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La prescrizione in materia previdenziale

Profili problematici e le soluzioni adottate nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione e nella prassi amministrativa

1. La prescrizione

2. Natura e fondamento

3. La prescrizione dell’indennità di maternità

3.1. Premessa

3.2. La prescrizione dell’indennità di maternità nella giurisprudenza

3.3. La fattispecie concreta

3.4. Il quadro normativo di riferimento

3.5. L’indennità di maternità nella prassi amministrativa

5. La prescrizione dei contributi previdenziali e assistenziali

5.1. Premessa

5.2. Il quadro normativo di riferimento

5.3. La prescrizione dei contributi previdenziali e assistenziali nella giurisprudenza

5.4. La fattispecie concreta

5.5. La denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti

5.6. L’idoneità degli atti conservativi del termine decennale

5.7. L’adeguamento della prassi amministrativa alla giurisprudenza

6.Conclusioni

1. La prescrizione

Secondo quanto stabilito dall’art. 2934 c.c. ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare, non lo esercita per il tempo determinato dalla legge. Si ritiene[1], tuttavia, che la norma parli impropriamente di estinzione del diritto, se la prescrizione operasse nel senso di estinguere il diritto non si comprenderebbe la regola posta dal successivo art. 2940 c.c., secondo cui non è possibile chiedere la restituzione di quanto pagato in adempimento di un debito prescritto.

Infatti, se il debito fosse estinto, il pagamento non sarebbe dovuto e se effettuato dovrebbe essere restituito. Pertanto, il diritto più che estinguersi perde la propria forza, nel senso che, se si agisce in giudizio, il terzo potrà eccepire la prescrizione, e in tal modo arresta l’iniziativa giurisdizionale. Se tale eccezione non viene opposta, il diritto potrà essere fatto valere ad ogni effetto. Altri[2] preferiscono parlare di estinzione dell’azione, piuttosto che di estinzione del diritto. Da questa breve descrizione si può affermare che i presupposti dell’istituto sono[3]:

1) un diritto soggettivo che può essere esercitato e non imprescrittibile;

2) il mancato esercizio del diritto (inerzia da parte del titolare);

3) il decorso del tempo previsto dalla legge.

Con riguardo alle specifiche regole sulla prescrizione, l’art. 2936 stabilisce che è nullo ogni patto diretto a modificare la disciplina legale della prescrizione. La norma precisa che i precetti dettati dalla legge non sono derogabili convenzionalmente dalle parti, dunque, non possono essere stabilite eccezioni tendenti all’eliminazione, prolungamento o all’abbreviazione dei termini. Il divieto si riferisce anche a quelle modifiche riguardanti, quindi la decorrenza, le cause di sospensione o di interruzione. La nullità del patto inteso a modificare la disciplina legale della prescrizione fonda la sua ratio, sulla considerazione che la prescrizione è un istituto di ordine pubblico, e la sua normativa è pertanto inderogabile e, tra i cui fini, vi è quello di assicurare che ciascun soggetto possa godere della tutela legislativa in piena libertà, senza essere indotto per un motivo o per l’altro a subirne le modificazioni.

Il successivo art. 2937 stabilisce che solo dopo che sia trascorso il tempo stabilito, è consentita la rinuncia che è un atto di dismissioni di un diritto da parte del suo titolare, atto unilaterale a carattere non recettizio, che dipende esclusivamente dalla volontà di chi lo compie.

La prescrizione, al fine di operare, presuppone dunque il mancato esercizio di un diritto per un dato tempo. Questo tempo è fissato inderogabilmente dalla legge in misura variabile secondo i casi, infatti, l’art. 2946 c.c., stabilisce che, salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni. La norma in oggetto è di portata generale, nel senso che se non è previsto un termine più breve o più lungo di prescrizione, si applicherà quello generale. Si tratta di una norma di chiusura, ovvero applicabile ove il legislatore non abbia specificatamente previsto un termine diverso. Come per esempio, il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito che si prescrive in cinque anni (art. 2947 c.c.), in due anni si prescrive, invece, il risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli di ogni specie. L’art. 2948 c.c., prevede altri casi di prescrizione di diritti in cinque anni, mentre l’art. 2955 c.c. contempla casi di prescrizione in un anno, l’art. 2956 in tre anni. Infine, la legge regola anche le prescrizioni denominate presuntive, che sono caratterizzate dal fatto che, trascorso un certo periodo di tempo indicato variamente dagli artt. 2954 – 2956, il diritto si presume estinto per intervenuto pagamento. Si tratta di una presunzione iuris tantum di estinzione, salvo la prova contraria, secondo le regole degli artt. 2959-2960.

Il termine di prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.). E’ stato evidenziato in dottrina che l’inerzia non rileva in quanto tale, ma esclusivamente l’inerzia che, configurandosi come incuria e disinteresse rispetto al diritto e alla sua tutela, sia giuridicamente e socialmente apprezzabile come non esercizio di una situazione giuridica soggettiva[4]. Se l’inerzia del titolare del diritto è giustificata o viene a mancare, la prescrizione non decorre più, si delineano, così, i due istituti della sospensione e dell’ interruzione.

Il legislatore ha previsto talune cause di sospensione e di interruzione, la prima, si verifica quando l’inerzia del titolare permane, ma trova giustificazione in particolari situazioni espressamente previste dalla legge, durante le quali, la prescrizione, viene provvisoriamente arrestata[5]. La giurisprudenza[6], reputa che i casi di sospensione siano tassativi, ossia solo quelli previsti dalla legge. Si ha interruzione della prescrizione, quando l’inerzia del titolare del diritto viene a mancare o perché compie un atto con quale esercita il suo diritto o perché il diritto viene riconosciuto dal soggetto passivo del rapporto[7]. La differenza fra i due istituti consiste nel fatto che la sospensione apre una parentesi, l’interruzione è una frattura che impedisce di tener conto del tempo già trascorso, cosicché inizia a decorrere un nuovo periodo di prescrizione, mentre con la fine della sospensione, il computo del termine ricomincia, sommandolo, al periodo precedente.

2. Natura e fondamento

Gli orientamenti dottrinari in proposito sono molteplici, secondo alcuni[8] la prescrizione è la risposta all’esigenza di adeguamento alla situazione di fatto della situazione di diritto che risulta compromessa dell’inerzia del titolare. Altri,[9] ritengono che il fondamento della prescrizione sia da identificare nella necessità di assicurare un uso produttivo delle risorse. Secondo un diverso orientamento, la ratio andrebbe ricercata nella soddisfazione di esigenze di certezza giuridica[10], in questa direzione, la Corte costituzionale[11] in una non recente sentenza rileva che alla base della prescrizione vi è l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici.

3. La prescrizione dell’indennità di maternità

3. 1. Premessa

L’indennità di maternità è un’indennità sostitutiva della retribuzione prevista dall’artt. 16 e 22 del D.Lgs 26 Marzo 2001, n.151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) che viene pagata alle lavoratrici assenti dal servizio per gravidanza e puerperio.

Per ottenere l’indennità di maternità le lavoratrici:

· dipendenti devono avere un rapporto di lavoro in essere con diritto a retribuzione;

· domestiche devono aver versato almeno un anno di contributi nei due anni precedenti o almeno sei mesi di contributi nell’anno precedente;

· agricole devono aver effettuato minimo 51 giornate di lavoro nell’anno precedente;

· autonome devono risultare iscritte negli elenchi degli artigiani o dei commercianti;

· parasubordinate devono avere un minimo di tre contributi mensili nei 12 mesi precedenti.

L’indennità di maternità per astensione obbligatoria, spetta per un periodo massimo di cinque mesi; per l’astensione facoltativa, per un periodo non superiore a undici mesi complessivi tra i due genitori, da fruire nei primi otto anni di vita del bambino. L’indennità di maternità è comprensiva di ogni altra indennità spettante per malattia, è corrisposta con le modalità di cui all’art. 1, del D.L. 30.12.1979, n. 663 convertito, con modificazioni, dalla legge 29.2.1080, n. 33.

L’art. 2, definisce, variando la vecchia terminologia, che per congedo di maternità si intende l’astensione obbligatoria dal lavoro della lavoratrice.

3.2. La prescrizione dell’indennità di maternità nella giurisprudenza

La sentenza Corte di Cassazione – Sezione Unite – del 6.4.2012 n. 5572, nel panorama delle sentenze riguardanti la prescrizione dell’indennità di maternità, si distingue sia per la ricchezza delle argomentazioni giuridiche prospettate, nell’affrontare i diversi aspetti problematici ed in una certa misura interessanti, sia per le soluzioni a cui è giunta.

In considerazione della profondità del ragionamento giuridico esposto, se ne riportano i più significativi stralci, che costituiscono una importante guida, anche come riassunto di tutte le questioni e decisioni che si sono susseguite in questi ultimi anni. Giova evidenziale che il cui punto nodale di divergenza, riguarda la modalità d’intendere la sospensione della prescrizione. Tale sentenza, nel risolvere la diatriba, compie con accuratezza un lungo excursus relativo alla giurisprudenza degli ultimi anni sull’argomento, confrontando le varie tesi, esaminandole ed evidenziando gli aspetti di pregio o le eventuali carenze e persino contrapponendole fra di loro, per poi giungere alla scelta della interpretazione più favorevole per la ricorrente, ma nel rispetto del quadro normativo non sempre chiaro.

3.3. La fattispecie concreta all’esame della sentenza della Corte di Cassazione - sezioni unite del 6.4.2012 n. 5572

La ricorrente con ricorso del 28 ottobre 1999 adiva il tribunale di Roma per vedersi riconoscere l’indennità di maternità per il periodo di astensione obbligatoria dal 15 dicembre 1998 al 15 maggio 1999 e chiedeva la condanna dell’Inps al pagamento di tale prestazione, previa declaratoria incidentale della sussistenza del rapporto di lavoro con l’azienda.

L’Inps si costituiva resistendo alla domanda. Con sentenza del 9 ottobre 2002, il Tribunale di Roma respingeva la domanda della lavoratrice accogliendo l’eccezione di prescrizione sollevata dall’Inps nella memoria di costituzione. Successivamente, la stessa, proponeva appello deducendo che ai sensi dell’art. 2135 c.c. la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere; regola questa che - sosteneva l’appellante - trovava applicazione anche alla prescrizione annuale di cui all’art. 6 della legge n. 138 del 1943, cui era soggetta la prestazione richiesta all’Inps. Con sentenza del 22 aprile 2009, la Corte di appello di Roma respingeva il gravame della lavoratrice, affermando che, con riferimento alla sua domanda del 30 ottobre 1997, seguita dal ricorso amministrativo proposto il 15 gennaio 1999 e dall’azione giudiziaria intrapresa il 28 ottobre 1999, era maturata la prescrizione annuale ex lege n. 138 del 1943, in quanto l’inizio della decorrenza del termine breve annuale doveva farsi coincidere con il giorno in cui si erano perfezionati i requisiti costitutivi del diritto e che la durata del procedimento amministrativo non incideva sul predetto termine in mancanza di specifica previsione. Rilevava, in particolare, che doveva ritenersi maturata la prescrizione, atteso che era decorso il termine annuale prima della proposizione del ricorso amministrativo del 15 gennaio 1999, mentre il provvedimento amministrativo del 19 ottobre 1998 (di rigetto della richiesta della prestazione) non poteva in alcun modo ritenersi interruttivo del corso della prescrizione perché l’effetto interruttivo poteva riconoscersi solo all’accertamento del diritto e non anche alla sua negazione.

Successivamente, la lavoratrice propone ricorso per cassazione rilevando che la corte territoriale non abbia considerato che l’INPS avrebbe dovuto provvedere sulla domanda amministrativa del 30 ottobre 1997 della lavoratrice entro 90 (o 120) giorni e che, pertanto, il provvedimento negativo implicito (silenzio rifiuto) doveva datarsi 31 gennaio 1998 (o 28 febbraio 1998) e che, conseguentemente, essendo stato il ricorso amministrativo proposto il 15 gennaio 1999, il suo diritto in ogni caso non poteva considerarsi prescritto. In particolare la ricorrente invoca la giurisprudenza di questa Corte costituita dalla sentenza n. 1396 del 4 febbraio 2002 che ha affermato che il termine prescrizionale annuale del diritto all’indennità di malattia e di maternità inizia a decorrere dalla data di formazione del silenzio rifiuto ai sensi dell’art. 7 della legge n. 533 del 1973 sulla domanda rivolta all’Inps.

