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Recensione a La persona e il sacro, di Simone Weil

Simone Weil
Simone Weil

Filosofa-operaia, marxista “eterodossa”, teologa laica: sono molti i modi in cui è stata definita Simone Weil, pensatrice francese tra le più originali del ‘900.

Reduce da un’esperienza di lavoro in fabbrica e da un travagliato percorso spirituale, la filosofa sviluppò un’originale sintesi di elementi desunti dalla tradizione operaista e dalla mistica cristiana.

In aperta rottura con lo zeitgeist del suo tempo, scientista e materialista, la Weil dà senza esitazione alcuna all’etica il primato filosofico, sposando tuttavia una concezione della morale decisamente critica delle teorie etiche moderne quali l’utilitarismo o il kantismo.

Affiancando all’attenzione per i fenomeni sociali (soprattutto le disuguaglianze di classe e le lotte operaie) un sentimento religioso che dalla riflessione puramente filosofica arriva all’esperienza mistica, la pensatrice francese offre una prospettiva inedita su molte problematiche del suo tempo.

Il suo lavoro più rappresentativo, in questo senso è il qui recensito La persona e il sacro.

Scritto poco prima della morte dell’autrice, questo breve testo del 1943 è una vera e propria summa dell’afflato etico di Simone Weil, nonché manifestazione più compiuta del suo pensiero.

Il testo risente chiaramente dell’impostazione confessionale dell’autrice, ma nonostante qualche sporadica incursione in territori propriamente teologici, esso rimane una lodevolissima opera di filosofia etico-sociale, illuminante per credenti e non.

Sin dall’inizio dell’opera la pensatrice francese prende le distanze dal personalismo, allora incarnato da Mounier e dai collaboratori della rivista Esprit, corrente alla quale la stessa Weil è stata spesso accostata.

A dividere i personalisti dalla Weil è ciò che nell’uomo è meritevole di rispetto: mentre il personalismo fa della persona in sé l’oggetto di tutela morale, la Weil svaluta decisamente ogni attributo individuale e collettivo. Non c’è niente nella persona di degno di essere ritenuto sacro: non il suo corpo, non la sua personalità, non ciò che egli fa.

Cosa lo rende dunque così sacro agli occhi della Weil?

La risposta è da cercarsi in una dimensione impersonale, perfetta e sempre accessibile all’uomo che sa entrarvi, quella della verità e della bellezza. Esse sono uguali e perfette per tutti e come tali trascendono ogni soggettività.

Proprio nel fatto che l’uomo può attingere a queste dimensioni perfette ed impersonali sta la sua santità.

Non nel collettivo (sempre incapace di trascendere sé stesso e arrivare a questa dimensione) e neanche nell’individuale sta il sacro. Esso è impersonale e può pertanto essere raggiunto da tutti coloro che sanno attingere alle sorgenti del vero, del bello e del giusto.

La scienza non ha valore di per sé: essa trae dal contatto con la verità il suo valore.

L’arte non ha valore se non perché porta d’accesso privilegiata alla bellezza.

Persino il lavoro fisico, inteso quasi hegelianamente (si pensi alla dialettica servo-padrone), è una dimensione che dà accesso profondo al reale.

Tutto questo (bello, vero e buono) sta dunque in una dimensione impersonale e ogni persona può ad essa partecipare.

Tale concezione risulta tutt’altro che priva di ambiguità.

A parte il criticabile platonismo, emerge qui fin da subito uno dei punti deboli, a mio avviso, della posizione dell’autrice.

Gli esseri umani sono in quest’ottica “illuminati” dalla morale di riflesso, senza valore intrinseco.

L’ammirevole tentativo di separare etica ed assiologia, operazione necessaria perché il rispetto sacrale per l’altro sia generalizzato a tutti, porta ad esiti svalutanti: ognuno è sacro perché dotato di una “porta d’accesso incorporata” ad una dimensione eterna e perfetta, non perché è ciò che è.

Non c’è niente di personalmente sacro in nessuno.

Verrebbe quasi da dire, senza troppo stravolgere l’impianto teorico della Weil, che è solo la dimensione del vero e del bello ad essere sacra. Gli esseri umani lo sono solo per “contatto” con essa e perché sono da essa illuminati.

Nonostante queste criticità, la posizione appare piuttosto chiara: in ogni uomo è presente in potenza un possibile accesso a questa eterna dimensione sacralizzante, impersonale e perfetta, da cui tutte le arti e tutte le scienze traggono linfa.

Precisazione importante: ad ogni uomo singolo, mai ad alcuna collettività.

L’autrice approfitta di questa distinzione per affrontare en passant un tema allora di scottante attualità, quello del totalitarismo.

Il culto della collettività è forse più dannoso di quello dell’individuo, ma per Weil essi rappresentano due facce della stessa medaglia.

La Francia liberale dei suoi tempi è forse meglio del totalitarismo nazista, ma entrambi impediscono all’uomo l’accesso alla dimensione dell’impersonale.

