. 2 c.p.p., secondo cui “il giudice penale risolve ogni questione da cui dipende la sua decisione”, sancisce il più ampio controllo possibile del giudice penale sulla rispondenza alla legge dell’azione amministrativa.

Tuttavia, anche se il giudice penale deve controllare la legalità dell’atto amministrativo prima di applicarlo nella controversia sottoposta alla sua decisione, la legalità del provvedimento non implica la sua opportunità: tradizionalmente infatti si individua, quale limite al controllo del giudice penale sull’atto amministrativo, l’impossibilità di sindacare il cd. merito amministrativo, ossia l’opportunità del provvedimento stesso.

Il controllo sulla legittimità dell’atto amministrativo, al fine della sua disapplicazione, è dunque legato nel nostro ordinamento all’individuazione di uno dei tre vizi espressamente previsti: violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere (art. 26 t.u. Cons. Stato del 1924; artt. 2 e 3 L. T.A.R. del 1971; art. 21-octies L. 7 agosto 1990, n. 241); mentre per i primi due non sussiste problema, si è discusso molto, invece, sulla possibilità di sindacare l’atto sotto il profilo dell’eccesso di potere poiché parte della dottrina riteneva che ciò comportasse un’indagine sul merito del provvedimento, interdetta al giudice ordinario.

In realtà, tale tesi è considerata ormai superata, attesa la possibilità riconosciuta del giudice di poter effettuare controlli sull’attività della P.A., almeno con riguardo alla realizzazione dell’interesse pubblico, nonché in seguito al dettato dell’art. 113 Cost., che vieta una limitazione all’impugnativa dei provvedimenti sulla base del tipo di vizio dal quale sono inficiati.

Se è vero che esiste sempre la potestà per il giudice di disapplicare un atto amministrativo illegittimo, tale potere-dovere parrebbe astrattamente essere configurabile anche in malam partem, ossia in modo tale da condurre all’affermazione di responsabilità dell’imputato, perfino quando l’atto amministrativo entri a far parte della fattispecie incriminatrice quale presupposto negativo della condotta.

In realtà, nelle ipotesi in cui il provvedimento amministrativo concorre ad integrare il precetto della norma incriminatrice, la non operatività del potere-dovere di disapplicazione del giudice penale trova la sua giustificazione normativa nel sistema penale costituzionale.

Il principio di legalità in materia penale (art. 1 c.p.), accolto dalla nostra Costituzione (art.25 co.2 Cost.) e sancito anche dall’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, esige infatti che l’applicazione di misure punitive sia legata ad una previa previsione legislativa espressa, sia di ciò che costituisce reato sia del tipo di sanzione: esso garantisce ad ogni individuo la conoscibilità sia delle azioni penalmente vietate, sia la prevedibilità delle sanzioni ad esse connesse.

Conseguentemente la colpevolezza, intesa quale principio costituzionale, impedisce che, a seguito dell’utilizzo della potestà di disapplicazione in malam partem, possa essere punito un soggetto non “rimproverabile per un fatto da lui commesso”.

Il giudice penale deve, però, disapplicare in malam partem l’atto amministrativo illegittimo qualora questo abbia una rilevanza esterna alla fattispecie penale, ossia quando il provvedimento non concorre ad esprimere la regola di condotta della norma, e più in particolare quando esso si ponga in funzione scriminante, escludendo l’antigiuridicità della condotta, ovvero operi quale causa estintiva del reato.

Infatti, quando il provvedimento non partecipa all’integrazione della norma, è ben possibile per il giudice ricorrere all’istituto della disapplicazione, non ostando i principi penali costituzionali di legalità e tipicità.

Con riguardo per esempio all’art. 734 c.p., che si riferisce alla distruzione o deturpamento di bellezze naturali in luoghi soggetti alla speciale protezione dell’Autorità, qui la tutela amministrativa è assicurata attraverso un provvedimento amministrativo, che non concorre in alcun modo a descrivere il precetto: esso delimita soltanto il campo delle “bellezze naturali” tutelate dalla disposizione in esame.

