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La motivazione dell’atto amministrativo

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Indice:

1. Definizione - Ambito di applicazione – Il contenuto della motivazione

2. La motivazione postuma e la possibile conciliazione con l’art. 21-octies della l. 241/90

3. La motivazione nelle prove concorsuali

4. La motivazione della nomina del personale di vertice

5. La motivazione della nomina/revoca dell'assessore

6. La motivazione della revoca del presidente del Consiglio Comunale

7. Conclusioni

 

1. Definizione – Ambito di applicazione – Il contenuto della motivazione

Prima dell’entrata in vigore della Legge n. 241 del 1990, non esisteva nel nostro ordinamento una legislazione di carattere generale che prevedesse l’obbligo di motivare l’atto amministrativo.

Si riteneva che la pubblica amministrazione non fosse tenuta ad adottare una motivazione del proprio agire, costituendo ciò una mera facoltà, con conseguenze fortemente pregiudizievoli per i principi di buon andamento e trasparenza sanciti dall’articolo 97 della Costituzione.

In tal modo veniva compromesso anche il diritto di difesa inducendo il ricorrente a proporre ricorsi avverso un provvedimento che non conteneva i motivi della sua adozione, con il conseguente rischio che l’organo giurisdizionale adito non poteva decidere con cognizione di causa non conoscendo appunto le ragioni che sottendevano l’atto o il provvedimento.

Tuttavia la necessità di rendere conoscibile il percorso logico-motivazionale-giuridico che aveva indotto la Pubblica amministrazione ad assumere le proprie determinazioni era fortemente avvertito da dottrina e giurisprudenza, le quali, consapevoli della inutilità dei c.d. “ricorsi privi di censure sostanziali” avverso le determinazioni finali delle p.a., avevano cercato di elevare il principio di motivazione a regola di carattere generale dell’ordinamento.

In definitiva, il difetto di motivazione veniva considerato dalla giurisprudenza vizio inficiante l’atto per eccesso di potere, in specie con riferimento a particolari categorie di atti quali i pareri, perizie di stima, gli atti di ritiro, gli atti comparativi di scelta, gli atti difformi dai pareri, e, più in generale, tutti i provvedimenti che implicavano un’alta discrezionalità amministrativa.

L’intervento del Legislatore del 1990 ha dunque accolto le istanze dottrinali e giurisprudenziali relative alla generalizzazione dell’obbligo di motivazione, sancendo, all’articolo 3 della legge 241/1990 che “ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, con l’indicazione dei presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”, con esclusione degli atti normativi e gli atti a contenuto generale, per cui tutti gli atti amministrativi debbono indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche a base dell’atto stesso, sulla base delle risultanze dell’istruttoria.

Così, la legge 241 del 1990 ha garantito la trasparenza dell’azione amministrativa, mettendo in rilievo il processo istruttorio, nonché una maggiore effettività del sindacato di legittimità come imposto, peraltro, dagli articoli 24, 97 e 113 Costituzione “trovando il suo riferimento normativo nel generale principio di buona amministrazione, correttezza e trasparenza, cui la Pubblica amministrazione deve uniformare la sua azione e rispetto al quale sorge per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e i motivi del provvedimento riguardante la sua richiesta”.

La motivazione rinforza il legame di due segmenti; quello istruttorio-procedimentale e quello di adozione finale dell’atto amministrativo o provvedimento, consentendo la ricostruzione dell’iter logico-motivazionale-giuridico in base al quale l’amministrazione ha adottato la determinazione finale.

Si discute se gli atti amministrativi che non hanno le caratteristiche del provvedimento quali, ad esempio gli atti di conoscenza (certificato di nascita, certificato di destinazione urbanistica, attestati, verbali di accertamento, ecc.) e quelli di giudizio (pareri, proposte, perizie tecniche) debbano ritenersi esclusi dall’obbligo di motivazione.

Si ritiene che gli atti amministrativi di conoscenza, seppur non rientranti nella categoria dei provvedimenti, non sono dichiarazioni di volontà in quanto non introducono nulla di nuovo nel mondo del diritto, limitandosi a rendere nota a terzi una realtà già esistente nel mondo giuridico, da escludere dall’obbligo di motivazione in quanto ritenuta superflua; viceversa, per gli atti amministrativi  di giudizio, la motivazione sarebbe non solo obbligatoria ma indispensabile affinché possano svolgere la funzione di suggerire, raccomandare, illuminare l’autorità amministrativa prima dell’emanazione dell’atto finale.

La motivazione del provvedimento non ha una misura predeterminata, rigida ed immutabile, variando in virtù della tipologia di provvedimento da adottare: nell’attività discrezionale tecnica la motivazione costituisce il fulcro rispettivamente del giudizio comparativo degli interessi implicati e delle valutazioni tecniche effettuate.

In questi casi, dunque, la motivazione deve essere particolarmente approfondita per essere sufficiente: deve contenere i presupposti di fatto, le ragioni giuridiche, i criteri utilizzati e l’esposizione dell’iter logico che ha condotto a quella scelta.

In mancanza di questi elementi prendono corpo le figure sintomatiche dell’eccesso di potere e, dunque, è concreta la possibilità di annullamento dell’atto.

La parola “motivazione” indica le ragioni che sono alla base di un determinato atto, i motivi per cui questo atto è stato emanato, la puntuale descrizione dei presupposti di fatto e delle ragioni di diritto che sono alla base della decisione dell’amministrazione, in rapporto alle risultanze dell’istruttoria, salvo esplicite eccezioni.

Questo significa che nel provvedimento vanno indicate le norme di ogni genere, nonché le disposizioni anche non regolamentari che l’Ente si sia precedentemente dato.

Inoltre, la motivazione deve esplicitare tutti i presupposti di fatto, il supporto fattuale, ossia gli elementi ed i dati di fatto oggetto di valutazione sotto il profilo giuridico e che sono collegati al provvedimento.

Ricadono nei presupposti di fatto tutti gli atti/fatti pregressi all’atto da emanare, ossia la narrazione delle operazioni, il richiamo a precedenti atti amministrativi, ecc., rilevanti e oggetto di valutazione propedeutica all’adozione del provvedimento.

E’ sufficiente che siano indicati solo alcuni, cioè quelli che sostengono il provvedimento, per cui un atto amministrativo è valido se, rispetto ai diversi motivi cu cui esso si fonda, ve ne sono alcuni, o anche uno solo, ritenuto sufficiente a sorreggerlo.

Per ragioni giuridiche sono da intendersi tutte le ragioni, le argomentazioni di carattere giuridico inerente allo specifico atto con il quale devono essere collegate. Trattasi di argomentazioni che debbono richiamare, qualora necessario, le leggi che disciplinano la materia, la giurisprudenza e la dottrina prevalente e, inoltre prevedere anche le finalità/obiettivo del provvedimento amministrativo. Il tutto armonicamente interconnesso tra le valutazioni dei presupposti di fatto e le valutazioni delle ragioni giuridiche considerate.

In ogni caso, la motivazione non deve soltanto “essere presente”, bensì deve essere anche sufficiente, congrua e coerente.