In considerazione di questi dati iniziali la Corte nel rimettere la questione alle sezioni unite ha quindi formulato il seguente quesito di diritto: dica la Corte se, in materia di trattamento d’indennità di maternità, il termine breve annuale di prescrizione, di cui all’art. 6 della legge n. 138 del 1943, inizia a decorrere dal giorno in cui può esser fatta valere, ai sensi dell’art. 2935 c.c., e cioè, nel caso di silenzio rifiuto ai sensi dell’art. 7 della legge n. 533 del 1973, dalla data di formazione dello stesso (cioè dopo 120 giorni dalla data di presentazione della domanda), ovvero - in caso di eventuale ricorso amministrativo contro il provvedimento negativo dell’Inps ai sensi dell’art. 46, quinto comma, legge n. 88 del 1989 – (dopo 90 giorni) dalla comunicazione del ricorso amministrativo stesso o dalla data del ricorso amministrativo, valida per l’interruzione. (dopo altri 90 giorni).

A questo punto al fine di poterli brevemente commentare, vengono riportati qui di seguito ampi e significativi stralci della sentenza in argomento, la Corte inizia il suo ragionamento, con una premessa, che, in sostanza, già prima era stata rimessa la questione alle sezioni unite per lo stesso contrasto giurisprudenziale:

Giova premettere che con una precedente ordinanza interlocutoria del 18 luglio 2008 la sezione lavoro aveva già rimesso altra causa al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite, ravvisando nella giurisprudenza della sezione lo stesso contrasto di giurisprudenza circa gli effetti sospensivi del decorso del termine di prescrizione, da riconoscersi alla domanda di prestazione previdenziale. Si era già rilevato che in alcune pronunce[12] la Corte aveva ritenuto l’applicabilità del disposto dell’art. 97, quinto comma, R.D.L. n. 1827 del 1935, convertito in L. n. 1155 del 1936, in base al quale ’il procedimento in sede amministrativa ha effetto sospensivo dei termini di prescrizione’, siccome non modificato dalla sopravvenuta normativa in tema di ricorsi amministrativi (d.P.R. n. 639 del 1970, artt. 44, 45 e 46 dapprima; legge n. 88 del 1989, art. 46, successivamente) enunciando il principio di diritto secondo cui ’In tema di prescrizione annuale del diritto di ottenere dal Fondo di garanzia gestito dall’INPS il pagamento delle retribuzioni relative agli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, secondo la previsione del d.lgs. n. 80 del 1992, art. 2, comma 5, la presentazione della prescritta domanda, secondo le norme che regolano il conseguimento delle prestazioni previdenziali, ai sensi della L. n. 88 del 1989, artt. 25 e 46, oltre a costituire atto interruttivo della prescrizione, determina l’apertura del procedimento amministrativo preordinato alla liquidazione, cosicché il decorso della prescrizione resta sospeso fino alla sua conclusione’.

Secondo invece un diverso orientamento[13] nessuna efficacia poteva riconoscersi alla previsione della sospensione del termine di prescrizione di cui all’art. 97 del R.D.L. n. 1827 del 1935, cit., trattandosi di disposizione -contenuta nella disciplina dei ricorsi, ivi prevista all’interno del titolo terzo (“ricorsi e controversie”) - tacitamente abrogata per incompatibilità a seguito dell’intervenuta nuova regolamentazione dell’intera materia del ’contenzioso amministrativo’, ad opera, dapprima, del d.P.R. n. 639 del 1970 (artt. 44 e 46, inseriti all’interno del titolo terzo ricorsi e controversie in materia di prestazioni’) e, poi, della legge n. 88 del 1989 (art. 46, intitolato ’contenzioso in materia di prestazioni’, che al comma primo ha abrogato la precedente disciplina dettata dal d.P.R. n. 638 del 1970, artt. 44 e 47 cit.), non assumendo rilievo che, in altri procedimenti contenziosi relativi ai riconoscimento di prestazioni analoghe, la legge preveda la sospensione della prescrizione (cfr. d.P.R. n. 1124 del 1965, art. 111). Si è osservato inoltre che non rileva a tal fine la previsione d’improcedibilità della domanda giudiziale prima della definizione del procedimento amministrativo e del decorso dei termini all’uopo fissati, improcedibilità che è destinata ad operare esclusivamente in relazione alla proposizione della domanda giudiziale, non potendo incidere sulla determinazione del decorso della prescrizione, atteso che il diritto agli accessori, in caso di ritardo nell’erogazione della prestazione, può essere fatto valere al centoventunesimo giorno dalla presentazione della domanda amministrativa, mentre la “procedimentalizzazione” delle varie fasi attiene alle modalità di tutela dei diritto ma non costituisce un impedimento al suo esercizio.

Con decisione del 17 settembre 2009 n. 19992, le Sezioni Unite hanno ritenuto che la questione relativa al decorso del termine di decadenza di cui all’art. 47 d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, anch’essa rimessa all’esame della Corte, costituisse autonomo fondamento della decisione impugnata e che quindi era superfluo l’esame anche dell’ulteriore questione attinente alla prescrizione.

In seguito, la sezione lavoro con ordinanza n. 5294 del 3 febbraio 2011 - 11 marzo 2011 ha rimesso la causa al primo presidente per l’assegnazione alle sezioni unite, che sono state nuovamente investite del medesimo contrasto in giurisprudenza.

A questo punto la Corte, anticipando la soluzione, evidenzia che, “Centrale nell’esame dell’insorto e perdurante contrasto di giurisprudenza è il citato art. 97, quinto comma, R.D.L. n. 1827 del 1935”. Infatti, tutto ruota attorno alla vigenza o meno dell’art. 97, quinto comma, R.D.L. n. 1827 del 1935, convertito nella legge 6 aprile 1936 n. 1155, decidere in un senso o nell’altro incide sulla maturazione o meno della prescrizione dell’indennità.

E’ importante, preliminarmente, ricordare che l’art. 15 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, nel prevedere l’indennità di maternità in favore delle lavoratrici madri, stabilisce che essa è corrisposta con gli stessi criteri previsti per la erogazione delle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie dall’ente assicuratore di malattia presso il quale la lavoratrice è assicurata.

Trova quindi applicazione in particolare - ciò che è pacifico in causa - l’art. 6, sesto comma, della legge 11 gennaio 1943, n. 138, che prevede che l’azione per conseguire le prestazioni, di cui alla legge medesima, si prescrive nel termine di un anno dal giorno in cui esse sono dovute.

L’erogazione della prestazione presuppone la domanda della lavoratrice madre all’ente previdenziale, domanda che, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 533 del 1973, si intende respinta quando siano trascorsi 120 giorni dalla data della presentazione senza che l’istituto assicuratore si sia pronunciato (in generale la previa domanda amministrativa all’istituto condiziona la proponibilità della domanda giudiziale: Cass., sez. lav., 28 dicembre 2011, n. 29236).

Intervenuto il provvedimento negativo o formatosi il silenzio rigetto per l’inutile decorso del suddetto termine di 120 giorni, la lavoratrice madre può proporre ricorso amministrativo al comitato provinciale dell’istituto assicuratore nel termine di 90 giorni di cui all’art. 46 legge 9 marzo 1989, n. 88; disposizione questa che prevede un ulteriore termine di 90 giorni per la decisione del ricorso, in mancanza della quale, entro tale termine, il ricorso si intende respinto a tutti gli effetti e l’assicurata ha la facoltà di adire l’autorità giudiziaria.

Quindi, dopo la domanda della prestazione, nella specie, dell’indennità di maternità, in mancanza di atti di messa in mora o comunque idonei ad interrompere il decorso del termine annuale di prescrizione, vi è in ogni caso il ricorso amministrativo che ha certamente tale idoneità. Cfr. Cass., sez. lav., 1 marzo 1993, n. 2509, che ha puntualizzato che la decorrenza del termine prescrizionale annuale previsto dall’art. 6, ultimo comma, L. 11 gennaio 1943 n. 138 (applicabile al diritto all’indennità giornaliera di maternità di cui all’art. 15 L. 30 dicembre 1971, n. 1204) è interrotta sia dalla domanda all’Istituto di pagamento della prestazione, sia dal ricorso amministrativo avverso il provvedimento (espresso o tacito) di rifiuto dell’erogazione, che comportano entrambi, ai sensi dell’art. 2943, quarto comma, c.c. la costituzione in mora dell’ente debitore.

Ciò che è certo nel caso di specie è che dalla data della domanda dell’indennità di maternità (30 ottobre 1997) sino a quella della proposizione del ricorso amministrativo (15 gennaio 1999) è decorso più di un anno sicché rileva - ed è determinante ai fini del decidere - stabilire se il termine di prescrizione rimane sospeso (come sostiene la difesa della ricorrente nel suo unico motivo di ricorso), o no (come affermato dalla sentenza impugnata), per il periodo di tempo necessario per la formazione del silenzio rifiuto ai sensi dell’art. 7 della legge n. 533 del 1973, che - come già rilevato - prevede che in generale, in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie, la richiesta all’istituto assicuratore si intende respinta, a tutti gli effetti di legge, quando siano trascorsi 120 giorni dalla data della presentazione, senza che l’istituto si sia pronunciato; questione questa che si inquadra in quella più ampia concernente la sospensione, o no, del termine di prescrizione durante il procedimento amministrativo tout court, sia quello ordinario che si conclude con il provvedimento di accoglimento o di rigetto (espresso o tacito) della domanda, sia quello contenzioso che si conclude con l’accoglimento o con il rigetto (anch’esso espresso o tacito) del ricorso amministrativo.

Il contrasto di giurisprudenza, riguarda questo profilo più generale, perché costituisce il presupposto interpretativo, da cui consegue, come inferenza logica, la regola iuris da applicarsi nella specie per la valutazione del vizio di violazione di legge dedotto dalla ricorrente, anche se i contrastanti orientamenti giurisprudenziali, appaiono in realtà, con riferimento al ’caso particolare’ oggetto del ricorso, convergere per l’accoglimento del ricorso stesso.

Il panorama giurisprudenziale sul tema è variamente articolato.

Vi è un primo orientamento giurisprudenziale che ha ritenuto che il termine per la formazione del silenzio - rifiuto di cui all’art. 7 della legge n. 533 del 1973 non sia computabile ai fini del decorso del termine di prescrizione, che pertanto deve ritenersi sospeso per il tempo necessario per la formazione del silenzio rifiuto (120 giorni) e che a questo periodo di sospensione occorre aggiungere un ulteriore termine di 90 giorni per la proposizione del ricorso amministrativo. In particolare Cass., sez. lav., 26 agosto 1997, n. 8042, ha affermato che il termine prescrizionale annuale del diritto all’indennità di malattia previsto dall’ultimo comma dell’art. 6 L. 11 gennaio 1943 n. 138, inizia a decorrere dalla data di formazione del silenzio - rifiuto, ex art. 7 L. 11 agosto 1973, n. 533, sulla domanda rivolta all’Inps per ottenerla, salvi gli effetti dell’eventuale ricorso contro tale provvedimento a norma dell’art. 46 L. 9 marzo 1989, n. 88, la proposizione del quale implica la non computabilità, ai fini prescrizionali, del successivo periodo di novanta giorni previsto dal sesto comma della medesima disposizione, decorso il quale l’interessato ha facoltà di adire l’autorità giudiziaria.

Una conferma di tale orientamento si ha con Cass., sez. lav., 4 febbraio 2002, n. 1396, che costituisce un precedente più specifico perché riguarda proprio l’indennità di maternità. La corte - nel porsi il problema se, proposta la domanda amministrativa diretta ad ottenere la corresponsione dell’indennità di maternità, il termine di prescrizione annuale decorra dalla data della proposizione della domanda amministrativa ovvero da quella dell’inutile decorso del termine di 120 giorni di cui all’art. 7 citato - risolve la questione ritenendo la sospensione del termine prescrizionale, così prestando adesione alla precedente sentenza n. 8042 del 1998. Ed infatti ribadisce che il termine prescrizionale annuale, previsto dall’ultimo comma dell’art. 46 legge 11 gennaio 1943 n. 138, inizia a decorrere dalla data di formazione del silenzio - rifiuto, ex art. 7 legge 11 agosto 1973 n. 533, sulla domanda rivolta all’INPS per ottenerla, salvi gli effetti dell’eventuale ricorso contro il detto provvedimento a norma dell’art. 46, quinto comma, legge 9 marzo 1989 n. 88, la proposizione del quale implica la non computabilità, ai fini prescrizionali, del successivo periodo di novanta giorni previsto dal sesto comma della medesima disposizione, decorso il quale l’interessato ha facoltà di adire l’autorità giudiziaria.

