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La proroga del regime carcerario differenziato: problematiche applicative

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Prima Penale, Sentenza 28 dicembre 2011, n. 48396

La sentenza in esame è di notevole interesse scientifico posto che affronta la vexata quaestio inerente i presupposti richiesti per poter prorogare il regime carcerario differenziato.

Infatti, nel provvedimento in commento, i Giudici di “Piazza Cavour” fanno buon governo dei principi elaborati dalla Corte Costituzionale prima, e sviluppati poi dagli stessi Giudici di legittimità ordinaria, in subiecta materia non ravvisando “di fatto” una “discontinuità” ermeneutica in seguito alla modifica apportata all’art. 41 bis o.p. dalla legge n. 94 del 2009.

Nel caso di specie, difatti, la Corte di Cassazione ha affermato, richiamando un precedente orientamento nomofilattico (Cass. Pen., sez. I, 4.3.04, n. 19894; Cass. Pen., sez. I, 8.4.08, n. 14697), che “i decreti di proroga del regime di detenzione differenziato devono essere sorretti da congrua ed autonoma motivazione in ordine agli specifici elementi, dai quali deve desumersi la permanenza attuale delle eccezionali ragioni di ordine e di sicurezza, correlate ai pericoli connessi alla persistente capacità del condannato di tenere contatti con la criminalità organizzata, che le misure mirano a prevenire”.

Nella medesima pronuncia, del resto, gli stessi Ermellini hanno rilevato che la Corte Costituzionale, dal canto suo, “investita della questione di legittimità costituzionale della normativa sopra indicata (ovvero quella inerente il regime carcerario differenziato ndr.), l’ha dichiarata inammissibile per manifesta infondatezza, sottolineando la necessità che ciascun provvedimento di proroga contenga un’autonoma e congrua motivazione circa la permanenza attuale di pericoli per l’ordine e la sicurezza, che le misure mirano a prevenire”.

In tal guisa, gli stessi Giudici di legittimità hanno sottolineato una evidente omogeneità ermeneutica tra la nomofilattica elaborata in sede di legittimità ordinaria e quanto sostenuto in sede di legittimità costituzionale.

Di talchè ne consegue che, come su indicato, i presupposti applicativi per poter prorogare siffatto regime carcerario, sotto il profilo ermeneutico, non sembrano essere venuti meno per l’effetto della modifica apportata all’art. 41 bis o.p. dalla legge n. 94 del 2009.

Com’è noto, l’articolo 41 bis, co. II bis, o.p., nella sua attuale formulazione, stabilisce che la proroga del trattamento detentivo de quo “è disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno, tenuto conto anche del profilo criminale e della posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, della perdurante operatività del sodalizio criminale, della sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, degli esiti del trattamento penitenziario e del tenore di vita dei familiari del sottoposto. Il mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa”.

Ebbene, tale novella legislativa, come peraltro emerge da questa stessa sentenza (nei termini suesposti) non sembra aver determinato la “nascita” di un percorso applicativo di questo istituto di segno contrario.

In effetti, gli indici rilevatori (in ordine all’esistenza di una effettiva colleganza tra il detenuto e il circuito criminale di appartenenza) menzionati da questa regola possono chiaramente essere interpretati nel senso che essi possono essere valutati, in un giudizio prognostico di tal tipo, solo nella misura in cui attestino una persistente capacità del condannato di tenere contatti con la delinquenza organizzata.

Tra gli elementi che possono avere una evidente rilevanza in valutazioni prognostiche di tal tenore, si segnalano, a titolo di esempio, gli “esiti del trattamento penitenziario” i quali possono infatti consentire di verificare se la pena abbia svolto il suo compito costituzionalmente assegnato o se, al contrario, la propensione criminogena del detenuto abbia serbata intatta la sua pericolosa attualità.

Nel caso di specie, gli Ermellini non hanno stimato sufficiente “il buon comportamento inframurario” del detenuto reputato di “per sè solo, sintomo di resipiscenza e di seria riconsiderazione critica del proprio passato criminoso” lasciando chiaramente intendere, argomentando a contrario, la necessità che venga prodotta apposita documentazione comprovante gli esiti (favorevoli) del trattamento penitenziario.