Dottrina e giurisprudenza individuano i canoni della motivazione nella sufficienza – attitudine ad eliminare i dubbi di irragionevolezza e di arbitrio nell’operato della P.a., e nella congruità – corretta esternazione dei percorsi logici e le ragioni poste dall’amministrazione alla base del provvedimento assunto. Infine, la motivazione deve essere coerente, in assenza della quale si parla di motivazione contraddittoria, ossia nel caso in cui un provvedimento viene assunto sulla base di più circostanze, le quali, tuttavia, sono tra di loro incompatibili.

Inoltre, l’art. 3 della legge 241 del 1990 ammette  la possibilità per le Amministrazioni a motivare l’atto per relationem, ma le obbliga poi ad allegare l’atto richiamato o, quantomeno, indicare le modalità con le quali l’atto stesso possa essere acquisito.

La norma specifica altresì che la necessità di motivazione si estende anche ai procedimenti riguardanti “l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale”.

L’obbligo di motivazione dell’atto amministrativo è espressamente escluso per gli atti normativi, che per le loro caratteristiche di generalità, astrattezza e, dunque, per la loro indole normativa, non necessitano di specifiche illustrazioni, quelli a contenuto generale e tutte le determinazioni autoritative, compresi gli atti di alta amministrazione, gli atti organizzativi e quelli conformi all’istanza dell’interessato.

Trattasi, dunque, di atti normativi dotati di ampia discrezionalità, quali i regolamenti amministrativi che, per la loro natura di fonti del diritto, introducono precetti generali rivolti a una pluralità di destinatari ed astratti, in quanto non si è dato sapere se e quante volte verranno applicati.

In tal senso non soggiacciono all’obbligo di motivazione gli atti di pianificazione generali, in quanto espressione di poteri essenzialmente privi di discrezionalità amministrativa, non comportando in capo ai destinatari una immediata lesività (atti di programmazione e pianificazione generale), essendo sufficiente per tali atti l’inesistenza di ragioni irregolari ed incongrue delle scelte operate dalla Pubblica amministrazione.

Diversamente sono soggetti all’obbligo di motivazione i provvedimenti di varianti urbanistiche in quanto incidenti su aspettative qualificate già formatesi in capo ai destinatari.

L’esclusione di tali categorie di atti dal campo di applicazione dell’obbligo motivazionale veniva ricondotta all’assenza di discrezionalità di cui godeva l’amministrazione sotto il profilo dell’adozione (an) e del contenuto (quid) degli atti ovvero a ragioni di sostanziale superfluità dell’apparato motivazionale.

Parimenti non sono soggetti all’obbligo di motivazione gli atti generali che, a differenza dei provvedimenti amministrativi, prescindono da interessi uti singuli e sono rivolti alla generalità di individui.

Parte della dottrina ritiene che gli atti generali, in quanto atti formalmente e materialmente amministrativi, dovrebbero essere soggetti all’obbligo di motivazione.

Laddove, invece, l’attività sia vincolata, la motivazione potrà essere più scarna, richiedendo il richiamo delle norme e dei presupposti di fatto legislativamente prefigurati per giustificare l’adozione del provvedimento amministrativo, mancando spazi di scelta e deliberativi in capo alla P.a.

La mancanza di un obbligo di motivazione rendeva, come accennato all’inizio, meno incisivo il controllo giurisdizionale amministrativo, difficilmente attuabile in assenza di una motivazione di base dalla quale estrapolare la logicità e la congruità in rapporto alle risultanze istruttorie.

Per ovviare a tutto ciò, la dottrina e la giurisprudenza hanno progressivamente individuato talune tipologie di atti per i quali la motivazione, pur in difetto di una specifica prescrizione normativa, doveva comunque ritenersi obbligatoria.

In particolare, si riteneva che fossero atti necessariamente motivati:

- gli atti che comportano giudizi, pareri o valutazioni comparative;

- i provvedimenti difformi dai pareri acquisiti in sede istruttoria o dall’osservanza di prescrizioni contenute in circolari o dalla prassi;

- gli atti sacrificativi e gli atti che vanno ad incidere in senso complessivamente negativo sulla sfera giuridica del privato.

Non si riteneva quindi necessario motivare gli atti positivi, quelli, cioè, con cui si accoglie l’istanza di un privato o, più in generale, ampliativa della sfera giuridico-patrimoniale (ad. Esempio i provvedimenti di autorizzazione e di concessione). L’atto positivo, non comporta, infatti un sacrificio per il privato e non comporta, di conseguenza, l’esigenza di un’illustrazione delle ragioni che hanno portato all’emanazione del provvedimento; l’atto in quanto tale risulta, per converso, indicativo di una conformità alla legge dell’istanza del privato, conformità della quale non è necessaria una specificazione in dettaglio.

 

2. La motivazione postuma e la possibile conciliazione con l’art. 21-octies della l. 241/90

In assenza di specifica normativa, dopo un primo momento, sia la giurisprudenza che la dottrina propendevano per l’inammissibilità della motivazione postuma dal momento che essa violerebbe l’obbligo imposto dalle fonti normative e il principio di trasparenza dell’azione amministrativa, è passata ad ammettere la possibilità per l’amministrazione di integrare e precisare la motivazione attraverso nuovi atti sul presupposto che il giudizio amministrativo non è più configurabile solo come giudizio sull’atto, ma investe l’intero rapporto con la Pubblica amministrazione, e che il privato ha, comunque, il diritto di presentare motivi aggiunti in giudizio, in modo da non subire passivamente l’integrazione motivazionale.

Quello che non è consentito invece è l’integrazione alla originaria motivazione, nel corso del giudizio, mediante scritti difensivi predisposti dai legali difensori delle amministrazioni resistenti, ciò in quanto principi di buona amministrazione impongono che la motivazione preceda l’adozione di un provvedimento amministrativo.

L’istituto della motivazione postuma consiste, quindi, nel fatto che la Pubblica amministrazione integra ex post, ossia in giudizio, completandolo di motivazione, un atto che ab origine si presentava privo di quest’ultima o la prevedeva in maniera non del tutto sufficiente.

Il termine tende a ricomprendere due distinte eventualità: la prima si ha quando è la stessa amministrazione ad intervenire con un successivo provvedimento amministrativo, integrando gli estremi ed espungendo i vizi che la motivazione poteva presentare, perché carente o del tutto assente; la seconda si ha con un’integrazione che avviene direttamente in giudizio, esternando la motivazione solitamente nelle memorie difensive dell’amministrazione resistente al ricorso.

Una prima eccezione concerne “il caso degli atti di natura vincolata di cui all’articolo 21 octies, l. 7 agosto 1990 n. 241, in relazione ai quali l’Amministrazione può dare anche successivamente l’effettiva dimostrazione in giudizio dell’impossibilità di un diverso contenuto dispositivo”. 

L’amministrazione pertanto sarà tenuta a dimostrare la vincolatezza della scelta operata attraverso l’enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto, i quali, in caso di procedimenti in cui non residua alcun margine di discrezionalità, esauriscono il contenuto della motivazione. Pertanto in questo caso si richiede una vera e proprio motivazione in giudizio, seppur limitata alla giustificazione, a pena di annullabilità dell’atto.

La seconda eccezione è quella “concernente la possibilità di una successiva indicazione di una fonte normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando questa, per la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto essere conosciuta da un operatore professionale”.