Successivamente il problema è stato riesaminato funditus da Cass., sez. lav., 10 giugno 2003, n. 9286, che ha affermato che il diritto della lavoratrice agricola all’indennità di maternità - che, nella sussistenza delle condizioni legislativamente stabilite per l’acquisizione della qualità di lavoratrice agricola, nasce direttamente dalla legge, e non dagli atti amministrativi dell’Inps, che hanno mero valore ricognitivo - soggiace al medesimo regime di prescrizione stabilito per l’indennità di malattia dall’art. 6, ultimo comma, L. 11 gennaio 1943 n. 138, e perciò si prescrive in un anno dalla data della sua acquisizione, senza che sia attribuita a provvedimenti dell’istituto (quale, nella specie, la comunicazione alla richiedente della sospensione della pratica in attesa di accertamenti sull’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e sulla validità della iscrizione negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli) la idoneità a determinare la sospensione di detto termine, il quale resta invece sospeso, a norma dell’art. 97, ultimo comma, r.d.l. n. 1827 del 1935, per effetto e per tutta la durata - variabile in funzione della eventuale formazione del silenzio rifiuto sulla domanda ovvero della proposizione del ricorso amministrativo avverso il provvedimento di rigetto della domanda stessa - del procedimento in sede amministrativa. In particolare in questa pronuncia la Corte ha precisato che occorre prendere le mosse dall’art. 97, ultimo comma, r.d.l. 4 ottobre 1935 n. 1827, convertito nella legge 6 aprile 1936 n. 1155. I primi quattro commi dell’art. 97 disciplinavano invero il regime dei ricorsi amministrativi, che è stato successivamente novellato ad opera degli artt. 44, 45 e 46 del DPR 30 aprile 1970 n. 639 (emanato in forza delle deleghe conferite con gli artt. 27 e 29 della legge 30 aprile 1969 n. 153), ed ulteriormente modificato dall’art. 46 della legge 9 marzo 1989 n. 88. Ma - ha rilevato questa corte nella citata pronuncia - nessuna modifica né abrogazione è stata invece operata in relazione all’ultimo comma dell’art. 97, il quale prevede che ’Il procedimento in sede amministrativa ha effetto sospensivo dei termini di prescrizione’. La ratio della disposizione è quella, da un lato, di esimere l’assicurato (che non potrebbe adire il giudice, essendo l’azione improcedibile per il mancato completamento del procedimento amministrativo) dall’onere di effettuare continui atti interruttivi nel corso del procedimento medesimo, e dall’altro lato di non aggravare l’Ente previdenziale con continue sollecitazioni.

Questo ribadito orientamento giurisprudenziale è stato poi ulteriormente confermato, anche se non con riferimento alla indennità di maternità, da Cass., sez. lav., 15 novembre 2004, n. 21595, che ha affermato che, in tema di prescrizione annuale del diritto di ottenere dal fondo di garanzia gestito dall’Inps il pagamento delle retribuzioni relative agli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, secondo la previsione dell’art. 2, quinto comma, d.lgs. n. 80 del 1992, la presentazione della prescritta domanda, secondo le norme che regolano il conseguimento delle prestazioni previdenziali, ai sensi degli artt. 25 e 46 L. n. 88 del 1989, oltre a costituire atto interruttivo della prescrizione, determina l’apertura del procedimento amministrativo preordinato alla liquidazione, cosicché il decorso della prescrizione resta sospeso fino alla sua conclusione (che, nel caso di silenzio dell’istituto e di mancata proposizione nei termini del ricorso amministrativo, si ha dopo duecentodieci giorni, di cui centoventi dalla domanda e novanta fissati per la proposizione del ricorso, ai sensi dell’art. 46 cit. L. n. 88 del 1989).

Ulteriore conferma di tale orientamento giurisprudenziale, con riferimento all’indennità di maternità, si rinviene in Cass., sez. lav., 14 febbraio 2004, n. 2865, che ha ulteriormente ribadito che l’indennità di maternità, di cui all’art. 15 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, matura di giorno in giorno e si risolve in un complesso di diritti a ratei giornalieri; l’azione per conseguire l’indennità si prescrive nel termine di un anno dal giorno in cui i ratei sono dovuti; una volta presentata tempestiva domanda amministrativa, l’obbligo di pagamento dei ratei decorre, per l’ente previdenziale, dal giorno di maturazione degli stessi, sicché il silenzio rifiuto dell’ente si perfeziona con il decorso di 120 giorni dalla data di presentazione della domanda, per i ratei maturati contestualmente o precedentemente alla stessa e tempestivamente richiesti, e dal giorno di maturazione di ciascun rateo per quelli maturati successivamente alla domanda amministrativa; avverso il provvedimento di diniego o il silenzio rifiuto l’interessato ha il termine di 90 giorni per presentare ricorso amministrativo, ricorso che si ha per respinto dopo ulteriori 90 giorni dalla sua presentazione; il procedimento in sede amministrativa, ai sensi dell’art. 97, ultimo comma, del r.d.l. n. 1827 del 1935, ha effetto sospensivo dei termini di prescrizione.

A fronte dell’indirizzo giurisprudenziale di cui si è detto finora deve registrarsi, nel 2006, un orientamento di segno opposto, espresso da Cass., sez. lav., 12 aprile 2006, n. 8533, e altre sentenze[14] che ha affermato che, in tema di interessi legali e rivalutazione monetaria sui ratei pensionistici erogati successivamente al centoventunesimo giorno dalla domanda amministrativa e di prescrizione del relativo credito, il termine decennale non può rimanere sospeso in pendenza del procedimento amministrativo, per essere i casi di sospensione della prescrizione tassativamente indicati dalla legge, insuscettibili di applicazione analogica e di interpretazioni estensive. In particolare - ha affermato questa corte nella citata pronuncia - nessuna efficacia può riconoscersi alla previsione sospensiva dell’art. 97 del R.D.L. n. 1827 del 1935, trattandosi di disposizione - contenuta nella disciplina dei ricorsi, ivi prevista all’interno del titolo terzo (’ricorsi e controversie’) - tacitamente abrogata per incompatibilità, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi, a seguito dell’intervenuta nuova regolamentazione dell’intera materia del ’contenzioso amministrativo’ ad opera, dapprima, del d.P.R. n. 639 del 1970 (artt. 44 - 46, inseriti all’interno del titolo terzo ’ricorsi e controversie in materia di prestazioni’) e, poi, della legge n. 88 del 1989 (art. 46, intitolato ’contenzioso in materia di prestazioni’, che all’ultimo comma ha abrogato la precedente disciplina dettata dagli artt. 44 - 47 del d.P.R. n.638 del 1970 cit.); né può assumere rilievo che in altri procedimenti contenziosi relativi al riconoscimento di prestazioni analoghe la legge preveda la sospensione della prescrizione (cfr. art. 111 d.P.R. n. 1124 del 1965). Invece la previsione di improcedibilità della domanda giudiziale prima della definizione del procedimento amministrativo e del decorso dei termini all’uopo fissati, è destinata ad operare esclusivamente in relazione alla proposizione della domanda giudiziale, non potendo incidere sulla determinazione del decorso della prescrizione in esame, atteso che il diritto agli accessori, in caso di ritardo nell’erogazione della prestazione, può essere fatto valere al centoventunesimo giorno dalla presentazione della domanda amministrativa, mentre la ’procedimentalizzazione’ delle varie fasi attiene alle modalità di tutela del diritto e non costituisce un impedimento al suo esercizio.

Quindi tali pronunce del 2006, seguite in senso conforme da Cass., sez. lav., 28 marzo 2008, n. 8134, segnano un’inversione di giurisprudenza perché si pongono espressamente in contrasto, in particolare, con Cass. n. 9286 del 2003 e Cass. n. 11684 del 2005, cit., escludendo che il decorso del termine di prescrizione sia sospeso nel periodo di tempo necessario per la formazione dei silenzio rigetto del ricorso amministrativo, pur affermando nondimeno che la prescrizione (in quel caso, del diritto agli accessori) decorre dal 121 giorno dalla data di presentazione della domanda amministrativa, termine che vale per la formazione del silenzio rifiuto ai sensi dell’art. 7 della legge n. 533 del 1973.

Dall’esaminato quadro giurisprudenziale emerge un indirizzo uniforme e più volte confermato, secondo cui il decorso del termine di prescrizione è sospeso durante il tempo per la formazione del silenzio rifiuto dell’Istituto a cui l’assicurato abbia domandato la prestazione di previdenza (120 giorni di cui all’art. 7 della legge n. 533 del 1906). È invece controverso, più in generale, se esso sia sospeso anche durante il tempo per la formazione del silenzio rigetto sul ricorso amministrativo, che condiziona la procedibilità della domanda giudiziale (art. 443 c.p.c. ed in particolare art. 46 legge n. 88 del 1989), fronteggiandosi su tale questione un orientamento che tale sospensione ha predicato[15], contrastato da un opposto orientamento che l’ha invece esclusa[16]

Il denunciato contrasto di giurisprudenza, riguarda quindi, questo specifico profilo, nel contesto della più ampia questione dell’incidenza del decorso della prescrizione su diritti di natura previdenziale ed assistenziale nel periodo in cui l’azione giudiziaria non è procedibile ovvero (in passato) proponibile.

La questione controversa, pur formulata in questi termini più generali, si riferisce specificamente alla disciplina di settore concernente i diritti di natura previdenziale ed assistenziale, che godono della speciale protezione di cui all’art. 38 Cost.; essa si pone quindi in rapporto di specialità rispetto al contesto codicistico che, se da una parte prevede in generale (art. 2935 c.c.) che la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, d’altra parte, per la sospensione del decorso di tale termine, contempla non già una norma di carattere generale, ma le ipotesi tipiche catalogate agli artt. 2941 e 2942 c.c. (per la tassatività di tali fattispecie di sospensione della prescrizione[17].

Ed è proprio in questa prospettiva di disciplina speciale che occorre partire dall’esame dell’art. 97 del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, convertito nella legge 6 aprile 1936, n. 1155; disposizione questa che appartiene alla prima sistematica regolamentazione della previdenza sociale con l’istituzione dell’Inps, quale ente pubblico avente come missione la gestione delle assicurazioni obbligatorie. Tale norma - che, inserita nel titolo 5 (artt. 97 -109), recante la disciplina dei ’ricorsi’ e delle ’controversie’, era il perno del sistema di tutela ’contenziosa (ricorso amministrativo versus domanda giudiziale) del diritto dell’assicurato al conseguimento delle prestazioni di previdenza - fissava un duplice principio: da una parte (primo comma) si prevedeva che contro i provvedimenti dell’istituto concernenti le concessioni delle prestazioni assicurative previste dal regio decreto n. 1827/35 e in genere l’attuazione delle disposizioni del decreto stesso, era ammesso il ricorso in via amministrativa da parte degli assicurati (e dei datori di lavoro); d’altra parte (quarto comma) si prescriveva che non era ammesso il ricorso in via contenziosa (scilicet, innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria) prima che fosse definito il ricorso in sede amministrativa.

Ciò rispondeva a una concezione, tipica di quegli anni, che vedeva la commistione di elementi privatistici e pubblicistici. Da una parte il sistema delle assicurazioni obbligatorie di previdenza si fondava su un modulo tipicamente privatistico, quello del rapporto di assicurazione che vedeva nascere, in favore del soggetto assicurato, veri e propri diritti soggettivi e non già meri interessi legittimi. D’altra parte il riconoscimento del diritto alle prestazioni di previdenza sociale era procedimentalizzato e sfociava in un provvedimento amministrativo dell’Inps, che poteva assegnare o negare la prestazione richiesta secondo che l’istituto ne ravvisasse, o meno, i presupposti; provvedimento che, pur non degradando la situazione di diritto soggettivo in interesse legittimo (talché la giurisdizione era del giudice ordinario), era comunque (a quell’epoca) suscettibile, ove non impugnato (in sede amministrativa), di diventare definitivo precludendo così l’azionabilità in giudizio del diritto maturato fino alla domanda amministrativa. Infatti la (eventuale) tutela giurisdizionale si innestava soltanto dopo che il procedimento amministrativo si fosse concluso.

Pertanto vi erano sì diritti soggettivi, ma la loro tutela giurisdizionale era, in un certo senso, “differita” all’esaurimento di un procedimento amministrativo composto da una fase non contenziosa (promossa con la domanda dell’assicurato tendente al riconoscimento della prestazione di previdenza) e da una contenziosa (attivata, di norma, dall’assicurato con l’impugnazione del provvedimento di diniego della prestazione).

Quella dell’Inps (ente pubblico non economico, appartenente alla pubblica amministrazione in senso lato) era un’attività provvedimentale, pur sempre espressione di un pubblico potere, il cui esercizio condizionava in radice la tutela dei diritti soggettivi di natura previdenziale degli assicurati.

Al fondo di questa costruzione vi era la concezione per cui l’ente pubblico era deputato al bene comune ed il giudice non entrava in campo se non quando l’attività dell’ente pubblico non si fosse pienamente estrinsecata nel procedimento amministrativo ordinario e poi contenzioso.