Sempre nella sentenza in commento questo decisum, nel rigettare il ricorso proposto dal difensore del detenuto, non ha considerato l’argomentazione ivi sostenuta secondo la quale il ristretto “era stato sottoposto al regime differenziato da quasi un ventennio”.

Ebbene, la mancata valutazione di tale aspetto trova una spiegazione alla luce del fatto che l’art. 41 bis o.p., così come innovato dalla l. n. 94 del 2009, stabilisce che il “mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa”.

Tuttavia, se da un lato, siffatta opzione ermeneutica sembra essere tecnicamente corretta in quanto il frutto di una interpretazione etimologica della norma in esame, dall’altro, non sembra tener conto che pur essendo il decorso del tempo di per sé insuscettibile – unitariamente considerato - per valutare i presupposti richiesti per la proroga del regime carcerario differenziato, al contrario, tale elemento potrebbe essere preso in considerazione in giudizi di questo tipo insieme ad altri fattori.

A conferma di detto assunto giuridico, vi sono considerazioni di ordine logico -sistematico giacché, ad esempio, in materia “de libertate”, la Cassazione conferisce rilievo al periodo in cui una persona è sottoposta a “misura cautelare personale” nella misura in cui vi siano “altri elementi idonei ad indurre un mutamento della complessiva situazione” ( Cass. pen., sez. III, 8 giugno 2001, n. 23424 ( 15 maggio 2001) Ric. Mannino G.).

È evidente quindi che, se siffatto dettato giurisprudenziale è stato formulato a proposito delle “misure cautelari”, a maggior ragione, questo principio di diritto può essere applicato anche per un trattamento carcerario (seppur di natura speciale).

Tale ipotesi interpretativa, peraltro, sembra essere preferibile anche perché maggiormente aderente al dettato costituzionale.

In effetti, una lettura ermeneutica di tal tipo è perfettamente in linea con quanto affermato dalla Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 220 emessa il 9/06/10 (e dep. il 17/06/10) nel senso che le restrizioni connesse al regime speciale sono giustificate solo nella misura in cui esse siano imposte “dall’esigenza di contenere la pericolosità di determinati soggetti, individuati non secondo una logica presuntiva, ma in esito ad una valutazione specifica ed individuale”.

Nella sentenza in esame, inoltre, il Supremo Consesso ha richiamato i motivi deducibili in sede di legittimità in riferimento a provvedimenti di questo genere.

Invero, in questa decisione, partendo dalla premessa secondo la quale il “sindacato avverso detti provvedimenti, devoluto alla Corte di Cassazione dalla citata Legge, art. 41 bis, comma 2 sexies, è limitato alla violazione di legge; pertanto il controllo affidato a questo giudice di legittimità è esteso, oltre che all’inosservanza di disposizioni di legge sostanziale e processuale, alla mancanza di motivazione e cioè alle ipotesi in cui la motivazione risulta del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità, si da risultare meramente apparente, ovvero quando le linee argomentative del provvedimento sono a tal punto scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da far rimanere oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione (cfr. Cass. SS.UU. 28.5.03 n/224611; Cass. 1A 9.11.04 rv 230203)”, i Giudici di legittimità pervengono alla conclusione secondo cui è “da escludere che la violazione di legge ricomprenda in sè anche il vizio di contraddittorietà od illogicità manifesta della motivazione”.

Orbene, tale tracciato motivazionale, seppur tecnicamente ineccepibile, suggerisce evidenti profili di “criticità costituzionale”.

Infatti, è evidente l’irragionevolezza della diversa disciplina prevista per il regime carcerario differenziato rispetto a quello ordinario se si considera che questo trattamento restrittivo, viceversa, prevede una limitazione del diritto di impugnazione riconosciuto al detenuto in regime di “carcerazione ordinaria” (e non solo) nella forma più ampia possibile (difatti, nell’arresto giurisprudenziale avvenuto nel 2006 (Cass. pen., SSUU, 27 giugno 2006, n. 31461) gli Ermellini hanno affermato che “nelle materie di competenza del Tribunale di Sorveglianza” “la ricorribilità per Cassazione è estesa a tutti i motivi previsti dall’art. 606 c.p.p.”).