A confermare il superamento dell’originaria inammissibilità della motivazione postuma, è arrivata proprio recentemente una sentenza del Consiglio di Stato che, pur ribadendo in generale il divieto di motivazione postuma (“in quanto la motivazione rappresenta il presidio essenziale del diritto di difesa”), la ammette e riconosce in tre specifici casi: quando il ricorso all’istituto de quo non lede il diritto di difesa della controparte; nei casi di atti vincolati per legge; e infine, nei casi in cui le ragioni sottostanti l’emissione dell’atto gravato siano desumibili dagli atti inerenti la fase endoprocedimentale nei cui confronti, quindi, la motivazione postuma si atteggia a semplice specificazione o chiarimento.

La giurisprudenza più recente (Consiglio di Stato, IV, 17 giugno 2020, n. 3896) ha avuto occasione di chiarire che, anche ove il provvedimento sia redatto in forma semplificata ai sensi dell’articolo 2 della legge 7 agosto 1990 n. 241, ossia dell’atto che si regga invece su un’unica ragione – di fatto e di diritto – rispetto alla quale vive in un rapporto di coessenziale dipendenza, resta comunque fermo il divieto di integrazione postuma del compendio motivazionale, da tempo costantemente ribadito.

Tale divieto impone al giudice di vagliare la legittimità del provvedimento unicamente alla stregua delle motivazioni in questo riportate senza poter considerare eventuali ragioni ulteriori che emergano nel corso del giudizio o che siano comunque manifestate dall’amministrazione in atti successivi.

Alla luce di tale preclusione, si è affermato un principio di cristallizzazione del compendio motivazionale che, nel momento in cui è trasfuso all’interno del provvedimento, non può più essere rimodulato in epoca successiva. Tale circostanza incide evidentemente sull’opportunità di ricorrere alle motivazioni semplificate e orienta l’azione amministrativa verso la ricerca di un maggiore soddisfazione dell’onere di enucleazione delle ragioni sottese alla decisione amministrativa.

 

3. La motivazione nelle prove concorsuali

La motivazione dei pubblici concorsi riguarda tutti i provvedimenti amministrativi posti in essere dopo la fase iniziale e fino al suo completamento. Pertanto, sono esclusi  i provvedimenti propedeutici (es. bando di concorso) e successivi all’atto principale (es. determina di approvazione della graduatoria di merito). La motivazione è necessaria, quindi, alla presenza di un autonomo e distinto procedimento amministrativo relativo ai pubblici concorsi.

Nell’ambito dei concorsi per accedere al pubblico impiego, peraltro, da tempo la giurisprudenza amministrativa e costituzionale ritiene che il voto numerico costituisca un’adeguata motivazione, quale espressione del giudizio di sufficienza o di insufficienza e sintesi della valutazione attraverso la sua concreta graduazione, purché siano rigidamente predeterminati i parametri di riferimento ed il metodo di correzione degli elaborati, considerandosi che si tratta di attività connotata da discrezionalità tecnica e che occorre assicurare la tempistica delle correzioni, spesso a fronte di numerosissimi elaborati, nell’ottica di assicurare i principi di buon andamento ed imparzialità.

L’espressione in numeri è compatibile con il principio generale della motivazione, perché le esigenze di semplificazione che emergono normalmente nel caso di pubblici concorsi, consentono che la motivazione sia espressa in voti numerici. In particolare, l’espressione in numeri è applicazione di un’esigenza che non viola il generale obbligo di motivazione, perché il voto numerico esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione esaminatrice e non richiede ulteriori spiegazioni e chiarimenti in quanto è normalmente attuazione di criteri tecnici che la commissione necessariamente ha stilato prima della correzione delle prove, non risultando perciò violato l’art. 3 della Legge n. 241/1990 (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 29 marzo 2019, n. 2091).

Il giudizio tecnico discrezionale della Commissione esaminatrice, contenendo in sé stesso la motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni, quale principio di economicità amministrativa di valutazione, assicura la necessaria chiarezza e graduazione delle valutazioni compiute dalla Commissione stessa nell’ambito del punteggio disponibile e del potere amministrativo da essa esercitato e la significatività delle espressioni numeriche del voto, sotto il profilo della sufficienza motivazionale in relazione alla prefissazione, da parte della stessa, di criteri di massima di valutazione che soprassiedono all’attribuzione del voto, da cui desumere con evidenza, la graduazione e l’omogeneità delle valutazioni effettuate mediante l’espressione della cifra del voto, con il solo limite della contraddirne manifesta tra specifici elementi di fatto obiettivi, i criteri di massima prestabiliti e la conseguente attribuzione del voto. I criteri di valutazione devono essere formulati non in termini generici, generali o astratti riferibili a determinate qualità e caratteristiche degli elaborati, ma dettagliati e fungere da criteri motivazionali necessari a definire quanto quelle qualità concorrano a determinare il punteggio stabilito nel bando per le singole prove (in tal senso, Tar Veneto, sentenza 12 maggio 2020, n. 443).

Nell’ambito della ampia discrezionalità attribuita alla Commissione esaminatrice dalla giurisprudenza, ritiene il Collegio, applicando i consolidato orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, che tali criteri siano idonei ad indirizzare il percorso valutativo della Commissione ai fini della autolimitazione della sfera di discrezionalità tecnica, con conseguente sufficienza del punteggio numerico, quale espressione della motivazione.

La giurisprudenza ha offerto sinora un’interpretazione conservativa della norma, precisando che l’attività di predeterminazione può avvenire anche dopo lo svolgimento delle prove scritte, purché prima che si proceda alla loro correzione. Si è in tal senso puntualizzato che «La fissazione di sub-criteri per la valutazione delle prove concorsuali, ai sensi dell’articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica n. 487 del 1994, non è soggetta a una pubblicazione antecedente allo svolgimento delle prove, avendo una simile operazione il solo scopo di scongiurare il sospetto di favoritismi verso singoli candidati, con la conseguenza che si dovrà ritenere legittima la determinazione dei predetti criteri dopo l’effettuazione delle prove concorsuali, purché prima della loro concreta valutazione, cioè antecedentemente all’effettiva correzione delle prove scritte» (T.A.R. Emilia-Romagna Bologna Sez. I, 19 giugno 2015 n. 597; si è espresso in tal senso anche T.A.R. Lazio – Roma, Sez. I, 10 gennaio 2017 n. 368, nonché T.A.R. Lazio – Roma, Sez. III 07 maggio 2014 n. 4733). L’assunto è enunciato anche dal Giudice d’appello che ha al riguardo precisato che “Il principio di preventiva fissazione dei criteri e delle modalità di valutazione delle prove concorsuali che, ai sensi dell’articolo 12, del decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487, devono essere stabiliti dalla commissione nella sua prima riunione (o tutt’al più prima della correzione delle prove scritte), deve essere inquadrato nell’ottica della trasparenza dell’attività amministrativa perseguita dal legislatore, il quale pone l’accento sulla necessità della determinazione e verbalizzazione dei criteri stessi in un momento nel quale non possa sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti, con la conseguenza che è legittima la determinazione dei predetti criteri di valutazione delle prove concorsuali, anche dopo la loro effettuazione, purché prima della loro concreta valutazione». (Consiglio di Stato, Sez. VI, 19 marzo 2015 n. 1411).

I “Criteri di valutazione ad avviso della Sezione devono essere formulati non in termini generici, generali o astratti riferibili a determinate qualità e caratteristiche degli elaborati, ma dettagliati e fungere da criteri motivazionali necessari a definire quanto quelle qualità concorrano a determinare il punteggio stabilito nel bando per le singole prove”. (T.A.R. Lazio – Roma, Sez. III Bis, 25 luglio 2018 n. 8426).