L’assicurato, titolare di un diritto soggettivo di natura previdenziale, non poteva rivolgersi subito al giudice, ma inizialmente - e per un tempo non definito - doveva confidare sul buon andamento della pubblica amministrazione (alla quale apparteneva l’Inps). Potendo egli, ed anzi dovendo, proporre una domanda all’Inps, diretta ad ottenere la prestazione previdenziale alla quale egli riteneva di aver diritto, non poteva neppure dirsi che il diritto non potesse essere ’fatto valere’ ai sensi e per gli effetti dell’art. 2935 c.c., che non richiede - e non richiedeva - l’immediata azionabilità in giudizio del diritto[18]. Sicché, una volta integrati i presupposti di fatto per l’insorgenza del diritto, comunque cominciava il decorso della prescrizione, anche se inizialmente la tutela del diritto passava attraverso un procedimento amministrativo ordinario e poi contenzioso. Questo differimento della tutela giurisdizionale è stato ritenuto compatibile con l’art. 113 Cost. che assicura che contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti ed interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa[19].

Ma già il legislatore del 1935, pur in un contesto precedente il riconoscimento del diritto alla tutela giurisdizionale da parte della Costituzione repubblicana, tenne conto dell’anomalia di un diritto soggettivo che non era esercitabile ancora davanti al giudice (ordinario), ma che intanto poteva estinguersi per il decorso del termine di prescrizione.

Di qui la norma - posta a cerniera tra immediatezza del riconoscimento del diritto soggettivo e differimento della sua tutela giurisdizionale - sulla quale è insorto il contrasto di giurisprudenza in esame (il quinto comma dell’art. 97 citato), che prevede(va): ’Il procedimento in sede amministrativa ha effetto sospensivo dei termini di prescrizione’.

Seppur collocata nel titolo quinto del citato regio decreto n. 1827 del 1935, che riguardava i ’ricorsi’ e le ’controversie’, la norma aveva in realtà una portata più ampia perché si riferiva al ’procedimento in sede amministrativa tout court, comprensivo del procedimento amministrativo ordinario e dell’eventuale successivo procedimento amministrativo contenzioso.

In sostanza il differimento della tutela giurisdizionale all’esito del procedimento amministrativo ordinario e contenzioso era bilanciato dalla previsione della sospensione del termine di prescrizione del diritto soggettivo, già sorto. Situazione questa che - una volta entrata in vigore la Costituzione repubblicana - si è ritenuta essere non di meno compatibile con la garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione[20] e della tutela giurisdizionale tout court[21].

Il collocamento di tale disposizione nel titolo quinto del regio decreto del 1935 non escludeva che in realtà la prevista sospensione del termine di prescrizione riguardasse soprattutto il procedimento amministrativo ordinario, che all’epoca non prevedeva un termine ultimo per il suo completamento, e solo marginalmente il procedimento amministrativo contenzioso, che per la sua conclusione già allora vedeva un termine ben preciso (60 giorni dalla data del ricorso avverso il provvedimento di diniego della prestazione previdenziale: art. 98 cit.), decorso il quale era possibile proporre la domanda al giudice ordinario.

La norma però, riferendosi all’uno (procedimento amministrativo ordinario) e all’altro (procedimento amministrativo contenzioso), era espressione di un principio di settore riconducibile alla più generale massima contra non valentem agere non currit praescriptio: quando l’assicurato, titolare di un diritto soggettivo di natura previdenziale, ha domandato la prestazione, ma non può adire il giudice (nel senso che la sua domanda sarebbe improponibile, com’era in passato, o improcedibile, com’è attualmente) perché l’iter del procedimento amministrativo non è completato, quanto meno non ’soffre’ il decorso del termine di prescrizione, che è sospeso fin tanto che l’Istituto, che deve provvedere, non abbia provveduto ovvero non sia decorso il termine per provvedere.

Questo bilanciamento in chiave compensativa, che inizialmente rispondeva a una scelta discrezionale del legislatore dell’epoca, è poi divenuto essenziale ai fini della compatibilità con gli artt. 24 e 38 della Costituzione (sulla tutela giurisdizionale dei diritti di natura previdenziale) giacché sarebbe di assai dubbia legittimità costituzionale un assetto normativo secondo cui il diritto dell’assicurato, che abbia domandato la prestazione di previdenza, possa prescriversi anche per tutto il tempo in cui egli - che si è attivato domandando tempestivamente la prestazione all’istituto previdenziale - non può però adire il giudice perché la sua domanda sarebbe improcedibile (o addirittura, prima della riforma del rito del lavoro, improponibile).

La successiva riforma del 1970 (d.p.r. 30 aprile 1970, n. 639), in attuazione della delega, in particolare, per il riordino degli organi di amministrazione dell’Inps per l’attuazione del decentramento amministrativo (art. 27 legge 30 aprile 1969, n. 153) ha ristrutturato il procedimento amministrativo contenzioso prevedendo (artt. 44 - 47) un ricorso in prima istanza al comitato provinciale ed un ricorso in seconda istanza al comitato regionale (con la limitata possibilità di ricorso diretto agli organi centrali dell’istituto). Il doppio termine per proporre il ricorso amministrativo (in prima e di seconda istanza) e per la decisione dello stesso è rimasto fissato in 90 giorni.

Tra le disposizioni abrogate per incompatibilità non poteva esserci in particolare - conformemente a quanto ritenuto da Cass. n. 9286 del 2003[22], l’art. 97, quinto comma, citato, che continuava a prevedere che il procedimento in sede amministrativa aveva effetto sospensivo dei termini di prescrizione. Non solo la ristrutturazione del procedimento amministrativo contenzioso in chiave di decentramento amministrativo, con l’ampio coinvolgimento dei comitati provinciali delle decisioni dei ricorsi in prima istanza, non era affatto incompatibile con la previsione della sospensione del termine di prescrizione che tra l’altro - come già rilevato - riguardava in realtà anche e soprattutto il procedimento amministrativo ordinario (ossia pre - contenzioso) che non era oggetto della riforma del 1970. Ma anche il contenuto della delega del 1969, che riguardava di decentramento amministrativo dell’attività dell’Inps, non autorizzava il legislatore delegato a modificare tale speciale disposizione di tutela degli assicurati e di moderato riequilibrio della mancata previsione di un termine per l’Istituto di previdenza per decidere sulla domanda dell’assicurato.

L’ipotizzata abrogazione per incompatibilità dell’art. 97, quinto comma, citato avrebbe rappresentato una regressione di tutela per gli assicurati anche rispetto al livello del 1935 e un tale assetto normativo - per cui il diritto soggettivo a una prestazione di previdenza, tempestivamente richiesta dall’assicurato all’Istituto, non fosse azionabile in giudizio per un tempo non definito (quanto alla durata del procedimento amministrativo ordinario) e fosse non di meno suscettibile di estinzione per prescrizione, onerando così l’interessato di ripetuti atti di interruzione della stessa - non sarebbe più stato compatibile con gli artt. 24 e 38 della Costituzione.

In realtà il decentramento amministrativo dell’Inps e la riforma del sistema dei ricorsi amministrativi non hanno inciso su questa norma di tutela (l’art. 97, comma quinto) per cui, una volta che l’assicurato avesse fatto tempestivamente ciò di cui egli era onerato (ossia la domanda di prestazione all’Istituto) e spettasse invece a quest’ultimo provvedere, il decorso del termine di prescrizione del diritto alla prestazione era sospeso; norma che continuava a svolgere quella funzione di bilanciamento e di riequilibrio per cui era stata originariamente concepita.

Solo successivamente, di lì a poco (nel 1973), con la riforma del processo del lavoro (L. n. 533 del 1973) si ha - non già l’abrogazione per incompatibilità - ma un ridimensionamento della portata dell’art. 97, quinto comma.

Si ha, infatti, che da una parte l’art. 7 della legge n. 533 del 1973 ha previsto che la richiesta all’istituto assicuratore si intende respinta, a tutti gli effetti di legge, quando siano trascorsi 120 giorni dalla data della presentazione, senza che l’istituto si sia pronunciato. D’altra parte rileva il nuovo art. 443, primo comma, c.p.c., introdotto dalla stessa legge n. 533 del 1973, che ha previsto che la domanda relativa alle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie di cui al primo comma dell’art. 442 non è procedibile se non quando siano esauriti i procedimenti prescritti dalle leggi speciali per la composizione in sede amministrativa o siano decorsi i termini ivi fissati per il compimento dei procedimenti stessi o siano, comunque, decorsi centottanta giorni dalla data in cui è stato proposto il ricorso amministrativo (così superandosi ogni ipotesi d’improponibilità della domanda per il mancato preventivo esperimento del procedimento amministrativo contenzioso: art. 149 disp. att. c.p.c.).

In particolare quindi il legislatore del 1973 ha introdotto, come istituto generale, il silenzio rifiuto sulla domanda dell’assicurato eliminando così quello che costituiva l’aspetto di maggiore criticità dell’effettività della tutela degli assicurati. Con la riforma del 1973 i tempi sia del procedimento amministrativo ordinario che di quello contenzioso risultano ora ben fissati in generale (salvo disposizioni speciali): 120 giorni per la formazione del silenzio rifiuto sulla domanda dell’assicurato diretta ad ottenere la prestazione rivendicata; 180 giorni per la formazione del silenzio rigetto sul ricorso amministrativo proposto avverso il provvedimento di diniego ovvero il silenzio rifiuto.

In questo diverso contesto normativo, di elevazione del grado di tutela degli assicurati, si è avuto una corrispondente riduzione dell’area di applicabilità dell’art. 97, quinto comma, cit.. Chiamato a giocare un ruolo assai minore di bilanciamento e compensazione, limitato ormai solo al periodo di tempo in cui l’assicurato ha domandato la prestazione e l’istituto non ha provveduto nel termine di 120 giorni e successivamente ha impugnato il silenzio rifiuto (o il provvedimento negativo in ipotesi emesso prima della scadenza di tale termine) e gli organi deputati ad emettere la decisione sul ricorso amministrativo non abbiano provveduto nel prescritto termine (non superiore a quello di 180 giorni fissato dall’art. 443 c.p.c.).

Rimaneva (e rimane) quindi ancora come principio di settore, enucleabile dall’art. 97, quinto comma, citato, l’affermazione che il decorso del termine della prescrizione è sospeso in caso - e per il tempo - di inerzia giustificata (e quindi incolpevole) dell’assicurato, che abbia fatto ciò di cui egli è onerato (proposizione della domanda all’Istituto e successivamente proposizione del ricorso amministrativo) e che sia in attesa delle determinazioni dell’Istituto e degli organi preposti alla decisione dei ricorsi amministrativi, ossia in generale per il tenni ne di 120 giorni per la formazione del silenzio rifiuto ed il termine non superiore a 180 giorni per la formazione del silenzio rigetto.

Né tale principio risulta successivamente contrastato dalla legge n. 88 del 1989 di ristrutturazione dell’Inps che ha semplificato il procedimento amministrativo contenzioso con la previsione, in particolare, della definitività delle decisioni dei comitati provinciali sui ricorsi amministrativi. Neppure in questa circostanza, infatti, il legislatore ha inteso eliminare la speciale norma di tutela desumibile dall’art. 97, quinto comma, citato.

Si tratta di un principio di settore che si pone in termini di specialità rispetto ai principi generali desumibili dalla disciplina codicistica per cui da una parte la prescrizione comincia a decorrere solo dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.) e d’altra parte sono tipiche le cause di sospensione del decorso del termine di prescrizione (artt. 2941 e 2942 c.c.). Rapporto di specialità che in questa materia è simile a quello che caratterizza l’analogo principio di settore secondo cui il decorso del termine di prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore subordinato è sospeso per tutto il tempo in cui il rapporto di lavoro non è assistito dalla garanzia della cosiddetta tutela reale[23]. Da ultimo non può non rilevarsi anche che la soluzione accolta, che predica la perdurante vigenza dell’art. 97, quinto comma, citato, pur con quella portata ridotta sopra precisata, risponde altresì all’esigenza che il processo interpretativo della normativa nazionale sia orientato alla maggiore conformità ai trattati internazionali (art. 111, primo comma, Cost.); ciò che postula il rispetto del principio del processo ’equo’ posto dall’art. 6 Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in sinergia con la garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) ed ora anche con l’art. 47 della Carta diritti fondamentali UE, che assicura il diritto a un ricorso ’effettivo’ al giudice; sicché l’inerzia giustificata - e quindi incolpevole - nell’agire in giudizio, per essere la domanda temporaneamente improcedibile, risulterebbe sanzionata in modo ’non equo’ con l’estinzione del diritto per prescrizione o anche solo con il decorso del termine di prescrizione del diritto.