Sussistono, pertanto, a modesto avviso dello scrivente, i presupposti per poter sollevare una questione di legittimità costituzionale dell’ art. 41 bis, comma 2 sexies, o.p. per violazione dell’art. 3, comma I, Cost. nella parte in cui non prevede la possibilità di proporre “ricorso per Cassazione” per tutti i motivi indicati dall’art. 606 c.p.p. anziché per la sola “violazione di legge”.

Per giunta, la stessa Suprema Corte di Cassazione ha preso atto che il reclamo avverso il provvedimento di applicazione del regime di cui all’art. 41 bis ord. pen., pur se peculiare, resta comunque una “forma di impugnazione, che resta soggetta alla generale disciplina processuale di cui all’art. 581 cod. proc. pen.”( Cass. pen., sez. I, 10 novembre 2009, n. 46904).

Del resto, la Consulta, dal canto suo, con la sentenza n. 351 del 1996, ha affermato chiaramente che “il controllo di legittimità della magistratura di sorveglianza dovesse riguardare tanto i limiti esterni al regime speciale di detenzione - e dunque il rispetto dei diritti che trovano fondamento nella Costituzione - quanto i limiti interni - costituiti dalla congruità delle misure rispetto al fine di sicurezza che si intende perseguire: poiché mancando questo requisito ogni restrizione si sarebbe risolta in una sofferenza inutile per il detenuto” facendo sì che la competenza a conoscere dei Tribunali di sorveglianza sia indirizzata “al di là della semplice valutazione circa la sussistenza dei presupposti per l’applicazione del provvedimento” (Sebastiano Ardita, “IL NUOVO REGIME DELL’ART. 41- BIS DELL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO”, Cass. pen. 2003, 01, 4).

D’altronde, come rilevato anche dalla dottrina (Sebastiano Ardita, “IL NUOVO REGIME DELL’ART. 41- BIS DELL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO”, Cass. pen. 2003, 01, 4), non solo dall’“insieme delle disposizioni che regolano il reclamo avverso il provvedimento di applicazione, è possibile desumere l’autonomia di tale giudizio, anche rispetto ai procedimenti degli artt. 666 e 678 c.p.p., il cui richiamo ha un valore prettamente formale, ossia di rinvio per analogia alle regole che disciplinano il giudizio” ma risulta che gli indici di tale autonomia, a loro volta, possono essere rinvenuti: “a) nella integrale disciplina dei termini processuali e delle parti legittimate all’impugnazione; b) nella individuazione specifica dell’oggetto della cognizione (basata tanto sulla sussistenza dei presupposti applicativi, quanto sulla congruità delle singole disposizioni); c) nella previsione, all’esito del giudizio, di un "effetto qualificato", con espressa attribuzione di un potere conformativo del giudice ordinario sull’attività dell’amministrazione”.

Di talchè ne consegue come sia irragionevole un’impugnazione in fase di merito soggetta ai vincoli previsti per qualsivoglia gravame mentre, in sede di legittimità, il ricorso, invece, sia limitato ex lege sul numero di motivi azionabili; preclusione questa che, come in precedenza rilevato, non è viceversa prevista per gli altri istituti previsti dall’ordinamento penitenziario.

Da ultimo, tornando al caso in questione, tale questione giuridica non rappresenta certo un’ipotesi meramente teorica dato che, in questa occasione, sono state correttamente considerate “mere questioni di merito, inammissibili nella presente sede di legittimità” una serie di circostanze che potevano essere prese nella giusta considerazione laddove fosse stato “azionabile” il motivo previsto dall’art. 606, co. I, lett. e), c.p.p. (ovvero il “modesto tenore di vita che condurrebbero i suoi familiari in libertà” e l’ ”errata indicazione dei latitanti ancora in libertà della cosca mafiosa di appartenenza”).