Il voto numerico esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione stessa, contenendo in sé la motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni o chiarimenti (da ultimo, Consiglio Stato, Sez. V, 11 dicembre 2015) e ciò in quanto la motivazione espressa numericamente assicura la necessaria chiarezza e graduazione delle valutazioni compiute dalla commissione nell’ambito del punteggio disponibile e del potere amministrativo da essa esercitato (così, ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 5 settembre 2013, n. 4457) senza che necessiti, ai fini della legittimità dei verbali di correzione e dei conseguenti giudizi, l’apposizione di glosse, segni grafici o indicazioni di qualsivoglia tipo sugli elaborati in relazione agli eventuali errori commessi” (Cons di Stato, Sez. IV, 16 aprile 2012, n. 2166). Il Collegio ha successivamente analizzato la censura relativa ai criteri di massima per la valutazione dei titoli e ha affermato come la propria possibilità di intervento, in sostituzione, sia limitata ai soli casi in cui le decisioni dell’Amministrazione fossero illogiche, irrazionali e irragionevoli, non configurandosi nessuna di tali circostanze nessun intervento le è consentito (T.A.R. Lazio Roma, Sez. I bis, sentenza n. 3465 del 19 marzo 2020).

In relazione alla valutazione dei singoli elaborati, così come compiuta dalla Commissione, il Tribunale Amministrativo ha rimandato al consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa per cui il giudizio della Commissione, affidato alla discrezionalità tecnica dello stesso organo, può essere censurato solamente nel caso in cui dalla documentazione risulti un’evidente superficialità, incompletezza, incongruenza o manifesta disparità, tali da configurare un palese eccesso di potere (e in questo caso il giudice non potrebbe comunque entrare nel merito della valutazione): ha pertanto considerato infondata una censura volta ad ottenere una diversa valutazione dell’elaborato in quanto il giudizio della Commissione non è stato ritenuto affetto da profili di illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà o travisamento manifesti, in relazione alle carenze su cui si è fondata la non ammissione alla prova orale.

Sono state poi definite come “destituite di giuridico fondamento” le censure volte a contestare la violazione dell’articolo 12, del decreto del Presidente della Repubblica n. 487 del 1994, sollevate dai ricorrenti in quanto la Commissione non avrebbe prestabilito i criteri di valutazione nella prima seduta.

Pronunce recenti hanno inteso la normativa in questione nel senso che i criteri “devono essere stabiliti dalla commissione esaminatrice, nella sua prima riunione – o tutt’al più prima della correzione delle prove scritte” (T.A.R. Lazio, Sez. II, 20 aprile 2015, n. 5763), la fissazione degli stessi “non è soggetta a una pubblicazione antecedente lo svolgimento delle prove” e “si dovrà ritenere legittima la determinazione dei predetti criteri anche dopo l’effettuazione delle prove concorsuali, purché prima della loro concreta valutazione” (T.A.R. Emilia-Romagna Bologna, Sez. I, 19 giugno 2015, n. 597). Ha poi osservato il Collegio che i verbali, in quanto atti interni della Commissione concorsuale, non sono assoggettati alla disciplina dell’articolo 53, del decreto del Presidente della Repubblica n. 445 del 2000, che impone a “registrazione obbligatoria i documenti ricevuti e spediti dall’amministrazione e tutti i documenti informatici” e che al fine della validità del verbale basti che da esso risulti la verità storica, non essendo richiesta la contestualità con gli atti registrati.

Infine, il predetto Tribunale Amministrativo Regionale ha ritenuto infondate le censure inerenti alla violazione del principio dell’anonimato: infatti la chiusura della busta, se pur impedita ai candidati, avveniva al momento della consegna dei compiti e in presenza dei candidati stessi e la regolarità dell’operazione è ravvisabile dal primo verbale di correzione degli elaborati: nonostante la mancata verbalizzazione di singole operazioni il Tribunale non ha ravvisato elementi probanti un’effettiva manipolazione della documentazione di gara”.

La giurisprudenza amministrativa, suggellata dalla Corte Costituzionale ha sancito da tempo che nei concorsi pubblici la valutazione dei candidati è sufficientemente espressa con un voto numerico, idoneo a condensare la motivazione, avendo affermato che «il voto numerico attribuito dalle competenti commissioni alle prove scritte o orali di un concorso pubblico (o di un esame di abilitazione) esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione stessa, contenendo in sé la sua motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti» (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV, 19 luglio 2004, n. 5175 e Sez. VI, 2 aprile 2012, n. 1939, sez. III 28 settembre 2015 n. 4518; Consiglio di Stato, Sez. V, 30 novembre 2015, n. 5407). Tale principio è stato definito “diritto vivente” dalla stessa Corte Costituzionale (cfr. sentenze 30 gennaio 2009, n. 20, e sentenza 15 giugno 2011, n. 175). Ciò posto, deve tuttavia pervenirsi a diversa ed opposta soluzione allorché disposizioni specifiche e settoriali stabiliscano invece una diversa regula iuris, sancendo, come nella specie, la necessità che venga allestito in aggiunta all’espressione di un voto numerico, anche un giudizio discorsivo, quantunque sintetico.

 

4. La motivazione della nomina del personale di vertice

Nel caso di nomina del personale di vertice dell’amministrazione il problema della estensione della motivazione deve coordinarsi con l’elevata discrezionalità che sottende alla individuazione del personale che si colloca in una posizione elevata nel quadro organizzativo della Pubblica amministrazione.

Proprio l’amplissima discrezionalità tecnico-politica della amministrazione, invero, aveva indotto la giurisprudenza tradizionale ad escludere che tali delibere dovessero essere corredate da adeguata motivazione comparativa, “inerendo la valutazione alla sintesi complessiva del modo di essere e di rappresentarsi di ciascun candidato” ed in ragione dell’alto tasso di discrezionalità della amministrazione procedente (Tar Lazio, 5 settembre 1994, n. 1260).

A tale orientamento, tuttavia, si è ben presto contrapposta la tesi di chi ritiene comunque sussistente l’obbligo di motivare gli atti di nomina del personale di vertice, poiché la scelta del dirigente deve rispondere ad esigenze tecnico professionali specifiche di cui la Pubblica amministrazione procedente deve dare conto mediante un’adeguata motivazione (Cons. St., sez. VI, 20 luglio 1993, n. 556).  

Deve tuttavia ritenersi sufficiente che detti elementi emergano dalla documentazione istruttoria, nel caso in cui emerga palesemente dalla documentazione stessa il possesso, da parte del designato, di requisiti personali e professionali tali da costituire, anche se per implicito, una congrua giustificazione.

Il Tribunale Amministrativo Regionale Lazio – Roma, Sez. I – con sentenza 5 marzo 2012, n. 2223 ha escluso che abbiano natura di atto politico gli atti di nomina alle cariche dirigenziali dell’amministrazione dello Stato o alle alte cariche pubbliche.

Per il collegio hanno, infatti, natura politica solo gli atti riferibili a organi costituzionali dello Stato, collegati immediatamente e direttamente alla Costituzione e alle leggi costituzionali, nei quali si estrinsecano l’attività di direzione suprema della cosa pubblica e l’attività di coordinamento e controllo delle singole manifestazioni in cui la direzione stessa si esprime nel rispetto degli interessi del regime politico canonizzati nella Costituzione e, dunque, sottratti al sindacato del giudice amministrativo.