Nel caso del totalitarismo ciò è dovuto all’assorbimento completo dell’individuo nella collettività, nel caso del liberalismo la causa è invece da ricercare nella retorica dello sviluppo massimo della persona. Essendo la persona per sua natura lontana dalla perfezione impersonale, anche il programma liberale è disfunzionale per il raggiungimento della piena sacralità umana.

L’autrice tuttavia nel proseguo della trattazione sembra parzialmente abbandonare questa prospettiva trascendente per dedicarsi a problematiche meno iperuraniche e più pragmatiche.

Fondamentale in quest’ottica diventa l’esperienza del male.

Il grido di dolore e sofferenza dell’uomo vittima di ingiustizia è parte costituente del suo essere, non può essere eliminato. La vittima può disconoscerlo, il carnefice può ignorarlo, l’intellettuale può renderlo teoria, il fine argomentatore può farsene beffa con acuti ragionamenti, ma esso permane forte e chiaro in ogni uomo.

Se i poveri e gli afflitti avessero le parole per esprimerlo, essi potrebbero compiutamente spiegare come si sentono. Ma proprio essi sono sprovvisti dei mezzi per dire ciò che sentono.

Gli artisti possono dare loro voce, ma mai compiutamente.

L’etica della Weil sotto questo aspetto si avvicina molto all’estetica di Dewey, che attribuisce all’arte lo scopo di addestrare le nostre percezioni e di dare al fruitore nuove modalità percettive.

In quest’ottica, questa sensazione atavica di sofferenza, questo grido intimo, può essere espresso solo da chi ha i mezzi giusti per articolarlo efficacemente.

Ma spesso chi ha i mezzi è il primo a sbeffeggiare e tiranneggiare il povero e l’afflitto.

Nonostante questa disparità intellettuale, è proprio il sofferente ad avere in sé una forza a lui sconosciuta: illuminante è l’esempio della Weil, che addita come caso emblematico quello di un pover’uomo ridotto al silenzio dall’eloquenza beffarda di un giudice colto e spregiudicato.

Niente potrà togliere a quell’uomo la dignità, perché la sua impotenza, la sua sensazione di maltrattamento è più forte della sua incapacità di articolarla, travalica la sua condizione e il suo talento perché non deriva dalla sua persona, ma da una dimensione superiore.

Altra punta di diamante della trattazione weiliana è la critica alla nozione di diritto.

Concetto di derivazione romana, riportato in auge dall’Illuminismo, esso è particolarmente indigesto per la filosofa francese, perché deturpa la morale asservendola a logiche di uso e consumo delle persone.

Essa è una legittimazione della forza e dell’abuso, mitigati dalla legge.

L’antica Grecia conosceva la giustizia, ma non il diritto. Ne è la prova l’Antigone di Sofocle, citata da Weil, che oppone al diritto di Creonte la pura, genuina giustizia.

Il Cristianesimo è alieno secondo Weil alla nozione di diritto. Fedele all’ideale della giustizia, esso non si fossilizza mai in asettiche contrattazioni e in formalizzazioni di astio e invidia, ma è sempre volto al sacro e al bene.

Una delle principali conseguenze dell’applicazione del diritto a questioni morali è visibile nelle lotte operaie, ridotte a lotte per maggiori salari.

Il grido di dolore dell’operaio sfruttato diventa una rivendicazione giuridica, una contrattazione: ironica e pungente è l’analogia tracciata dall’autrice con una contrattazione diabolica in cui il demonio vorrebbe comprare l’anima di un poveretto e un terzo uomo interviene, non per salvare il malcapitato, ma per aumentare il prezzo a cui vendere l’anima dello sventurato.

In questo modo il diritto soffoca il grido dell’uomo e lo trasforma in una rivendicazione sterile.

Alla contrapposizione tra etica e diritto fa eco quella tra genio e talento.

Aristotele può essere stato un uomo di grande talento, ma un qualsiasi idiota del villaggio (esempio dell’autrice) lo supera in genio, qualora e solo qualora fosse volto semplicemente alla verità.

Il talento nulla può per la pensatrice francese in confronto al puro genio: il genio penetra nella semplice verità senza alcuno schermo, è in costante contatto con la dimensione impersonale di cui sopra, ne è trasfigurato.

Gli uomini di talento sono l’obiettivo della rivoluzione del 1789, ma essi non solo non possono giungere al sacro, bensì sono anche d’ostacolo ad esso.

L’elogio dell’umiltà, definita compagna dell’amore per la verità, trasuda qui spirito evangelico.

Se non troviamo citati “Beati i poveri in spirito” o “gli ultimi saranno i primi” è solo perché sarebbe probabilmente fin troppo clichè.