La sentenza in esame è di notevole interesse scientifico posto che affronta la vexata quaestio inerente i presupposti richiesti per poter prorogare il regime carcerario differenziato.

Infatti, nel provvedimento in commento, i Giudici di “Piazza Cavour” fanno buon governo dei principi elaborati dalla Corte Costituzionale prima, e sviluppati poi dagli stessi Giudici di legittimità ordinaria, in subiecta materia non ravvisando “di fatto” una “discontinuità” ermeneutica in seguito alla modifica apportata all’art. 41 bis o.p. dalla legge n. 94 del 2009.

Nel caso di specie, difatti, la Corte di Cassazione ha affermato, richiamando un precedente orientamento nomofilattico (Cass. Pen., sez. I, 4.3.04, n. 19894; Cass. Pen., sez. I, 8.4.08, n. 14697), che “i decreti di proroga del regime di detenzione differenziato devono essere sorretti da congrua ed autonoma motivazione in ordine agli specifici elementi, dai quali deve desumersi la permanenza attuale delle eccezionali ragioni di ordine e di sicurezza, correlate ai pericoli connessi alla persistente capacità del condannato di tenere contatti con la criminalità organizzata, che le misure mirano a prevenire”.

Nella medesima pronuncia, del resto, gli stessi Ermellini hanno rilevato che la Corte Costituzionale, dal canto suo, “investita della questione di legittimità costituzionale della normativa sopra indicata (ovvero quella inerente il regime carcerario differenziato ndr.), l’ha dichiarata inammissibile per manifesta infondatezza, sottolineando la necessità che ciascun provvedimento di proroga contenga un’autonoma e congrua motivazione circa la permanenza attuale di pericoli per l’ordine e la sicurezza, che le misure mirano a prevenire”.

In tal guisa, gli stessi Giudici di legittimità hanno sottolineato una evidente omogeneità ermeneutica tra la nomofilattica elaborata in sede di legittimità ordinaria e quanto sostenuto in sede di legittimità costituzionale.

Di talchè ne consegue che, come su indicato, i presupposti applicativi per poter prorogare siffatto regime carcerario, sotto il profilo ermeneutico, non sembrano essere venuti meno per l’effetto della modifica apportata all’art. 41 bis o.p. dalla legge n. 94 del 2009.

Com’è noto, l’articolo 41 bis, co. II bis, o.p., nella sua attuale formulazione, stabilisce che la proroga del trattamento detentivo de quo “è disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno, tenuto conto anche del profilo criminale e della posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, della perdurante operatività del sodalizio criminale, della sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, degli esiti del trattamento penitenziario e del tenore di vita dei familiari del sottoposto. Il mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa”.

Ebbene, tale novella legislativa, come peraltro emerge da questa stessa sentenza (nei termini suesposti) non sembra aver determinato la “nascita” di un percorso applicativo di questo istituto di segno contrario.

In effetti, gli indici rilevatori (in ordine all’esistenza di una effettiva colleganza tra il detenuto e il circuito criminale di appartenenza) menzionati da questa regola possono chiaramente essere interpretati nel senso che essi possono essere valutati, in un giudizio prognostico di tal tipo, solo nella misura in cui attestino una persistente capacità del condannato di tenere contatti con la delinquenza organizzata.

Tra gli elementi che possono avere una evidente rilevanza in valutazioni prognostiche di tal tenore, si segnalano, a titolo di esempio, gli “esiti del trattamento penitenziario” i quali possono infatti consentire di verificare se la pena abbia svolto il suo compito costituzionalmente assegnato o se, al contrario, la propensione criminogena del detenuto abbia serbata intatta la sua pericolosa attualità.

Nel caso di specie, gli Ermellini non hanno stimato sufficiente “il buon comportamento inframurario” del detenuto reputato di “per sè solo, sintomo di resipiscenza e di seria riconsiderazione critica del proprio passato criminoso” lasciando chiaramente intendere, argomentando a contrario, la necessità che venga prodotta apposita documentazione comprovante gli esiti (favorevoli) del trattamento penitenziario.