Gli atti di cui trattasi sono, invece, finalizzati alla selezione del soggetto più adatto a ricoprire una carica in vista del rispetto di obiettivi essenzialmente programmatici e poiché presuppongono una seria valutazione del possesso dei requisiti prescritti in capo al candidato vanno ricondotti nell’ambito degli atti di alta amministrazione.

Questi svolgono un’opera di raccordo fra la funzione di governo e la funzione amministrativa e rappresentano il primo grado di attuazione dell’indirizzo politico nel campo amministrativo; essi costituiscono manifestazioni d’impulso all’adozione di atti amministrativi, funzionali all’attuazione dei fini della legge e sono pacificamente ritenuti soggetti al regime giuridico dei provvedimenti amministrativi che vede l’applicazione, in primo luogo, degli articoli 24, 97 e 113 della Costituzione, non potendo soffrire alcun vuoto di tutela giurisdizionale.

Il supremo consesso ha anche sottolineato come la natura formalmente e sostanzialmente amministrativa degli atti di alta amministrazione li assoggetti all’obbligo di motivazione, essendo chiuso nel sistema, dopo l’entrata in vigore della legge n. 241 del 1990, ogni spazio per la categoria dei provvedimenti amministrativi c.d. a motivo libero, e posto che la connotazione di un atto amministrativo come un atto di alta amministrazione non vale di per sé ad escludere l’onere di motivazione a carico dell’Amministrazione.

Nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto che la nomina di un componente di un’agenzia indipendente preposta alla tutela degli interessi dei cittadini-utenti vada ricondotta, nonostante l’indubbio carattere altamente fiduciario della carica, all’attività amministrativa del governo e che i provvedimenti conseguentemente adottati vadano ricompresi tra gli atti di alta amministrazione.

Ne deriva che non può essere escluso il sindacato giurisdizionale nemmeno sull’esercizio del potere discrezionale di scelta, benché circoscritto all’accertamento di legittimità, ossia alla verifica della sussistenza dei presupposti e dell’esistenza e della congruità del nesso logico di consequenzialità fra presupposti e conclusione.

I giudici hanno, inoltre, affermato che non può essere esclusa, anche se in via eccezionale, l’autonoma impugnabilità di un atto endoprocedimentale (la lesione della sfera giuridica del soggetto destinatario dello stesso essendo normalmente imputabile all’atto che conclude il procedimento) se atti di natura vincolata (pareri o proposte), idonei come tali a imprimere un indirizzo ineluttabile alla determinazione conclusiva, atti interlocutori, idonei a cagionare un arresto procedimentale capace di frustrare l’aspirazione dell’istante ad un celere soddisfacimento dell’interesse pretensivo prospettato, e atti soprassessori, che, rinviando ad un avvenimento futuro ed incerto nell’an e nel quando il soddisfacimento dell’interesse pretensivo fatto valere dal privato, determinano un arresto a tempo indeterminato del procedimento che lo stesso privato ha attivato a

sua istanza idonei, come tali, ad imprimere un indirizzo ineludibile alla determinazione conclusiva.

In ambito locale, il “reclutamento” della dirigenza pubblica, in particolare  quella ricompresa nell’articolo 110, comma 1 del decreto legislativo n. 267/2000, presenta una forte componente fiduciaria, dove l’individuazione avviene tra soggetti idonei alla funzione senza alcuna verifica dei requisiti per l’accesso alla qualifica (sono presupposti inscindibili), quanto la presentazione di una rosa di candidatura da sottoporre all’organo elettivo, sulla base di un c.d. call pubblica, per definire il quadro organizzativo, ai sensi del comma 10 dell’articolo 50 del Testo Unico Ordinamento Enti Locali, approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267,il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali”.

Da  ciò, si può dedurre che nell’impiego pubblico il conferimento di posizioni organizzative o dirigenziali esula dall’ambito delle procedure concorsuali, di cui all’articolo 63 comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e s.m., in quanto il posto da ricoprire non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato (né un mutamento di area), ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell’incarico.

Lo status di dirigente pubblico esprime, in questi termini, l’idoneità professionale del dipendente a svolgere mansioni implicanti un certo grado di responsabilità, e non il diritto soggettivo a mantenere o conservare un determinato incarico, sicché si può giustificare anche su questo profilo il contratto a termine che assegna la funzione ad tempus, con conseguente devoluzione della controversia alla giurisdizione del giudice ordinario, non ostandovi che vengano in considerazione atti amministrativi presupposti intesi alla fissazione dei criteri per l’affidamento del contratto.

Applicando tali coordinate ermeneutiche al caso di specie, la selezione avviata con la manifestazione di interesse era rivolta a raccogliere le istanze di coloro che fossero in “possesso dei requisiti generali per l’ammissione ai pubblici uffici, comuni a tutte le selezioni», e di quelli per «l’accesso alla dirigenza”, quindi, sulla base delle candidature pervenute, previa verifica dei requisiti da parte degli uffici (un’attività eminentemente istruttoria), in assenza di qualunque valutazione comparativa o graduatoria, è stato formato l’elenco degli idonei dal quale “il Sindaco … ha individuato i candidati prescelti per ogni singola posizione dirigenziale”.

In conclusione, benché le designazioni degli organi di vertice delle amministrazioni si configurino come provvedimenti da adottare sulla base di criteri fondamentalmente fiduciari, riconducibili, in quanto espressione della potestà di indirizzo e di governo delle autorità preposte alle amministrazioni stesse, al novero degli atti di alta amministrazione, i provvedimenti di nomina devono contenere – a pena di illegittimità – le ragioni della nomina tra candidati in possesso di titoli specifici e alla luce di una valutazione complessiva del prescelto. Ciò al fine di dimostrare la ragionevolezza della scelta effettuata che non deve limitarsi al mero riscontro dei soli requisiti oggettivi.

 

5. La motivazione della nomina/revoca dell'assessore

 La natura giuridica dell’atto di nomina/revoca degli assessori comunali secondo la dottrina.

5.1 - Natura politica dell’atto

Ai sensi dell’articolo 46, comma 2 del decreto legislativo n. 267/2000, c.d. Testo Unico degli Enti Locali (TUEL) “Il sindaco e il presidente della provincia nominano, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della giunta, tra cui un vicesindaco e un vicepresidente, e ne danno comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva alla elezione”. Il successivo comma 4, invece, disciplina l’atto (uguale e contrario) di revoca del Sindaco e prevede, testualmente: “Il sindaco e il presidente della provincia possono revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione al consiglio”. Definire la natura giuridica dell’atto con cui si dispone la nomina e la revoca dei componenti delle giunte, determina l’assoggettabilità o meno dello stesso al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, precluso qualora trattasi di atto politico (come espressamente previsto dall’art. 7 comma 1 del decreto legislativo n. 104/2010, c.d. Codice del Processo Amministrativo (CPA)), incluso se, viceversa trattasi di atto amministrativo.

Si è posto, infine, il problema della motivazione degli atti c.d. fiduciari, cioè quegli atti emessi esclusivamente sulla base di un rapporto fiduciario “intuitu personae” con il soggetto che emette il provvedimento (ad esempio, nei rapporti politici), dunque massimamente discrezionali.