Dibattuta in giurisprudenza, in ordine a tale reato, è stata la questione della rilevanza del nulla-osta o dell’atto amministrativo autorizzativo nell’ambito del procedimento penale: se cioè la presenza di tale provvedimento possa esercitare influenza sul giudizio penale tale da far configurare o meno la contravvenzione in esame.

Con la sentenza a Sezioni Unite del 2002 la Cassazione ha affermato che l’atto autorizzatorio rilasciato dalle autorità preposte al controllo non può esercitare alcuna influenza nel giudizio penale, dato che l’unico presupposto richiesto dalla norma è la sottoposizione a protezioni di beni vincolati e che l’autorizzazione costituisce un modo di gestione del vincolo sul luogo protetto (potendo comunque venire in considerazione ai fini della valutazione della sussistenza dell’elemento soggettivo della colpevolezza), secondo regole alle quali la norma penale effettua rinvio.

Ciò non comporta che il giudice penale debba limitarsi a prendere atto dell’esistenza di un’autorizzazione, essendo suo compito accertare se l’opera eseguita abbia distrutto o danneggiato bellezze naturali soggette al vincolo paesaggistico e verificare, a fronte di una compromissione del paesaggio e dell’ambiente derivante da opere autorizzate dalla P.A., la effettiva esecuzione delle opere nei limiti in cui è stato autorizzato l’impatto territoriale nonché la liceità e legittimità (ma non l’opportunità) dei relativi atti amministrativi.

Posto che l’istituto della disapplicazione venne concepito in funzione di garanzia del cittadino, quale strumento di tutela delle situazioni giuridiche soggettive che questi vantava nei confronti della P.A., dottrina e giurisprudenza non sembrano dubitare della possibilità della disapplicazione in bonam partem.

Si è in presenza di quest’ultima ogniqualvolta dall’operazione di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo discendono effetti favorevoli per il soggetto agente: specificamente, nelle ipotesi in cui, considerato il provvedimento tamquam non esset, non risulta integrata alcuna fattispecie penalmente rilevante: il venir meno degli effetti del provvedimento, in quanto illegittimo, rende ab origine la condotta pienamente lecita e, dunque, penalmente irrilevante.

Esempio di questa ipotesi è l’art. 2 della L. 1423/56 (Rimpatrio con foglio di via obbligatorio), che punisce chiunque contravviene al provvedimento del questore di rimpatrio e al conseguente foglio di via obbligatorio: qui il giudice deve verificare la legittimità del provvedimento amministrativo, al fine della sua disapplicazione, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello formale, con riferimento ai tre vizi tipici che possono determinare l’illegittimità degli atti amministrativi.

Ulteriore ipotesi di disapplicazione in bonam partem si rinviene in tema di “immigrazione”, sulla quale è recentemente intervenuta la cd. legge Bossi-Fini (n. 189/02), che ha cercato di regolamentare gli arrivi degli stranieri nel Paese, consentendo l’accesso sulla base di una più rigorosa disciplina: sono stati regolati minuziosamente, infatti, i tempi entro cui l’immigrato, pur munito di permesso di soggiorno, può trattenersi sul territorio nazionale, nonché i presupposti, le modalità dell’ordine di espulsione del prefetto, del conseguente ordine del questore di lasciare il territorio entro cinque giorni e della permanenza senza giustificato motivo nel Paese nonostante il decreto di espulsione.

La condotta dello straniero qui è penalmente sanzionabile soltanto quando il provvedimento amministrativo risulti adottato in conformità dei presupposti legislativi che ne disciplinano l’emissione: di conseguenza, l’illegittimità dell’ordine del questore - o l’illegittimità del decreto di espulsione del prefetto che si ripercuote sulla legittimità dell’ordine del questore - comporta la necessaria disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice penale e l’assoluzione dell’imputato per insussistenza del fatto.