Questo argomentare conduce quindi - a composizione del denunciato contrasto di giurisprudenza - all’affermazione del principio di diritto seguente: con riferimento alle prestazioni di previdenza e assistenza, per le quali l’art. 97, quinto comma, r.d.l. n. 1827 del 1935 prevedeva - e prevede tuttora - che il procedimento in sede amministrativa ha effetto sospensivo

1. La prescrizione

2. Natura e fondamento

3. La prescrizione dell’indennità di maternità

3.1. Premessa

3.2. La prescrizione dell’indennità di maternità nella giurisprudenza

3.3. La fattispecie concreta

3.4. Il quadro normativo di riferimento

3.5. L’indennità di maternità nella prassi amministrativa

5. La prescrizione dei contributi previdenziali e assistenziali

5.1. Premessa

5.2. Il quadro normativo di riferimento

5.3. La prescrizione dei contributi previdenziali e assistenziali nella giurisprudenza

5.4. La fattispecie concreta

5.5. La denuncia del lavoratore o dei suoi superstiti

5.6. L’idoneità degli atti conservativi del termine decennale

5.7. L’adeguamento della prassi amministrativa alla giurisprudenza

6.Conclusioni

1. La prescrizione

Secondo quanto stabilito dall’art. 2934 c.c. ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare, non lo esercita per il tempo determinato dalla legge. Si ritiene[1], tuttavia, che la norma parli impropriamente di estinzione del diritto, se la prescrizione operasse nel senso di estinguere il diritto non si comprenderebbe la regola posta dal successivo art. 2940 c.c., secondo cui non è possibile chiedere la restituzione di quanto pagato in adempimento di un debito prescritto.

Infatti, se il debito fosse estinto, il pagamento non sarebbe dovuto e se effettuato dovrebbe essere restituito. Pertanto, il diritto più che estinguersi perde la propria forza, nel senso che, se si agisce in giudizio, il terzo potrà eccepire la prescrizione, e in tal modo arresta l’iniziativa giurisdizionale. Se tale eccezione non viene opposta, il diritto potrà essere fatto valere ad ogni effetto. Altri[2] preferiscono parlare di estinzione dell’azione, piuttosto che di estinzione del diritto. Da questa breve descrizione si può affermare che i presupposti dell’istituto sono[3]:

1) un diritto soggettivo che può essere esercitato e non imprescrittibile;

2) il mancato esercizio del diritto (inerzia da parte del titolare);

3) il decorso del tempo previsto dalla legge.

Con riguardo alle specifiche regole sulla prescrizione, l’art. 2936 stabilisce che è nullo ogni patto diretto a modificare la disciplina legale della prescrizione. La norma precisa che i precetti dettati dalla legge non sono derogabili convenzionalmente dalle parti, dunque, non possono essere stabilite eccezioni tendenti all’eliminazione, prolungamento o all’abbreviazione dei termini. Il divieto si riferisce anche a quelle modifiche riguardanti, quindi la decorrenza, le cause di sospensione o di interruzione. La nullità del patto inteso a modificare la disciplina legale della prescrizione fonda la sua ratio, sulla considerazione che la prescrizione è un istituto di ordine pubblico, e la sua normativa è pertanto inderogabile e, tra i cui fini, vi è quello di assicurare che ciascun soggetto possa godere della tutela legislativa in piena libertà, senza essere indotto per un motivo o per l’altro a subirne le modificazioni.

Il successivo art. 2937 stabilisce che solo dopo che sia trascorso il tempo stabilito, è consentita la rinuncia che è un atto di dismissioni di un diritto da parte del suo titolare, atto unilaterale a carattere non recettizio, che dipende esclusivamente dalla volontà di chi lo compie.

La prescrizione, al fine di operare, presuppone dunque il mancato esercizio di un diritto per un dato tempo. Questo tempo è fissato inderogabilmente dalla legge in misura variabile secondo i casi, infatti, l’art. 2946 c.c., stabilisce che, salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni. La norma in oggetto è di portata generale, nel senso che se non è previsto un termine più breve o più lungo di prescrizione, si applicherà quello generale. Si tratta di una norma di chiusura, ovvero applicabile ove il legislatore non abbia specificatamente previsto un termine diverso. Come per esempio, il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito che si prescrive in cinque anni (art. 2947 c.c.), in due anni si prescrive, invece, il risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli di ogni specie. L’art. 2948 c.c., prevede altri casi di prescrizione di diritti in cinque anni, mentre l’art. 2955 c.c. contempla casi di prescrizione in un anno, l’art. 2956 in tre anni. Infine, la legge regola anche le prescrizioni denominate presuntive, che sono caratterizzate dal fatto che, trascorso un certo periodo di tempo indicato variamente dagli artt. 2954 – 2956, il diritto si presume estinto per intervenuto pagamento. Si tratta di una presunzione iuris tantum di estinzione, salvo la prova contraria, secondo le regole degli artt. 2959-2960.

Il termine di prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.). E’ stato evidenziato in dottrina che l’inerzia non rileva in quanto tale, ma esclusivamente l’inerzia che, configurandosi come incuria e disinteresse rispetto al diritto e alla sua tutela, sia giuridicamente e socialmente apprezzabile come non esercizio di una situazione giuridica soggettiva[4]. Se l’inerzia del titolare del diritto è giustificata o viene a mancare, la prescrizione non decorre più, si delineano, così, i due istituti della sospensione e dell’ interruzione.

Il legislatore ha previsto talune cause di sospensione e di interruzione, la prima, si verifica quando l’inerzia del titolare permane, ma trova giustificazione in particolari situazioni espressamente previste dalla legge, durante le quali, la prescrizione, viene provvisoriamente arrestata[5]. La giurisprudenza[6], reputa che i casi di sospensione siano tassativi, ossia solo quelli previsti dalla legge. Si ha interruzione della prescrizione, quando l’inerzia del titolare del diritto viene a mancare o perché compie un atto con quale esercita il suo diritto o perché il diritto viene riconosciuto dal soggetto passivo del rapporto[7]. La differenza fra i due istituti consiste nel fatto che la sospensione apre una parentesi, l’interruzione è una frattura che impedisce di tener conto del tempo già trascorso, cosicché inizia a decorrere un nuovo periodo di prescrizione, mentre con la fine della sospensione, il computo del termine ricomincia, sommandolo, al periodo precedente.

2. Natura e fondamento

Gli orientamenti dottrinari in proposito sono molteplici, secondo alcuni[8] la prescrizione è la risposta all’esigenza di adeguamento alla situazione di fatto della situazione di diritto che risulta compromessa dell’inerzia del titolare. Altri,[9] ritengono che il fondamento della prescrizione sia da identificare nella necessità di assicurare un uso produttivo delle risorse. Secondo un diverso orientamento, la ratio andrebbe ricercata nella soddisfazione di esigenze di certezza giuridica[10], in questa direzione, la Corte costituzionale[11] in una non recente sentenza rileva che alla base della prescrizione vi è l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici.

3. La prescrizione dell’indennità di maternità

3. 1. Premessa

L’indennità di maternità è un’indennità sostitutiva della retribuzione prevista dall’artt. 16 e 22 del D.Lgs 26 Marzo 2001, n.151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) che viene pagata alle lavoratrici assenti dal servizio per gravidanza e puerperio.

Per ottenere l’indennità di maternità le lavoratrici:

· dipendenti devono avere un rapporto di lavoro in essere con diritto a retribuzione;

· domestiche devono aver versato almeno un anno di contributi nei due anni precedenti o almeno sei mesi di contributi nell’anno precedente;

· agricole devono aver effettuato minimo 51 giornate di lavoro nell’anno precedente;

· autonome devono risultare iscritte negli elenchi degli artigiani o dei commercianti;

· parasubordinate devono avere un minimo di tre contributi mensili nei 12 mesi precedenti.

L’indennità di maternità per astensione obbligatoria, spetta per un periodo massimo di cinque mesi; per l’astensione facoltativa, per un periodo non superiore a undici mesi complessivi tra i due genitori, da fruire nei primi otto anni di vita del bambino. L’indennità di maternità è comprensiva di ogni altra indennità spettante per malattia, è corrisposta con le modalità di cui all’art. 1, del D.L. 30.12.1979, n. 663 convertito, con modificazioni, dalla legge 29.2.1080, n. 33.

L’art. 2, definisce, variando la vecchia terminologia, che per congedo di maternità si intende l’astensione obbligatoria dal lavoro della lavoratrice.

3.2. La prescrizione dell’indennità di maternità nella giurisprudenza

La sentenza Corte di Cassazione – Sezione Unite – del 6.4.2012 n. 5572, nel panorama delle sentenze riguardanti la prescrizione dell’indennità di maternità, si distingue sia per la ricchezza delle argomentazioni giuridiche prospettate, nell’affrontare i diversi aspetti problematici ed in una certa misura interessanti, sia per le soluzioni a cui è giunta.

In considerazione della profondità del ragionamento giuridico esposto, se ne riportano i più significativi stralci, che costituiscono una importante guida, anche come riassunto di tutte le questioni e decisioni che si sono susseguite in questi ultimi anni. Giova evidenziale che il cui punto nodale di divergenza, riguarda la modalità d’intendere la sospensione della prescrizione. Tale sentenza, nel risolvere la diatriba, compie con accuratezza un lungo excursus relativo alla giurisprudenza degli ultimi anni sull’argomento, confrontando le varie tesi, esaminandole ed evidenziando gli aspetti di pregio o le eventuali carenze e persino contrapponendole fra di loro, per poi giungere alla scelta della interpretazione più favorevole per la ricorrente, ma nel rispetto del quadro normativo non sempre chiaro.

3.3. La fattispecie concreta all’esame della sentenza della Corte di Cassazione - sezioni unite del 6.4.2012 n. 5572

La ricorrente con ricorso del 28 ottobre 1999 adiva il tribunale di Roma per vedersi riconoscere l’indennità di maternità per il periodo di astensione obbligatoria dal 15 dicembre 1998 al 15 maggio 1999 e chiedeva la condanna dell’Inps al pagamento di tale prestazione, previa declaratoria incidentale della sussistenza del rapporto di lavoro con l’azienda.

L’Inps si costituiva resistendo alla domanda. Con sentenza del 9 ottobre 2002, il Tribunale di Roma respingeva la domanda della lavoratrice accogliendo l’eccezione di prescrizione sollevata dall’Inps nella memoria di costituzione. Successivamente, la stessa, proponeva appello deducendo che ai sensi dell’art. 2135 c.c. la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere; regola questa che - sosteneva l’appellante - trovava applicazione anche alla prescrizione annuale di cui all’art. 6 della legge n. 138 del 1943, cui era soggetta la prestazione richiesta all’Inps. Con sentenza del 22 aprile 2009, la Corte di appello di Roma respingeva il gravame della lavoratrice, affermando che, con riferimento alla sua domanda del 30 ottobre 1997, seguita dal ricorso amministrativo proposto il 15 gennaio 1999 e dall’azione giudiziaria intrapresa il 28 ottobre 1999, era maturata la prescrizione annuale ex lege n. 138 del 1943, in quanto l’inizio della decorrenza del termine breve annuale doveva farsi coincidere con il giorno in cui si erano perfezionati i requisiti costitutivi del diritto e che la durata del procedimento amministrativo non incideva sul predetto termine in mancanza di specifica previsione. Rilevava, in particolare, che doveva ritenersi maturata la prescrizione, atteso che era decorso il termine annuale prima della proposizione del ricorso amministrativo del 15 gennaio 1999, mentre il provvedimento amministrativo del 19 ottobre 1998 (di rigetto della richiesta della prestazione) non poteva in alcun modo ritenersi interruttivo del corso della prescrizione perché l’effetto interruttivo poteva riconoscersi solo all’accertamento del diritto e non anche alla sua negazione.

Successivamente, la lavoratrice propone ricorso per cassazione rilevando che la corte territoriale non abbia considerato che l’INPS avrebbe dovuto provvedere sulla domanda amministrativa del 30 ottobre 1997 della lavoratrice entro 90 (o 120) giorni e che, pertanto, il provvedimento negativo implicito (silenzio rifiuto) doveva datarsi 31 gennaio 1998 (o 28 febbraio 1998) e che, conseguentemente, essendo stato il ricorso amministrativo proposto il 15 gennaio 1999, il suo diritto in ogni caso non poteva considerarsi prescritto. In particolare la ricorrente invoca la giurisprudenza di questa Corte costituita dalla sentenza n. 1396 del 4 febbraio 2002 che ha affermato che il termine prescrizionale annuale del diritto all’indennità di malattia e di maternità inizia a decorrere dalla data di formazione del silenzio rifiuto ai sensi dell’art. 7 della legge n. 533 del 1973 sulla domanda rivolta all’Inps.