Secondo parte della giurisprudenza, tali atti, proprio perché basati su una scelta fiduciaria, non devono essere motivati.

Tuttavia, di recente, altra giurisprudenza ha sancito la necessità della motivazione anche per i suddetti atti: il provvedimento in esame, pur richiedendo una motivazione semplificata e non profonda perché il potere del soggetto che affida l’incarico è caratterizzato da forte discrezionalità, tuttavia non può prescindere da canoni di ragionevolezza, come tali sindacabili.

La disciplina di nomina e revoca degli assessori da parte del Sindaco è stata introdotta dall’articolo 16 della legge 25 marzo 1993 n. 81 “Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale” che ha sostituito l’articolo 34 della legge 8 giugno 1990, n. 142, per poi confluire nell’attuale articolo 46 del Testo Unico Enti Locali secondo cui il Sindaco è eletto dai cittadini a suffragio universale e diretto secondo le disposizioni dettate dalla legge, nomina i componenti della Giunta e ne dà comunicazione al Consiglio nella prima seduta successiva alla elezione. Questa disciplina punta ad assicurare la coesione e l’unità di indirizzo politico della Giunta e a garantire al Sindaco la possibilità di dare attuazione al programma politico sulla base del quale è stato eletto. Ne deriva che tra gli assessori e il Sindaco o il Presidente della Provincia sussiste un rapporto di tipo fiduciario. L’art. 46 prosegue stabilendo che il Sindaco può revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione, non all’interessato (evidentemente perché non è possibile ravvisare la lesione di situazioni giuridiche soggettive in capo allo stesso), ma al Consiglio, che potrà eventualmente non condividere la scelta e sfiduciare il capo dell’amministrazione. Il Consiglio comunale effettua tale valutazione sulla base della motivazione di cui all’art. 46 cit., non riconducibile, pertanto, a quella imposta dall’articolo 3 della legge n. 241 del 1990.

Il comma 4 dell’articolo 46 decreto legislativo n. 267/2000 si pone, per i sostenitori della natura politica dell’atto, in rapporto di specialità rispetto all’articolo 3 della legge n. 241/1990  che fissa quale principio generale l’obbligo di motivazione del provvedimento. Questa lettura della norma porta evidenti argomenti a sostegno della natura politica dell’atto di nomina/revoca dell’assessore.

 

5.2 - Natura amministrativa dell’atto

A questa tesi si contrappone quella che sostiene la natura provvedimentale di tale atto, il che significherebbe che alla revoca assessorile si applicano tutti gli istituti della legge n. 241/1990 ed in particolare:

  • la comunicazione di avvio del procedimento;
  • l’obbligo di motivazione del provvedimento;
  • l’art. 21 quinquies che ne disciplina la revoca.

In ossequio all’articolo 3 comma 1 della legge n. 241/1990 “la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.

Immaginare che a monte di un provvedimento di nomina/revoca assessorile vi sia un’attività istruttoria è piuttosto impensabile. L’attività istruttoria, infatti, secondo la legge n. 241/1990 implica i seguenti adempimenti da porre in essere:

  • Valutare le condizioni di ammissibilità. Il responsabile del procedimento dovrebbe verificare l’ammissibilità del provvedimento di revoca, che la legge prevede espressamente in capo al sindaco o al presidente della provincia;
  • Verificare i requisiti di legittimazione, sulla legittimazione del Sindaco e dell’assessore quali soggetti attivi e passivi del procedimento di revoca;
  • Accertare d’ufficio i fatti;
  • Chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di istanze erronee o incomplete, quasi che il provvedimento di revoca fosse ad istanza di parte ovvero il Sindaco debba chiedere autorizzazioni per procedere;
  • Esperire accertamenti tecnici, ispezioni ed esibizioni documentali;
  • Accertare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche. Mentre per le ragioni di fatto è agevole sussumere le stesse nell’interruzione di un rapporto fiduciario, non esistono presupposti giuridici alla base di un tale provvedimento.

Ad analoga conclusione si perviene analizzando l’applicabilità al provvedimento di revoca assessorile dell’istituto previsto dall’articolo 21 quinquies della Legge n. 241 del 1990, rubricato “Revoca del provvedimento”. Il disposto normativo così prevede: “Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro indennizzo. Le controversie in materia di determinazione e corresponsione dell’indennizzo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”. Dalla lettura della norma si comprende come non sussistano, per i provvedimenti di revoca dell’assessore, i sopravvenuti motivi di pubblico interesse e la nuova valutazione dell’interesse pubblico originario. Se è pur vero che la giunta, quale organo di governo dell’ente locale, persegue il compito di attuare l’interesse pubblico, il provvedimento di nomina/revoca non persegue, di per sé, alcun interesse pubblico specifico.

L’unico requisito previsto dall’articolo 21-quinquies ed applicabile al provvedimento di revoca del sindaco è il caso del “mutamento della situazione di fatto”.

 

5.3 - L’atto di nomina/revoca dell’assessore quale atto di alta amministrazione.

Resta da inquadrare il provvedimento di nomina/revoca dell’assessore tra gli atti di alta amministrazione. Gli atti di alta amministrazione sono atti contenenti direttive politico-amministrative la cui adozione spetta agli organi di governo, anche a livello locale. Si configurano, pertanto, come una speciale categoria di atti amministrativi, la cui peculiarità risiede nella funzione di collegamento tra indirizzo politico e l’attività amministrativa in senso stretto. Facendo rientrare gli atti di nomina/revoca nella categoria degli atti di alta amministrazione, gli stessi sono assoggettati alla sindacabilità da parte del giudice amministrativo, limitatamente agli aspetti formali relativi al procedimento, restando esclusa, da parte del giudice ogni valutazione circa l’opportunità politico-amministrativa sull’atto.

 

5.4 - La posizione della giurisprudenza.

In giurisprudenza, come è noto, è pacifico il principio in base al quale la legge non pone vincoli contenutistici all’esercizio del potere di revoca dell’incarico di assessore; spetta, infatti, al Sindaco il potere di effettuare le più ampie valutazioni di opportunità politico – amministrativa da porre a base della decisione, che possono consistere nella prospettazione sia di esigenze di carattere generale, quali ad esempio rapporti con l’opposizione o rapporti interni alla maggioranza consiliare, sia di particolari esigenze di maggiore operosità ed efficienza di specifici settori dell’amministrazione locale, sia di valutazione afferenti all’affievolirsi del rapporto fiduciario tra il capo dell’amministrazione e il singolo assessore (Consiglio di Stato, sez. V, sent. n. 209/2007; TAR Emilia Romagna, Parma, sent. n. 111/2014).

Nel merito, la giurisprudenza si è divisa in tre orientamenti.

Un primo orientamento giurisprudenziale distingue l’atto di nomina, avente natura politica, dall’atto di revoca avente natura amministrativa. Per tale orientamento le ragioni meramente politiche si arrestano alla fase costitutiva della giunta, per poi subentrare i principi costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione (TAR Puglia, sez. I, sentenza n. 2692 del 7 novembre 2014). La revoca dell’assessore pertanto non può in alcun modo riferirsi a ragioni politiche, ma deve essere motivata, ai sensi dell’art. 46 per le comuni esigenze di trasparenza, imparzialità e buon andamento. “Richiedendo una vera e propria motivazione – e non una mera illustrazione anche orale delle ragioni del sindaco, così come può avvenire per le nomine degli assessori, il legislatore dimostra di ricondurre espressamente la revoca degli assessori alle garanzie formali e sostanziali proprie dei provvedimenti amministrativi”.