Sempre nella sentenza in commento questo decisum, nel rigettare il ricorso proposto dal difensore del detenuto, non ha considerato l’argomentazione ivi sostenuta secondo la quale il ristretto “era stato sottoposto al regime differenziato da quasi un ventennio”.

Ebbene, la mancata valutazione di tale aspetto trova una spiegazione alla luce del fatto che l’art. 41 bis o.p., così come innovato dalla l. n. 94 del 2009, stabilisce che il “mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa”.

Tuttavia, se da un lato, siffatta opzione ermeneutica sembra essere tecnicamente corretta in quanto il frutto di una interpretazione etimologica della norma in esame, dall’altro, non sembra tener conto che pur essendo il decorso del tempo di per sé insuscettibile – unitariamente considerato - per valutare i presupposti richiesti per la proroga del regime carcerario differenziato, al contrario, tale elemento potrebbe essere preso in considerazione in giudizi di questo tipo insieme ad altri fattori.

A conferma di detto assunto giuridico, vi sono considerazioni di ordine logico -sistematico giacché, ad esempio, in materia “de libertate”, la Cassazione conferisce rilievo al periodo in cui una persona è sottoposta a “misura cautelare personale” nella misura in cui vi siano “altri elementi idonei ad indurre un mutamento della complessiva situazione” ( Cass. pen., sez. III, 8 giugno 2001, n. 23424 ( 15 maggio 2001) Ric. Mannino G.).

È evidente quindi che, se siffatto dettato giurisprudenziale è stato formulato a proposito delle “misure cautelari”, a maggior ragione, questo principio di diritto può essere applicato anche per un trattamento carcerario (seppur di natura speciale).

Tale ipotesi interpretativa, peraltro, sembra essere preferibile anche perché maggiormente aderente al dettato costituzionale.

In effetti, una lettura ermeneutica di tal tipo è perfettamente in linea con quanto affermato dalla Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 220 emessa il 9/06/10 (e dep. il 17/06/10) nel senso che le restrizioni connesse al regime speciale sono giustificate solo nella misura in cui esse siano imposte “dall’esigenza di contenere la pericolosità di determinati soggetti, individuati non secondo una logica presuntiva, ma in esito ad una valutazione specifica ed individuale”.

Nella sentenza in esame, inoltre, il Supremo Consesso ha richiamato i motivi deducibili in sede di legittimità in riferimento a provvedimenti di questo genere.

Invero, in questa decisione, partendo dalla premessa secondo la quale il “sindacato avverso detti provvedimenti, devoluto alla Corte di Cassazione dalla citata Legge, art. 41 bis, comma 2 sexies, è limitato alla violazione di legge; pertanto il controllo affidato a questo giudice di legittimità è esteso, oltre che all’inosservanza di disposizioni di legge sostanziale e processuale, alla mancanza di motivazione e cioè alle ipotesi in cui la motivazione risulta del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità, si da risultare meramente apparente, ovvero quando le linee argomentative del provvedimento sono a tal punto scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da far rimanere oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione (cfr. Cass. SS.UU. 28.5.03 n/224611; Cass. 1A 9.11.04 rv 230203)”, i Giudici di legittimità pervengono alla conclusione secondo cui è “da escludere che la violazione di legge ricomprenda in sè anche il vizio di contraddittorietà od illogicità manifesta della motivazione”.

Orbene, tale tracciato motivazionale, seppur tecnicamente ineccepibile, suggerisce evidenti profili di “criticità costituzionale”.

Infatti, è evidente l’irragionevolezza della diversa disciplina prevista per il regime carcerario differenziato rispetto a quello ordinario se si considera che questo trattamento restrittivo, viceversa, prevede una limitazione del diritto di impugnazione riconosciuto al detenuto in regime di “carcerazione ordinaria” (e non solo) nella forma più ampia possibile (difatti, nell’arresto giurisprudenziale avvenuto nel 2006 (Cass. pen., SSUU, 27 giugno 2006, n. 31461) gli Ermellini hanno affermato che “nelle materie di competenza del Tribunale di Sorveglianza” “la ricorribilità per Cassazione è estesa a tutti i motivi previsti dall’art. 606 c.p.p.”).