In considerazione di questi dati iniziali la Corte nel rimettere la questione alle sezioni unite ha quindi formulato il seguente quesito di diritto: dica la Corte se, in materia di trattamento d’indennità di maternità, il termine breve annuale di prescrizione, di cui all’art. 6 della legge n. 138 del 1943, inizia a decorrere dal giorno in cui può esser fatta valere, ai sensi dell’art. 2935 c.c., e cioè, nel caso di silenzio rifiuto ai sensi dell’art. 7 della legge n. 533 del 1973, dalla data di formazione dello stesso (cioè dopo 120 giorni dalla data di presentazione della domanda), ovvero - in caso di eventuale ricorso amministrativo contro il provvedimento negativo dell’Inps ai sensi dell’art. 46, quinto comma, legge n. 88 del 1989 – (dopo 90 giorni) dalla comunicazione del ricorso amministrativo stesso o dalla data del ricorso amministrativo, valida per l’interruzione. (dopo altri 90 giorni).

A questo punto al fine di poterli brevemente commentare, vengono riportati qui di seguito ampi e significativi stralci della sentenza in argomento, la Corte inizia il suo ragionamento, con una premessa, che, in sostanza, già prima era stata rimessa la questione alle sezioni unite per lo stesso contrasto giurisprudenziale:

Giova premettere che con una precedente ordinanza interlocutoria del 18 luglio 2008 la sezione lavoro aveva già rimesso altra causa al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite, ravvisando nella giurisprudenza della sezione lo stesso contrasto di giurisprudenza circa gli effetti sospensivi del decorso del termine di prescrizione, da riconoscersi alla domanda di prestazione previdenziale. Si era già rilevato che in alcune pronunce[12] la Corte aveva ritenuto l’applicabilità del disposto dell’art. 97, quinto comma, R.D.L. n. 1827 del 1935, convertito in L. n. 1155 del 1936, in base al quale ’il procedimento in sede amministrativa ha effetto sospensivo dei termini di prescrizione’, siccome non modificato dalla sopravvenuta normativa in tema di ricorsi amministrativi (d.P.R. n. 639 del 1970, artt. 44, 45 e 46 dapprima; legge n. 88 del 1989, art. 46, successivamente) enunciando il principio di diritto secondo cui ’In tema di prescrizione annuale del diritto di ottenere dal Fondo di garanzia gestito dall’INPS il pagamento delle retribuzioni relative agli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, secondo la previsione del d.lgs. n. 80 del 1992, art. 2, comma 5, la presentazione della prescritta domanda, secondo le norme che regolano il conseguimento delle prestazioni previdenziali, ai sensi della L. n. 88 del 1989, artt. 25 e 46, oltre a costituire atto interruttivo della prescrizione, determina l’apertura del procedimento amministrativo preordinato alla liquidazione, cosicché il decorso della prescrizione resta sospeso fino alla sua conclusione’.

Secondo invece un diverso orientamento[13] nessuna efficacia poteva riconoscersi alla previsione della sospensione del termine di prescrizione di cui all’art. 97 del R.D.L. n. 1827 del 1935, cit., trattandosi di disposizione -contenuta nella disciplina dei ricorsi, ivi prevista all’interno del titolo terzo (“ricorsi e controversie”) - tacitamente abrogata per incompatibilità a seguito dell’intervenuta nuova regolamentazione dell’intera materia del ’contenzioso amministrativo’, ad opera, dapprima, del d.P.R. n. 639 del 1970 (artt. 44 e 46, inseriti all’interno del titolo terzo ricorsi e controversie in materia di prestazioni’) e, poi, della legge n. 88 del 1989 (art. 46, intitolato ’contenzioso in materia di prestazioni’, che al comma primo ha abrogato la precedente disciplina dettata dal d.P.R. n. 638 del 1970, artt. 44 e 47 cit.), non assumendo rilievo che, in altri procedimenti contenziosi relativi ai riconoscimento di prestazioni analoghe, la legge preveda la sospensione della prescrizione (cfr. d.P.R. n. 1124 del 1965, art. 111). Si è osservato inoltre che non rileva a tal fine la previsione d’improcedibilità della domanda giudiziale prima della definizione del procedimento amministrativo e del decorso dei termini all’uopo fissati, improcedibilità che è destinata ad operare esclusivamente in relazione alla proposizione della domanda giudiziale, non potendo incidere sulla determinazione del decorso della prescrizione, atteso che il diritto agli accessori, in caso di ritardo nell’erogazione della prestazione, può essere fatto valere al centoventunesimo giorno dalla presentazione della domanda amministrativa, mentre la “procedimentalizzazione” delle varie fasi attiene alle modalità di tutela dei diritto ma non costituisce un impedimento al suo esercizio.

Con decisione del 17 settembre 2009 n. 19992, le Sezioni Unite hanno ritenuto che la questione relativa al decorso del termine di decadenza di cui all’art. 47 d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, anch’essa rimessa all’esame della Corte, costituisse autonomo fondamento della decisione impugnata e che quindi era superfluo l’esame anche dell’ulteriore questione attinente alla prescrizione.

In seguito, la sezione lavoro con ordinanza n. 5294 del 3 febbraio 2011 - 11 marzo 2011 ha rimesso la causa al primo presidente per l’assegnazione alle sezioni unite, che sono state nuovamente investite del medesimo contrasto in giurisprudenza.

A questo punto la Corte, anticipando la soluzione, evidenzia che, “Centrale nell’esame dell’insorto e perdurante contrasto di giurisprudenza è il citato art. 97, quinto comma, R.D.L. n. 1827 del 1935”. Infatti, tutto ruota attorno alla vigenza o meno dell’art. 97, quinto comma, R.D.L. n. 1827 del 1935, convertito nella legge 6 aprile 1936 n. 1155, decidere in un senso o nell’altro incide sulla maturazione o meno della prescrizione dell’indennità.

E’ importante, preliminarmente, ricordare che l’art. 15 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, nel prevedere l’indennità di maternità in favore delle lavoratrici madri, stabilisce che essa è corrisposta con gli stessi criteri previsti per la erogazione delle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie dall’ente assicuratore di malattia presso il quale la lavoratrice è assicurata.

Trova quindi applicazione in particolare - ciò che è pacifico in causa - l’art. 6, sesto comma, della legge 11 gennaio 1943, n. 138, che prevede che l’azione per conseguire le prestazioni, di cui alla legge medesima, si prescrive nel termine di un anno dal giorno in cui esse sono dovute.

L’erogazione della prestazione presuppone la domanda della lavoratrice madre all’ente previdenziale, domanda che, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 533 del 1973, si intende respinta quando siano trascorsi 120 giorni dalla data della presentazione senza che l’istituto assicuratore si sia pronunciato (in generale la previa domanda amministrativa all’istituto condiziona la proponibilità della domanda giudiziale: Cass., sez. lav., 28 dicembre 2011, n. 29236).

Intervenuto il provvedimento negativo o formatosi il silenzio rigetto per l’inutile decorso del suddetto termine di 120 giorni, la lavoratrice madre può proporre ricorso amministrativo al comitato provinciale dell’istituto assicuratore nel termine di 90 giorni di cui all’art. 46 legge 9 marzo 1989, n. 88; disposizione questa che prevede un ulteriore termine di 90 giorni per la decisione del ricorso, in mancanza della quale, entro tale termine, il ricorso si intende respinto a tutti gli effetti e l’assicurata ha la facoltà di adire l’autorità giudiziaria.

Quindi, dopo la domanda della prestazione, nella specie, dell’indennità di maternità, in mancanza di atti di messa in mora o comunque idonei ad interrompere il decorso del termine annuale di prescrizione, vi è in ogni caso il ricorso amministrativo che ha certamente tale idoneità. Cfr. Cass., sez. lav., 1 marzo 1993, n. 2509, che ha puntualizzato che la decorrenza del termine prescrizionale annuale previsto dall’art. 6, ultimo comma, L. 11 gennaio 1943 n. 138 (applicabile al diritto all’indennità giornaliera di maternità di cui all’art. 15 L. 30 dicembre 1971, n. 1204) è interrotta sia dalla domanda all’Istituto di pagamento della prestazione, sia dal ricorso amministrativo avverso il provvedimento (espresso o tacito) di rifiuto dell’erogazione, che comportano entrambi, ai sensi dell’art. 2943, quarto comma, c.c. la costituzione in mora dell’ente debitore.

Ciò che è certo nel caso di specie è che dalla data della domanda dell’indennità di maternità (30 ottobre 1997) sino a quella della proposizione del ricorso amministrativo (15 gennaio 1999) è decorso più di un anno sicché rileva - ed è determinante ai fini del decidere - stabilire se il termine di prescrizione rimane sospeso (come sostiene la difesa della ricorrente nel suo unico motivo di ricorso), o no (come affermato dalla sentenza impugnata), per il periodo di tempo necessario per la formazione del silenzio rifiuto ai sensi dell’art. 7 della legge n. 533 del 1973, che - come già rilevato - prevede che in generale, in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie, la richiesta all’istituto assicuratore si intende respinta, a tutti gli effetti di legge, quando siano trascorsi 120 giorni dalla data della presentazione, senza che l’istituto si sia pronunciato; questione questa che si inquadra in quella più ampia concernente la sospensione, o no, del termine di prescrizione durante il procedimento amministrativo tout court, sia quello ordinario che si conclude con il provvedimento di accoglimento o di rigetto (espresso o tacito) della domanda, sia quello contenzioso che si conclude con l’accoglimento o con il rigetto (anch’esso espresso o tacito) del ricorso amministrativo.

Il contrasto di giurisprudenza, riguarda questo profilo più generale, perché costituisce il presupposto interpretativo, da cui consegue, come inferenza logica, la regola iuris da applicarsi nella specie per la valutazione del vizio di violazione di legge dedotto dalla ricorrente, anche se i contrastanti orientamenti giurisprudenziali, appaiono in realtà, con riferimento al ’caso particolare’ oggetto del ricorso, convergere per l’accoglimento del ricorso stesso.

Il panorama giurisprudenziale sul tema è variamente articolato.

Vi è un primo orientamento giurisprudenziale che ha ritenuto che il termine per la formazione del silenzio - rifiuto di cui all’art. 7 della legge n. 533 del 1973 non sia computabile ai fini del decorso del termine di prescrizione, che pertanto deve ritenersi sospeso per il tempo necessario per la formazione del silenzio rifiuto (120 giorni) e che a questo periodo di sospensione occorre aggiungere un ulteriore termine di 90 giorni per la proposizione del ricorso amministrativo. In particolare Cass., sez. lav., 26 agosto 1997, n. 8042, ha affermato che il termine prescrizionale annuale del diritto all’indennità di malattia previsto dall’ultimo comma dell’art. 6 L. 11 gennaio 1943 n. 138, inizia a decorrere dalla data di formazione del silenzio - rifiuto, ex art. 7 L. 11 agosto 1973, n. 533, sulla domanda rivolta all’Inps per ottenerla, salvi gli effetti dell’eventuale ricorso contro tale provvedimento a norma dell’art. 46 L. 9 marzo 1989, n. 88, la proposizione del quale implica la non computabilità, ai fini prescrizionali, del successivo periodo di novanta giorni previsto dal sesto comma della medesima disposizione, decorso il quale l’interessato ha facoltà di adire l’autorità giudiziaria.

Una conferma di tale orientamento si ha con Cass., sez. lav., 4 febbraio 2002, n. 1396, che costituisce un precedente più specifico perché riguarda proprio l’indennità di maternità. La corte - nel porsi il problema se, proposta la domanda amministrativa diretta ad ottenere la corresponsione dell’indennità di maternità, il termine di prescrizione annuale decorra dalla data della proposizione della domanda amministrativa ovvero da quella dell’inutile decorso del termine di 120 giorni di cui all’art. 7 citato - risolve la questione ritenendo la sospensione del termine prescrizionale, così prestando adesione alla precedente sentenza n. 8042 del 1998. Ed infatti ribadisce che il termine prescrizionale annuale, previsto dall’ultimo comma dell’art. 46 legge 11 gennaio 1943 n. 138, inizia a decorrere dalla data di formazione del silenzio - rifiuto, ex art. 7 legge 11 agosto 1973 n. 533, sulla domanda rivolta all’INPS per ottenerla, salvi gli effetti dell’eventuale ricorso contro il detto provvedimento a norma dell’art. 46, quinto comma, legge 9 marzo 1989 n. 88, la proposizione del quale implica la non computabilità, ai fini prescrizionali, del successivo periodo di novanta giorni previsto dal sesto comma della medesima disposizione, decorso il quale l’interessato ha facoltà di adire l’autorità giudiziaria.