Per altro orientamento, ex multis TAR Lombardia, sentenza n. 453/2019, la nomina degli assessori, prevista dall’art. 46 comma 2 del D. Lgs. n. 267/2000, si basa su un vincolo di fiducia tra il Sindaco e la Giunta (quindi atto politico), non richiedendosi alcuna motivazione in ordine alle ragioni della scelta compiuta, ma soltanto la comunicazione al Consiglio nella prima seduta successiva all’elezione. Conseguentemente, analoga natura va riconosciuta al contrarius actus della revoca che si fonda proprio sul venir meno dell’intuitu personae, come atto simmetricamente negativo alla nomina. Difatti, poiché la nomina e la revoca degli assessori comunali dipendono esclusivamente dall’esistenza (e persistenza) di un rapporto fiduciario con il Sindaco, divenuto dopo la riforma elettorale che ha riguardato gli enti locali e dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, soggetto titolare di una sorta di primazia nell’ambito dell’Ente che rappresenta, è sufficiente che il sindaco individui il venir meno dell’elemento genetico (la fiducia) che era il presupposto della nomina, per poter dare luogo alla revoca. Detti provvedimenti, pertanto, possono sorreggersi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico-amministrativa, tra cui l’affievolirsi del rapporto fiduciario, senza che occorra specificare, i singoli comportamenti addebitati all’interessato.

Laddove il provvedimento di revoca sia privo del percorso motivazionale della revoca stessa, va da sé che l’atto non è in sintonia col principio dell’espressa motivazione sancito dalla legge 241/90.

Per l’ultimo orientamento, prevalente (TAR Campania Napoli, sezione I, sentenza n. 1966/2020), la revoca dell’assessore va motivata, ai sensi dell’art. 3 comma 1 della legge n. 241/1990. Tale sentenza segue l’orientamento prevalente del Consiglio di Stato, vedasi parere n. 2859/2019, secondo il quale il provvedimento di revoca dell’incarico di un singolo assessore previsto dall’art. 46 comma 4 del TUEL soggiace all’obbligo generalissimo di motivazione ex art. 3 della L. n. 241/1990, seppure anche mediante una sintetica motivazione riferita al venir meno del rapporto fiduciario fra sindaco ed assessore e può basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico-amministrativa rimesse in via esclusiva al Sindaco e, segnatamente, anche su ragioni afferenti ai rapporti politici all’interno della maggioranza consiliare e sulle ripercussioni sul rapporto fiduciario che deve sempre permanere tra il capo dell’amministrazione e il singolo assessore. La motivazione dell’atto di revoca può anche rimandare esclusivamente a valutazioni di opportunità politica e il Sindaco ha solo l’onere formale di comunicare al Consiglio Comunale la decisione di revocare un assessore, visto che è soltanto quest’ultimo organo che potrebbe opporsi, con una mozione di sfiducia all’atto di revoca.

 

Conclusioni.

Le posizioni dottrinarie e giurisprudenziali esposte consentono di giungere alle seguenti conclusioni. Pur riconoscendo valide ragioni ai sostenitori della natura politica dell’atto, non è possibile riconoscere al Sindaco un potere di revoca senza esporre le ragioni che l’hanno condotto all’adozione di quell’atto, in quanto il disposto normativo prevede “la motivata comunicazione al Consiglio”. Analogamente non appare ammettere la tesi di chi ritiene l’atto di nomina rientrante tra gli atti politici, mentre quello di revoca rientrante tra gli atti amministrativi e per il quale, pertanto, dovrebbero applicarsi le norme del giusto procedimento ex lege n. 241/1990.

Si ritiene, pertanto, condivisibile la tesi che ritiene l’atto di revoca afferente gli atti di alta amministrazione, che lasci la più ampia libertà al Sindaco di revocare un proprio assessore, con il solo onere di una adeguata comunicazione al Consiglio Comunale che potrebbe non condividere la scelta e farne seguire una sfiducia politica al Sindaco per l’adozione del provvedimento di cui si tratta.

Il Consiglio di Stato, sez. I, con parere n. 2859 del 13/11/2019 sopra citato, ha ribadito i principi già espressi in più occasioni dal giudice amministrativo, in ordine alla natura amministrativa e non politica dei provvedimenti di revoca degli assessori e sulla necessaria motivazione, anche sintetica, degli stessi, anche se essa può basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico-amministrativa, ciò in quanto il provvedimento è sindacabile in sede giurisdizionale per profili formali o in caso di evidente arbitrarietà.

Gli atti di nomina e di revoca degli assessori comunali non rientrano nella categoria degli “atti politici”, e come tali sottratti al sindacato di legittimità, ma mantengono la natura di atti amministrativi pur essendo denotati da ampia discrezionalità, non diversamente dai c.d. “atti di alta amministrazione”. Essi sono quindi sottoponibili al sindacato giurisdizionale in ossequio alla norma generale di cui all’art. 113 Costituzione, quantomeno entro gli stretti ambiti di un giudizio di non manifesta irragionevolezza o arbitrarietà.

 

In sostanza, dunque, anche il provvedimento sindacale di revoca dell’assessore soggiace all’obbligo generalissimo di motivazione posto dall’articolo 3 della legge n 241/1990, con la sola eccezione degli atti normativi e di quelli a contenuto generale. Obbligo che, per le ragioni richiamate sopra e condivise dal Consiglio di Stato, può essere adempiuto anche mediante una sintetica motivazione riferita al venir meno del rapporto fiduciario fra sindaco e assessore.

Non è da condividere quindi la posizione del Ministero circa la natura politica dell’atto di revoca e la conseguente assoluta inesistenza dell’obbligo di motivazione che, a ben vedere, non è affermato neppure dal precedente richiamato dalla relazione ministeriale (Consiglio di Stato, Sez. I, parere n. 4970/2013 del 24/12/2013).

Nonostante il carattere ampiamente discrezionale che connota il provvedimento di revoca dell’incarico di assessore, in ogni caso, non è possibile omettere il riferimento alle ragioni logico-giuridiche che lo devono sorreggere; infatti, il provvedimento di revoca è un esempio di atto amministrativo (e non di atto politico), con la conseguenza che detto provvedimento è assoggetto all’obbligo di motivazione ex articolo 3 della legge n. 241/1990.

Così, comportano l’illegittimità del provvedimento di revoca:

• la totale assenza della motivazione;

• la motivazione non aderente alla situazione di fatto accertata nel corso del giudizio;

• l’eccesso di potere, sotto il profilo della illogicità e/o irragionevolezza del provvedimento impugnato".

 

 

6. La motivazione della revoca del presidente del Consiglio Comunale

Analoghe considerazioni possono svolgersi in ordine alla revoca del presidente del Consiglio Comunale.

La giurisprudenza ha chiarito che la figura del Presidente del consiglio .... è posta a garanzia del corretto funzionamento di detto organo e della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza, per cui la revoca non può essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in quanto ne sia viziata la neutralità e deve essere motivata, perciò, con esclusivo riferimento a tale parametro e non a un rapporto di fiducia (conforme, T.A.R. Puglia – Lecce, sentenza n. 528/2014, Consiglio di Stato, Sez. V, 26 novembre 2013, n. 5605)”.

