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La vera identità di Massimo Campigli

Donne con la collana, 1952, cm 32x35, olio su tela
Donne con la collana, 1952, cm 32x35, olio su tela
Nuovi scrupoli, Allemandi

«Io nella psicoanalisi ho cercato e trovato il modo di mettere un po’ di sistema nella mia “follia”». Questo bel complimento alla terapia del dottor Freud viene da un seguace particolare, da un uomo che ora scopriamo introverso, insicuro e angosciato da infiniti complessi per i quali la scelta della pittura, per questo pensata e costruita, apparve un compenso, il motivo per dare un senso alla vita e uno specchio dove riflettersi: «Quanto somiglio ai miei quadri!»

Massimo Campigli non era nato pittore, confessava di non avere talenti, ma al loro posto possedeva la ferma determinazione di chi ha intuito nell’espressione pittorica un transfert eccezionale che lo aiuti a elaborare una difesa: «... non resta che supporre alla base della mia vocazione solo la smania di esistere, di emergere, il complesso d’inferiorità».

La scoperta di questo Campigli sconosciuto ci viene dall’uscita in libreria di una sua stupefacente autobiografia ritrovata incompiuta e dattiloscritta tra le carte del pittore e pubblicata con una precisa e affettuosa prefazione di Liana Bortolon.      

Una minuziosa e puntigliosa confessione che scelse i tavoli del parigino Caffé Dome, e ogni altro angolo che tornasse caro all’autore, al posto del lettino dello psicanalista, ma seguendo lo stesso metodo e aspettandosi gli stessi risultati.

Visto che la psicoanalisi lo aveva già aiutato a portare ordine in quella che riteneva la sua “follia”, superati i cinquant’anni sentì la necessità di vuotare il sacco: «...qui confesso tutto o niente». E per una confessione piena e liberatoria Campigli assunse il duplice ruolo di paziente e di analista, quello di chi si confessa e l’altro di chi ascolta, decritta e giudica. Pur pensando che questi suoi “scrupoli” sarebbero un giorno stati pubblicati, o forse proprio per questo, non nasconde vergogne, timori e manie, iniziati non a caso nell’infanzia e rimasti per l’intera vita a costellare con la loro angosciante presenza ogni sua azione.

Di Massimo Campigli, noto pittore italiano presente con i suoi dipinti nei maggiori musei del mondo, sapevamo che era nato a Firenze, si era poi spostato a Milano con la famiglia e infine a Parigi dove, a ventisei anni, aveva preso la decisione di diventare un “grande pittore” prevedendo lucidamente la notorietà nell’arco di cinque anni, come regolarmente era avvenuto.

Dal suo memoriale veniamo invece a sapere che era tedesco, cosa che non gli fu mai gradita, si chiamava in realtà Max Ihlenfeld ed era nato a Berlino da una ragazza madre. A Firenze, dove risiedeva la nonna, era stato portato appena nato per evitare quello che al tempo sarebbe stato uno scandalo e così era cresciuto nell’ambiguità di un ambiente che lui stesso definirà un gineceo, con la presenza della nonna, di un’altra donna di famiglia e della zia Anna che andava e veniva tra Berlino e Firenze. Dovrà arrivare a quattordici anni per scoprire in modo fortuito che la bella zia Anna era in realtà sua madre. Ingredienti scontati per un fumettone da fine Ottocento, ma anche motivo di turbe, altrimenti inspiegabili, in un ragazzo particolarmente sensibile.

La sua pittura, bloccata in una formula ripetitiva, con pochissime varianti e la ricorrenza ossessiva di un simulacro femminile, continua la riproposizione di quel gineceo nel quale si era svolta la sua protettissima infanzia. Donne e soltanto donne nei suoi quadri, come scrive lui stesso: «La donna idolo con i suoi attributi, un sogno amoroso in cui il maschio è di troppo», ma forse, proprio per questo, espressione di un mondo «un po’ imbambolato, assente, senza dramma, senza pensiero»; donne delle quali Campigli non vede che il viso (da risolversi sempre allo stesso modo), le mani, le vesti e i gioielli, «non mi accorgo neppure se hanno le gambe», terrà a precisare.

Garden Party, 1953-58, cm 103x136, olio su tela

Garden Party, 1953-58, cm 103x136, olio su tela

I gioielli femminili rappresentano addirittura una delle sue manie. Li acquista scegliendo i più strani e particolari, li colleziona seguendo scelte rigorose e se gli accade di vederne uno che ritiene brutto ne riceve un tale istantaneo trauma da non riuscire a spiccicar parola con la persona che se ne adorni. Riacquistata la calma si vergogna di questa che ritiene una colpevole debolezza. Nel tentativo di liberarsi da questo incubo ricorrente finirà per gettare l’intera costosa collezione in un fiume.

Del mondo, della vita, e dei suoi simili dice di non aver mai avuto precise nozioni; «Cieco e sordo come sono per natura a tutto quel che può dispiacermi […]. La mia conoscenza della vita è soprattutto libraria». Una conoscenza limitata, visto che legge pochi libri anche se li legge e rilegge sette o otto volte. Le donne che lo interessano sono quelle nevrotiche, si poteva dubitarne? Con le quali tesse spesso un rapporto fatto di perfidie e di complessi. Pur non avendo propensioni omosessuali il proprio intimo riferimento resta la donna e il desiderio di somigliarle, sogna di portarne gli orecchini, almeno uno; ci riuscirà a metà degli anni trenta per poi vergognarsi del lobo forato.

Alterna constatazioni di grande intelligenza ad altre banalissime: pensa che esista un nesso tra natura d’artista e sporcizia, non pratica volentieri i colleghi né s’interessa a loro e pur avendo incontrato i maggiori artisti del tempo li cita unicamente per riferimento. Volontario in un proprio esilio tutto interiore, ne ha la coscienza e si autodenuncia: «Ho un bel gemere d’essere prigioniero, non cerco altro».

Donna

In questa sua impietosa e per più versi sconcertante confessione, oltre ai complessi che sono soltanto suoi, sa però porre il dito anche su piaghe comuni, in genere pudicamente e ragionevolmente nascoste.

Della sua stessa pittura traccia un profilo talmente lucido che saremmo disposti a sottoscriverlo avendo da sempre pensato esattamente quello lui scrive: «La mia pittura ha dei grossi difetti fondamentali: c’è troppo museo, niente vita, è disumana e che so io, i colori sono scialbi, gessosi, finto affresco, c’è una geometria in ritardo sui tempi, è completamente fuori dei movimenti ecc.».

Un’onestissima indagine e coraggiosa confessione, oltre alla chiarezza d’idee, neppure attenuate dalla conclusione difensiva: «Eppure esiste e resiste, non la si trascura, una certa ragion d’essere deve averla. Si salva per un certo suo particolar modo di avere torto. Non è poco».

Un’analisi del proprio lavoro da far pensare, da indurre tutti noi, suoi colleghi noti e ignoti, celebri o negletti, a ripeterla secondo i propri casi, nella quiete dello studio, magari di fronte allo specchio.

Sigfrido Bartolini, 1995

Autobiografia – Massimo Campigli “Nuovi scrupoli”, Allemandi, 1995.