Sussistono, pertanto, a modesto avviso dello scrivente, i presupposti per poter sollevare una questione di legittimità costituzionale dell’ art. 41 bis, comma 2 sexies, o.p. per violazione dell’art. 3, comma I, Cost. nella parte in cui non prevede la possibilità di proporre “ricorso per Cassazione” per tutti i motivi indicati dall’art. 606 c.p.p. anziché per la sola “violazione di legge”.

Per giunta, la stessa Suprema Corte di Cassazione ha preso atto che il reclamo avverso il provvedimento di applicazione del regime di cui all’art. 41 bis ord. pen., pur se peculiare, resta comunque una “forma di impugnazione, che resta soggetta alla generale disciplina processuale di cui all’art. 581 cod. proc. pen.”( Cass. pen., sez. I, 10 novembre 2009, n. 46904).

Del resto, la Consulta, dal canto suo, con la sentenza n. 351 del 1996, ha affermato chiaramente che “il controllo di legittimità della magistratura di sorveglianza dovesse riguardare tanto i limiti esterni al regime speciale di detenzione - e dunque il rispetto dei diritti che trovano fondamento nella Costituzione - quanto i limiti interni - costituiti dalla congruità delle misure rispetto al fine di sicurezza che si intende perseguire: poiché mancando questo requisito ogni restrizione si sarebbe risolta in una sofferenza inutile per il detenuto” facendo sì che la competenza a conoscere dei Tribunali di sorveglianza sia indirizzata “al di là della semplice valutazione circa la sussistenza dei presupposti per l’applicazione del provvedimento” (Sebastiano Ardita, “IL NUOVO REGIME DELL’ART. 41- BIS DELL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO”, Cass. pen. 2003, 01, 4).

D’altronde, come rilevato anche dalla dottrina (Sebastiano Ardita, “IL NUOVO REGIME DELL’ART. 41- BIS DELL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO”, Cass. pen. 2003, 01, 4), non solo dall’“insieme delle disposizioni che regolano il reclamo avverso il provvedimento di applicazione, è possibile desumere l’autonomia di tale giudizio, anche rispetto ai procedimenti degli artt. 666 e 678 c.p.p., il cui richiamo ha un valore prettamente formale, ossia di rinvio per analogia alle regole che disciplinano il giudizio” ma risulta che gli indici di tale autonomia, a loro volta, possono essere rinvenuti: “a) nella integrale disciplina dei termini processuali e delle parti legittimate all’impugnazione; b) nella individuazione specifica dell’oggetto della cognizione (basata tanto sulla sussistenza dei presupposti applicativi, quanto sulla congruità delle singole disposizioni); c) nella previsione, all’esito del giudizio, di un "effetto qualificato", con espressa attribuzione di un potere conformativo del giudice ordinario sull’attività dell’amministrazione”.

Di talchè ne consegue come sia irragionevole un’impugnazione in fase di merito soggetta ai vincoli previsti per qualsivoglia gravame mentre, in sede di legittimità, il ricorso, invece, sia limitato ex lege sul numero di motivi azionabili; preclusione questa che, come in precedenza rilevato, non è viceversa prevista per gli altri istituti previsti dall’ordinamento penitenziario.

Da ultimo, tornando al caso in questione, tale questione giuridica non rappresenta certo un’ipotesi meramente teorica dato che, in questa occasione, sono state correttamente considerate “mere questioni di merito, inammissibili nella presente sede di legittimità” una serie di circostanze che potevano essere prese nella giusta considerazione laddove fosse stato “azionabile” il motivo previsto dall’art. 606, co. I, lett. e), c.p.p. (ovvero il “modesto tenore di vita che condurrebbero i suoi familiari in libertà” e l’ ”errata indicazione dei latitanti ancora in libertà della cosca mafiosa di appartenenza”).