L’atto di revoca coinvolge una figura istituzionale che svolge funzioni proprie di un organo di garanzia a salvaguardia delle prerogative dei consigli e dei singoli consiglieri: la sua revoca può dipendere solo dall’accertata violazione delle regole di imparzialità e rappresentanza istituzionale che presiedono all’esercizio del suo ufficio, di cui deve essere data congrua motivazione (Tar Puglia - Bari, sez. I, 4 novembre 2002, n. 4719).

Sulla stessa posizione anche il Tar Piemonte, il quale ha statuito che “lo statuto comunale, tuttavia, può prevedere ipotesi e procedure di revoca del presidente del consiglio comunale, con riferimento a fattispecie che integrino comportamenti incompatibili con il ruolo istituzionale super partes che esso deve costantemente disimpegnare nell'Assemblea consiliare”.

In tal senso anche il T.A.R. Campania – Napoli - sez. I che, con decisione 3/5/2012 n. 2013, ha ribadito che il ruolo del presidente del Consiglio comunale è strumentale non già all’attuazione di un indirizzo politico di maggioranza, bensì al corretto funzionamento dell’organo stesso e, come tale, non solo è neutrale, ma non può restare soggetto al mutevole atteggiamento fiduciario della maggioranza, ha precisato che la revoca di detta carica non può essere attivata per motivazioni politiche, ma solo istituzionali, quali la ripetuta e ingiustificata omissione della convocazione del Consiglio o le ripetute violazioni dello statuto o dei regolamenti comunali.

In subiecta materia, il Consiglio di Stato (Sez. V, sentenza 26 novembre 2013, n. 5605) ha ritenuto legittima la revoca del Presidente del Consiglio comunale qualora la motivazione della delibera richiama fatti ben precisi (pubbliche esternazioni contenenti giudizi critici all’indirizzo di Sindaco, assessori e Giunta nel suo complesso, apparsi su quotidiani nazionali e locali; dichiarazioni cui si erano accompagnate decisioni personali di abbandonare la presidenza; avvertimenti ai colleghi circa possibili iniziative giudiziarie per ottenere il risarcimento dei danni in caso di revoca dell’incarico, ecc.), addotti a presupposto della decisione di rimuovere il Presidente stesso e che comprovano una evidente perdita di neutralità da parte sua.

Per i giudici di palazzo Spada,”la funzione del Presidente del Consiglio comunale è di carattere istituzionale e non politica, per cui la sua revoca non può che essere causata dal cattivo esercizio di tale funzione, tale da comprometterne la neutralità, non potendo essere motivata sulla base di una valutazione fiduciaria di tipo strettamente politico che non può essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in quanto ne sia viziata la neutralità e deve essere motivata perciò con esclusivo riferimento a tale parametro e non ad un rapporto di fiduciarietà politica” (sentenza 6 giugno 2002, n. 3187) … quindi, la Sezione ha precisato che possono costituire ragioni legittimamente fondanti la revoca in questione tutti quei comportamenti, tenuti o meno all’interno dell’organo, i quali, costituendo violazione degli obblighi di neutralità ed imparzialità inerenti all’ufficio, sono idonei a fare venire meno il rapporto fiduciario alla base dell’originaria elezione del presidente”.

Sia la nomina che l’elezione, traggono origine da apprezzamenti di carattere politico e tuttavia non esprimono una scelta libera nei fini, dovendo comunque sempre porsi nell’ottica del perseguimento delle finalità normative, non disponibili da parte dei componenti del Consiglio e dalle forze in esso presenti, di garantire la continuità della funzione di indirizzo politico-amministrativo dell’ente comunale: la revoca non può prescindere da fatti specifici inerenti la carica.

La carica di Presidente del Consiglio comunale ha un certo grado di stabilità, che ne esclude una sorta di rimozione ad nutum e apre la via al sindacato del giudice amministrativo sul relativo processo decisionale, con la conseguenza che le cause della revoca andranno ricavate combinando il carattere di garanzia del ruolo presidenziale con la discrezionalità politico-amministrativa (TAR Milano, Sez. I, 14 dicembre 2011, n. 3150).

In ultimo, il Consiglio di Stato, V Sez., con sentenza del 2 marzo 2018 ha ritenuto che tra i motivi “istituzionali” che legittimano la revoca del Presidente del Consiglio comunale non possa che essere ricompresa anche la salvaguardia dell’immagine esterna dell’Amministrazione, pregiudicata dal fatto che l’impresa appartenente a congiunti del Presidente stesso è stata colpita da un’interdittiva antimafia ed al contempo è stata destinataria dell’aggiudicazione di un appalto indetto dallo stesso Comune.

Nell’attuale contesto storico è arduo ritenere che un evento del genere sia indifferente sotto il profilo dell’opportunità istituzionale, cioè inidoneo a coinvolgere (si intende, momentaneamente, rebus sic stantibus) il Presidente del Consiglio comunale, pur non essendo questi interessato dall’interdittiva, e non risultando socio della società che ne è stata destinataria.

Del resto, i giudici di appello hanno osservato che già in precedenza era stata riconosciuta legittima la revoca del Presidente del Consiglio comunale nel caso in cui fosse comprovata una perdita di neutralità politica, necessariamente basata sull’assenza di coinvolgimenti, anche indiretti, in vicende che destano allarme sociale, specie in una dimensione di comunità territoriale non aliena dal rischio di potenziali fenomeni di infiltrazione mafiosa.

 

7.  Conclusioni

La motivazione è dunque la pietra miliare sulla quale poggia l’atto amministrativo, è la cartina da tornasole della Pubblica amministrazione.

Per molto tempo si è ritenuto che gli atti della pubblica amministrazione non dovevano essere motivati; le ragioni in base alle quali dovevano essere emanati atti amministrativi dovevano rimanere segrete e non essere esposte ai cittadini.

Ogni atto amministrativo aveva una finalità pubblica e le sue ragioni dovevano appunto essere esaminate soltanto dalla pubblica amministrazione, e rimanere segrete: il segreto permeava tutti gli atti amministrativi.

Per tutto l’ottocento ed il novecento, il segreto è rimasto la regola che sorregge l’atto amministrativo il quale non doveva essere motivato.

Oggi i principi stabiliti dall’articolo 3 della legge n. 241 del 1990 sono l’attuazione delle finalità stabilite dall’articolo 97 della Costituzione, vale a dire l’imparzialità ed il buon andamento dell’amministrazione.

La motivazione dell’atto o provvedimento amministrativo va soppesata in riferimento alla discrezionalità (potere di scelta tra due o più soluzioni possibili, tutte legittime per il perseguimento del fine pubblico); in tutti i casi in cui la legge lascia spazio di decisione alla pubblica amministrazione, è necessario che la motivazione sii la più ampia possibile, in modo da dare conto, spiegare in modo analitico e comprensibile l’esercizio del suo potere concretantesi nella scelte operate. Tanto più ampio è il suo potere discrezionale, maggiori e penetranti devono essere le motivazioni a supporto delle decisioni adottate.

Bibliografia

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  2. F. Botta, Atti amministrativi:elaborazione, redazione e adozione – Giuffrè Editore
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  6. L. Delpino – F. Del Giudice – Diritto Amministrativo – Edizioni Giuridiche Simone
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