Successivamente il problema è stato riesaminato funditus da Cass., sez. lav., 10 giugno 2003, n. 9286, che ha affermato che il diritto della lavoratrice agricola all’indennità di maternità - che, nella sussistenza delle condizioni legislativamente stabilite per l’acquisizione della qualità di lavoratrice agricola, nasce direttamente dalla legge, e non dagli atti amministrativi dell’Inps, che hanno mero valore ricognitivo - soggiace al medesimo regime di prescrizione stabilito per l’indennità di malattia dall’art. 6, ultimo comma, L. 11 gennaio 1943 n. 138, e perciò si prescrive in un anno dalla data della sua acquisizione, senza che sia attribuita a provvedimenti dell’istituto (quale, nella specie, la comunicazione alla richiedente della sospensione della pratica in attesa di accertamenti sull’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e sulla validità della iscrizione negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli) la idoneità a determinare la sospensione di detto termine, il quale resta invece sospeso, a norma dell’art. 97, ultimo comma, r.d.l. n. 1827 del 1935, per effetto e per tutta la durata - variabile in funzione della eventuale formazione del silenzio rifiuto sulla domanda ovvero della proposizione del ricorso amministrativo avverso il provvedimento di rigetto della domanda stessa - del procedimento in sede amministrativa. In particolare in questa pronuncia la Corte ha precisato che occorre prendere le mosse dall’art. 97, ultimo comma, r.d.l. 4 ottobre 1935 n. 1827, convertito nella legge 6 aprile 1936 n. 1155. I primi quattro commi dell’art. 97 disciplinavano invero il regime dei ricorsi amministrativi, che è stato successivamente novellato ad opera degli artt. 44, 45 e 46 del DPR 30 aprile 1970 n. 639 (emanato in forza delle deleghe conferite con gli artt. 27 e 29 della legge 30 aprile 1969 n. 153), ed ulteriormente modificato dall’art. 46 della legge 9 marzo 1989 n. 88. Ma - ha rilevato questa corte nella citata pronuncia - nessuna modifica né abrogazione è stata invece operata in relazione all’ultimo comma dell’art. 97, il quale prevede che ’Il procedimento in sede amministrativa ha effetto sospensivo dei termini di prescrizione’. La ratio della disposizione è quella, da un lato, di esimere l’assicurato (che non potrebbe adire il giudice, essendo l’azione improcedibile per il mancato completamento del procedimento amministrativo) dall’onere di effettuare continui atti interruttivi nel corso del procedimento medesimo, e dall’altro lato di non aggravare l’Ente previdenziale con continue sollecitazioni.

Questo ribadito orientamento giurisprudenziale è stato poi ulteriormente confermato, anche se non con riferimento alla indennità di maternità, da Cass., sez. lav., 15 novembre 2004, n. 21595, che ha affermato che, in tema di prescrizione annuale del diritto di ottenere dal fondo di garanzia gestito dall’Inps il pagamento delle retribuzioni relative agli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, secondo la previsione dell’art. 2, quinto comma, d.lgs. n. 80 del 1992, la presentazione della prescritta domanda, secondo le norme che regolano il conseguimento delle prestazioni previdenziali, ai sensi degli artt. 25 e 46 L. n. 88 del 1989, oltre a costituire atto interruttivo della prescrizione, determina l’apertura del procedimento amministrativo preordinato alla liquidazione, cosicché il decorso della prescrizione resta sospeso fino alla sua conclusione (che, nel caso di silenzio dell’istituto e di mancata proposizione nei termini del ricorso amministrativo, si ha dopo duecentodieci giorni, di cui centoventi dalla domanda e novanta fissati per la proposizione del ricorso, ai sensi dell’art. 46 cit. L. n. 88 del 1989).

Ulteriore conferma di tale orientamento giurisprudenziale, con riferimento all’indennità di maternità, si rinviene in Cass., sez. lav., 14 febbraio 2004, n. 2865, che ha ulteriormente ribadito che l’indennità di maternità, di cui all’art. 15 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, matura di giorno in giorno e si risolve in un complesso di diritti a ratei giornalieri; l’azione per conseguire l’indennità si prescrive nel termine di un anno dal giorno in cui i ratei sono dovuti; una volta presentata tempestiva domanda amministrativa, l’obbligo di pagamento dei ratei decorre, per l’ente previdenziale, dal giorno di maturazione degli stessi, sicché il silenzio rifiuto dell’ente si perfeziona con il decorso di 120 giorni dalla data di presentazione della domanda, per i ratei maturati contestualmente o precedentemente alla stessa e tempestivamente richiesti, e dal giorno di maturazione di ciascun rateo per quelli maturati successivamente alla domanda amministrativa; avverso il provvedimento di diniego o il silenzio rifiuto l’interessato ha il termine di 90 giorni per presentare ricorso amministrativo, ricorso che si ha per respinto dopo ulteriori 90 giorni dalla sua presentazione; il procedimento in sede amministrativa, ai sensi dell’art. 97, ultimo comma, del r.d.l. n. 1827 del 1935, ha effetto sospensivo dei termini di prescrizione.

A fronte dell’indirizzo giurisprudenziale di cui si è detto finora deve registrarsi, nel 2006, un orientamento di segno opposto, espresso da Cass., sez. lav., 12 aprile 2006, n. 8533, e altre sentenze[14] che ha affermato che, in tema di interessi legali e rivalutazione monetaria sui ratei pensionistici erogati successivamente al centoventunesimo giorno dalla domanda amministrativa e di prescrizione del relativo credito, il termine decennale non può rimanere sospeso in pendenza del procedimento amministrativo, per essere i casi di sospensione della prescrizione tassativamente indicati dalla legge, insuscettibili di applicazione analogica e di interpretazioni estensive. In particolare - ha affermato questa corte nella citata pronuncia - nessuna efficacia può riconoscersi alla previsione sospensiva dell’art. 97 del R.D.L. n. 1827 del 1935, trattandosi di disposizione - contenuta nella disciplina dei ricorsi, ivi prevista all’interno del titolo terzo (’ricorsi e controversie’) - tacitamente abrogata per incompatibilità, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi, a seguito dell’intervenuta nuova regolamentazione dell’intera materia del ’contenzioso amministrativo’ ad opera, dapprima, del d.P.R. n. 639 del 1970 (artt. 44 - 46, inseriti all’interno del titolo terzo ’ricorsi e controversie in materia di prestazioni’) e, poi, della legge n. 88 del 1989 (art. 46, intitolato ’contenzioso in materia di prestazioni’, che all’ultimo comma ha abrogato la precedente disciplina dettata dagli artt. 44 - 47 del d.P.R. n.638 del 1970 cit.); né può assumere rilievo che in altri procedimenti contenziosi relativi al riconoscimento di prestazioni analoghe la legge preveda la sospensione della prescrizione (cfr. art. 111 d.P.R. n. 1124 del 1965). Invece la previsione di improcedibilità della domanda giudiziale prima della definizione del procedimento amministrativo e del decorso dei termini all’uopo fissati, è destinata ad operare esclusivamente in relazione alla proposizione della domanda giudiziale, non potendo incidere sulla determinazione del decorso della prescrizione in esame, atteso che il diritto agli accessori, in caso di ritardo nell’erogazione della prestazione, può essere fatto valere al centoventunesimo giorno dalla presentazione della domanda amministrativa, mentre la ’procedimentalizzazione’ delle varie fasi attiene alle modalità di tutela del diritto e non costituisce un impedimento al suo esercizio.

Quindi tali pronunce del 2006, seguite in senso conforme da Cass., sez. lav., 28 marzo 2008, n. 8134, segnano un’inversione di giurisprudenza perché si pongono espressamente in contrasto, in particolare, con Cass. n. 9286 del 2003 e Cass. n. 11684 del 2005, cit., escludendo che il decorso del termine di prescrizione sia sospeso nel periodo di tempo necessario per la formazione dei silenzio rigetto del ricorso amministrativo, pur affermando nondimeno che la prescrizione (in quel caso, del diritto agli accessori) decorre dal 121 giorno dalla data di presentazione della domanda amministrativa, termine che vale per la formazione del silenzio rifiuto ai sensi dell’art. 7 della legge n. 533 del 1973.

Dall’esaminato quadro giurisprudenziale emerge un indirizzo uniforme e più volte confermato, secondo cui il decorso del termine di prescrizione è sospeso durante il tempo per la formazione del silenzio rifiuto dell’Istituto a cui l’assicurato abbia domandato la prestazione di previdenza (120 giorni di cui all’art. 7 della legge n. 533 del 1906). È invece controverso, più in generale, se esso sia sospeso anche durante il tempo per la formazione del silenzio rigetto sul ricorso amministrativo, che condiziona la procedibilità della domanda giudiziale (art. 443 c.p.c. ed in particolare art. 46 legge n. 88 del 1989), fronteggiandosi su tale questione un orientamento che tale sospensione ha predicato[15], contrastato da un opposto orientamento che l’ha invece esclusa[16]

Il denunciato contrasto di giurisprudenza, riguarda quindi, questo specifico profilo, nel contesto della più ampia questione dell’incidenza del decorso della prescrizione su diritti di natura previdenziale ed assistenziale nel periodo in cui l’azione giudiziaria non è procedibile ovvero (in passato) proponibile.

La questione controversa, pur formulata in questi termini più generali, si riferisce specificamente alla disciplina di settore concernente i diritti di natura previdenziale ed assistenziale, che godono della speciale protezione di cui all’art. 38 Cost.; essa si pone quindi in rapporto di specialità rispetto al contesto codicistico che, se da una parte prevede in generale (art. 2935 c.c.) che la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, d’altra parte, per la sospensione del decorso di tale termine, contempla non già una norma di carattere generale, ma le ipotesi tipiche catalogate agli artt. 2941 e 2942 c.c. (per la tassatività di tali fattispecie di sospensione della prescrizione[17].

Ed è proprio in questa prospettiva di disciplina speciale che occorre partire dall’esame dell’art. 97 del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, convertito nella legge 6 aprile 1936, n. 1155; disposizione questa che appartiene alla prima sistematica regolamentazione della previdenza sociale con l’istituzione dell’Inps, quale ente pubblico avente come missione la gestione delle assicurazioni obbligatorie. Tale norma - che, inserita nel titolo 5 (artt. 97 -109), recante la disciplina dei ’ricorsi’ e delle ’controversie’, era il perno del sistema di tutela ’contenziosa (ricorso amministrativo versus domanda giudiziale) del diritto dell’assicurato al conseguimento delle prestazioni di previdenza - fissava un duplice principio: da una parte (primo comma) si prevedeva che contro i provvedimenti dell’istituto concernenti le concessioni delle prestazioni assicurative previste dal regio decreto n. 1827/35 e in genere l’attuazione delle disposizioni del decreto stesso, era ammesso il ricorso in via amministrativa da parte degli assicurati (e dei datori di lavoro); d’altra parte (quarto comma) si prescriveva che non era ammesso il ricorso in via contenziosa (scilicet, innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria) prima che fosse definito il ricorso in sede amministrativa.

Ciò rispondeva a una concezione, tipica di quegli anni, che vedeva la commistione di elementi privatistici e pubblicistici. Da una parte il sistema delle assicurazioni obbligatorie di previdenza si fondava su un modulo tipicamente privatistico, quello del rapporto di assicurazione che vedeva nascere, in favore del soggetto assicurato, veri e propri diritti soggettivi e non già meri interessi legittimi. D’altra parte il riconoscimento del diritto alle prestazioni di previdenza sociale era procedimentalizzato e sfociava in un provvedimento amministrativo dell’Inps, che poteva assegnare o negare la prestazione richiesta secondo che l’istituto ne ravvisasse, o meno, i presupposti; provvedimento che, pur non degradando la situazione di diritto soggettivo in interesse legittimo (talché la giurisdizione era del giudice ordinario), era comunque (a quell’epoca) suscettibile, ove non impugnato (in sede amministrativa), di diventare definitivo precludendo così l’azionabilità in giudizio del diritto maturato fino alla domanda amministrativa. Infatti la (eventuale) tutela giurisdizionale si innestava soltanto dopo che il procedimento amministrativo si fosse concluso.

Pertanto vi erano sì diritti soggettivi, ma la loro tutela giurisdizionale era, in un certo senso, “differita” all’esaurimento di un procedimento amministrativo composto da una fase non contenziosa (promossa con la domanda dell’assicurato tendente al riconoscimento della prestazione di previdenza) e da una contenziosa (attivata, di norma, dall’assicurato con l’impugnazione del provvedimento di diniego della prestazione).

Quella dell’Inps (ente pubblico non economico, appartenente alla pubblica amministrazione in senso lato) era un’attività provvedimentale, pur sempre espressione di un pubblico potere, il cui esercizio condizionava in radice la tutela dei diritti soggettivi di natura previdenziale degli assicurati.

Al fondo di questa costruzione vi era la concezione per cui l’ente pubblico era deputato al bene comune ed il giudice non entrava in campo se non quando l’attività dell’ente pubblico non si fosse pienamente estrinsecata nel procedimento amministrativo ordinario e poi contenzioso.

L’assicurato, titolare di un diritto soggettivo di natura previdenziale, non poteva rivolgersi subito al giudice, ma inizialmente - e per un tempo non definito - doveva confidare sul buon andamento della pubblica amministrazione (alla quale apparteneva l’Inps). Potendo egli, ed anzi dovendo, proporre una domanda all’Inps, diretta ad ottenere la prestazione previdenziale alla quale egli riteneva di aver diritto, non poteva neppure dirsi che il diritto non potesse essere ’fatto valere’ ai sensi e per gli effetti dell’art. 2935 c.c., che non richiede - e non richiedeva - l’immediata azionabilità in giudizio del diritto[18]. Sicché, una volta integrati i presupposti di fatto per l’insorgenza del diritto, comunque cominciava il decorso della prescrizione, anche se inizialmente la tutela del diritto passava attraverso un procedimento amministrativo ordinario e poi contenzioso. Questo differimento della tutela giurisdizionale è stato ritenuto compatibile con l’art. 113 Cost. che assicura che contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti ed interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa[19].

Ma già il legislatore del 1935, pur in un contesto precedente il riconoscimento del diritto alla tutela giurisdizionale da parte della Costituzione repubblicana, tenne conto dell’anomalia di un diritto soggettivo che non era esercitabile ancora davanti al giudice (ordinario), ma che intanto poteva estinguersi per il decorso del termine di prescrizione.

Di qui la norma - posta a cerniera tra immediatezza del riconoscimento del diritto soggettivo e differimento della sua tutela giurisdizionale - sulla quale è insorto il contrasto di giurisprudenza in esame (il quinto comma dell’art. 97 citato), che prevede(va): ’Il procedimento in sede amministrativa ha effetto sospensivo dei termini di prescrizione’.

Seppur collocata nel titolo quinto del citato regio decreto n. 1827 del 1935, che riguardava i ’ricorsi’ e le ’controversie’, la norma aveva in realtà una portata più ampia perché si riferiva al ’procedimento in sede amministrativa tout court, comprensivo del procedimento amministrativo ordinario e dell’eventuale successivo procedimento amministrativo contenzioso.

In sostanza il differimento della tutela giurisdizionale all’esito del procedimento amministrativo ordinario e contenzioso era bilanciato dalla previsione della sospensione del termine di prescrizione del diritto soggettivo, già sorto. Situazione questa che - una volta entrata in vigore la Costituzione repubblicana - si è ritenuta essere non di meno compatibile con la garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione[20] e della tutela giurisdizionale tout court[21].

Il collocamento di tale disposizione nel titolo quinto del regio decreto del 1935 non escludeva che in realtà la prevista sospensione del termine di prescrizione riguardasse soprattutto il procedimento amministrativo ordinario, che all’epoca non prevedeva un termine ultimo per il suo completamento, e solo marginalmente il procedimento amministrativo contenzioso, che per la sua conclusione già allora vedeva un termine ben preciso (60 giorni dalla data del ricorso avverso il provvedimento di diniego della prestazione previdenziale: art. 98 cit.), decorso il quale era possibile proporre la domanda al giudice ordinario.

La norma però, riferendosi all’uno (procedimento amministrativo ordinario) e all’altro (procedimento amministrativo contenzioso), era espressione di un principio di settore riconducibile alla più generale massima contra non valentem agere non currit praescriptio: quando l’assicurato, titolare di un diritto soggettivo di natura previdenziale, ha domandato la prestazione, ma non può adire il giudice (nel senso che la sua domanda sarebbe improponibile, com’era in passato, o improcedibile, com’è attualmente) perché l’iter del procedimento amministrativo non è completato, quanto meno non ’soffre’ il decorso del termine di prescrizione, che è sospeso fin tanto che l’Istituto, che deve provvedere, non abbia provveduto ovvero non sia decorso il termine per provvedere.

Questo bilanciamento in chiave compensativa, che inizialmente rispondeva a una scelta discrezionale del legislatore dell’epoca, è poi divenuto essenziale ai fini della compatibilità con gli artt. 24 e 38 della Costituzione (sulla tutela giurisdizionale dei diritti di natura previdenziale) giacché sarebbe di assai dubbia legittimità costituzionale un assetto normativo secondo cui il diritto dell’assicurato, che abbia domandato la prestazione di previdenza, possa prescriversi anche per tutto il tempo in cui egli - che si è attivato domandando tempestivamente la prestazione all’istituto previdenziale - non può però adire il giudice perché la sua domanda sarebbe improcedibile (o addirittura, prima della riforma del rito del lavoro, improponibile).

La successiva riforma del 1970 (d.p.r. 30 aprile 1970, n. 639), in attuazione della delega, in particolare, per il riordino degli organi di amministrazione dell’Inps per l’attuazione del decentramento amministrativo (art. 27 legge 30 aprile 1969, n. 153) ha ristrutturato il procedimento amministrativo contenzioso prevedendo (artt. 44 - 47) un ricorso in prima istanza al comitato provinciale ed un ricorso in seconda istanza al comitato regionale (con la limitata possibilità di ricorso diretto agli organi centrali dell’istituto). Il doppio termine per proporre il ricorso amministrativo (in prima e di seconda istanza) e per la decisione dello stesso è rimasto fissato in 90 giorni.

Tra le disposizioni abrogate per incompatibilità non poteva esserci in particolare - conformemente a quanto ritenuto da Cass. n. 9286 del 2003[22], l’art. 97, quinto comma, citato, che continuava a prevedere che il procedimento in sede amministrativa aveva effetto sospensivo dei termini di prescrizione. Non solo la ristrutturazione del procedimento amministrativo contenzioso in chiave di decentramento amministrativo, con l’ampio coinvolgimento dei comitati provinciali delle decisioni dei ricorsi in prima istanza, non era affatto incompatibile con la previsione della sospensione del termine di prescrizione che tra l’altro - come già rilevato - riguardava in realtà anche e soprattutto il procedimento amministrativo ordinario (ossia pre - contenzioso) che non era oggetto della riforma del 1970. Ma anche il contenuto della delega del 1969, che riguardava di decentramento amministrativo dell’attività dell’Inps, non autorizzava il legislatore delegato a modificare tale speciale disposizione di tutela degli assicurati e di moderato riequilibrio della mancata previsione di un termine per l’Istituto di previdenza per decidere sulla domanda dell’assicurato.

L’ipotizzata abrogazione per incompatibilità dell’art. 97, quinto comma, citato avrebbe rappresentato una regressione di tutela per gli assicurati anche rispetto al livello del 1935 e un tale assetto normativo - per cui il diritto soggettivo a una prestazione di previdenza, tempestivamente richiesta dall’assicurato all’Istituto, non fosse azionabile in giudizio per un tempo non definito (quanto alla durata del procedimento amministrativo ordinario) e fosse non di meno suscettibile di estinzione per prescrizione, onerando così l’interessato di ripetuti atti di interruzione della stessa - non sarebbe più stato compatibile con gli artt. 24 e 38 della Costituzione.

In realtà il decentramento amministrativo dell’Inps e la riforma del sistema dei ricorsi amministrativi non hanno inciso su questa norma di tutela (l’art. 97, comma quinto) per cui, una volta che l’assicurato avesse fatto tempestivamente ciò di cui egli era onerato (ossia la domanda di prestazione all’Istituto) e spettasse invece a quest’ultimo provvedere, il decorso del termine di prescrizione del diritto alla prestazione era sospeso; norma che continuava a svolgere quella funzione di bilanciamento e di riequilibrio per cui era stata originariamente concepita.

Solo successivamente, di lì a poco (nel 1973), con la riforma del processo del lavoro (L. n. 533 del 1973) si ha - non già l’abrogazione per incompatibilità - ma un ridimensionamento della portata dell’art. 97, quinto comma.

Si ha, infatti, che da una parte l’art. 7 della legge n. 533 del 1973 ha previsto che la richiesta all’istituto assicuratore si intende respinta, a tutti gli effetti di legge, quando siano trascorsi 120 giorni dalla data della presentazione, senza che l’istituto si sia pronunciato. D’altra parte rileva il nuovo art. 443, primo comma, c.p.c., introdotto dalla stessa legge n. 533 del 1973, che ha previsto che la domanda relativa alle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie di cui al primo comma dell’art. 442 non è procedibile se non quando siano esauriti i procedimenti prescritti dalle leggi speciali per la composizione in sede amministrativa o siano decorsi i termini ivi fissati per il compimento dei procedimenti stessi o siano, comunque, decorsi centottanta giorni dalla data in cui è stato proposto il ricorso amministrativo (così superandosi ogni ipotesi d’improponibilità della domanda per il mancato preventivo esperimento del procedimento amministrativo contenzioso: art. 149 disp. att. c.p.c.).

In particolare quindi il legislatore del 1973 ha introdotto, come istituto generale, il silenzio rifiuto sulla domanda dell’assicurato eliminando così quello che costituiva l’aspetto di maggiore criticità dell’effettività della tutela degli assicurati. Con la riforma del 1973 i tempi sia del procedimento amministrativo ordinario che di quello contenzioso risultano ora ben fissati in generale (salvo disposizioni speciali): 120 giorni per la formazione del silenzio rifiuto sulla domanda dell’assicurato diretta ad ottenere la prestazione rivendicata; 180 giorni per la formazione del silenzio rigetto sul ricorso amministrativo proposto avverso il provvedimento di diniego ovvero il silenzio rifiuto.

In questo diverso contesto normativo, di elevazione del grado di tutela degli assicurati, si è avuto una corrispondente riduzione dell’area di applicabilità dell’art. 97, quinto comma, cit.. Chiamato a giocare un ruolo assai minore di bilanciamento e compensazione, limitato ormai solo al periodo di tempo in cui l’assicurato ha domandato la prestazione e l’istituto non ha provveduto nel termine di 120 giorni e successivamente ha impugnato il silenzio rifiuto (o il provvedimento negativo in ipotesi emesso prima della scadenza di tale termine) e gli organi deputati ad emettere la decisione sul ricorso amministrativo non abbiano provveduto nel prescritto termine (non superiore a quello di 180 giorni fissato dall’art. 443 c.p.c.).

Rimaneva (e rimane) quindi ancora come principio di settore, enucleabile dall’art. 97, quinto comma, citato, l’affermazione che il decorso del termine della prescrizione è sospeso in caso - e per il tempo - di inerzia giustificata (e quindi incolpevole) dell’assicurato, che abbia fatto ciò di cui egli è onerato (proposizione della domanda all’Istituto e successivamente proposizione del ricorso amministrativo) e che sia in attesa delle determinazioni dell’Istituto e degli organi preposti alla decisione dei ricorsi amministrativi, ossia in generale per il tenni ne di 120 giorni per la formazione del silenzio rifiuto ed il termine non superiore a 180 giorni per la formazione del silenzio rigetto.

Né tale principio risulta successivamente contrastato dalla legge n. 88 del 1989 di ristrutturazione dell’Inps che ha semplificato il procedimento amministrativo contenzioso con la previsione, in particolare, della definitività delle decisioni dei comitati provinciali sui ricorsi amministrativi. Neppure in questa circostanza, infatti, il legislatore ha inteso eliminare la speciale norma di tutela desumibile dall’art. 97, quinto comma, citato.

Si tratta di un principio di settore che si pone in termini di specialità rispetto ai principi generali desumibili dalla disciplina codicistica per cui da una parte la prescrizione comincia a decorrere solo dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.) e d’altra parte sono tipiche le cause di sospensione del decorso del termine di prescrizione (artt. 2941 e 2942 c.c.). Rapporto di specialità che in questa materia è simile a quello che caratterizza l’analogo principio di settore secondo cui il decorso del termine di prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore subordinato è sospeso per tutto il tempo in cui il rapporto di lavoro non è assistito dalla garanzia della cosiddetta tutela reale[23]. Da ultimo non può non rilevarsi anche che la soluzione accolta, che predica la perdurante vigenza dell’art. 97, quinto comma, citato, pur con quella portata ridotta sopra precisata, risponde altresì all’esigenza che il processo interpretativo della normativa nazionale sia orientato alla maggiore conformità ai trattati internazionali (art. 111, primo comma, Cost.); ciò che postula il rispetto del principio del processo ’equo’ posto dall’art. 6 Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in sinergia con la garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) ed ora anche con l’art. 47 della Carta diritti fondamentali UE, che assicura il diritto a un ricorso ’effettivo’ al giudice; sicché l’inerzia giustificata - e quindi incolpevole - nell’agire in giudizio, per essere la domanda temporaneamente improcedibile, risulterebbe sanzionata in modo ’non equo’ con l’estinzione del diritto per prescrizione o anche solo con il decorso del termine di prescrizione del diritto.

Questo argomentare conduce quindi - a composizione del denunciato contrasto di giurisprudenza - all’affermazione del principio di diritto seguente: con riferimento alle prestazioni di previdenza e assistenza, per le quali l’art. 97, quinto comma, r.d.l. n. 1827 del 1935 prevedeva - e prevede tuttora - che il procedimento in sede amministrativa ha effetto sospensivo