Ma la critica di Weil ai “fini ragionatori di questo mondo” paolini e il suo elogio delle menti semplici e capaci di giungere al vero senza mediazioni (non casuale il riferimento a Platone) è fin troppo eloquente nel suo radicamento cattolico.

Mentre diritto e morale e genio e talento sono in dicotomia, tra sventura e verità c’è un forte legame di correlazione.

La sventura (provvida, manzonianamente) mostra all’uomo la sua prigionia, il suo essere lontano dal vero.

Il pensiero e il linguaggio niente possono nel raggiungere ciò che si può perfettamente comprendere ma non esprimere: un linguaggio impreciso è senz’altro misero e un linguaggio ricco è senz’altro preferibile, ma entrambi sono come vuoti ed inutili di fronte alla perfezione.

Esistono per la Weil diverse categorie di uomini.

Quelli che non sanno della loro prigionia e vivono nell’errore e nell’ignoranza.

Quelli che se ne avvedono e non fanno nulla, vivendo nella menzogna.

Quelli che sono colti dalla sventura e si avvedono della propria nullità, giungendo alla verità tramite la presa di coscienza della propria condizione.

Il passo è forse uno dei più fertili di tutto il saggio.

Interessante è la riflessione di Weil sul linguaggio, gabbia che intrappola l’uomo e ne impedisce la trascendenza. L’idea del linguaggio-prigione (prison-house theory of language) è stata effettivamente teorizzata da alcuni linguisti, ma la riflessione della Weil è di tutt’altro stampo.

Il linguaggio è una barriera perché vuole esprimere ciò che può essere colto solo per intuizione.

Bisogna arrendersi a questo fatto per giungere alla verità.

Solo pochi lo fanno, ed essi dovrebbero mostrare ad altri la via del bene.

Considerazioni simili le espresse anche Wittengstein e non stupisce infatti che uno dei più originali autori ad aver discusso recentemente il tema sia stato un traduttore di Wittengstein, Pierre Hadot.

Per tutti questi autori, ciò che è davvero importante va oltre il linguaggio.

Ma per Weil ciò è portato all’estremo: l’uomo di Weil, come quello di Pascal, vive in uno stato di instabilità perpetua e non se ne avvede se non quando la sventura lo mette violentemente di fronte all’evidenza.

La percezione della sofferenza è l’unica in grado di darci accesso al sacro nell’altro. Essa ci mette di fronte al dolore comune nostro e suo e ci permette di udirne il grido.

A questo dovrebbe servire la pena detentiva e anche, se necessaria quella capitale. Essa mostra al criminale il dolore che egli ha procurato all’altro, gli fa sentire il grido dell’altro facendolo gridare dentro in prima persona.

A questo serve la pena: a reintegrare il delinquente nella comunità degli agenti morali.

Conclusa la trattazione sulla giustizia e la pena, il discorso ritorna al linguaggio, parzialmente salvato dopo le dure stoccate precedenti.

Tuttavia, tale linguaggio dovrà essere purificato tramite la sostituzione di ognuno dei termini delle dicotomie sopra presentate con la sua versione impersonale.

Via parole come persona, democrazia e diritto. Al loro posto, ecco Dio, verità, giustizia, amore e bene.

Non nella loro versione edulcorata, ma intese come lo sono state in tutta la trattazione della Weil, come concetti in grado di aprire all’uomo la trascendenza.

I termini che la filosofa definisce “delle regioni mediane”, strette fra terra e cielo, non sono da abbandonare del tutto, ma da subordinare semanticamente all’impersonale e al suo linguaggio, senza il quale perdono di significato.

Ogni istituzione terrena è la proiezione di una celeste.

Nessuna contrapposizione tra città dell’uomo e città di Dio, ma neanche nessun millennarismo: la concezione della Weil, come quella di Maritain, è piuttosto volta alla creazione di una società secolare ispirata a norme trascendenti e religiose.

In conclusione, l’opera della Weil è ricca di spunti di riflessione: dalla religione all’etica, dalla teoria politica alla filosofia del diritto, ogni ambito toccato è affrontato con originalità e lucidità.

Non sempre scevra di pregiudizi, a tratti espressi con toni messianici, l’opera di quest’autrice non può prescindere dall’esperienza mistica dell’autrice.

Come per Pascal, la forza della sua riflessione emerge non tanto dalla funzione apologetica assegnata al discorso filosofico, quanto piuttosto a quelle umanissime intuizioni che riescono a brillare nonostante l’intento dichiaratamente e volutamente confessionale e “di parte”.

Probabilmente sarebbe impensabile una Simon Weil senza cristianesimo e il target più indicato di questo volumetto sarebbe forse l’intellettuale cattolico: riteniamo tuttavia che come molti grandi pensatori, anche la filosofa-operaia francese possa essere di ispirazione a molti, quantomeno per il suo inesauribile afflato etico, unico filo conduttore di tutta la sua riflessione.

Bibliografia:

Emmanuel Mounier, Il personalismo, AVE, Minima, 2004

John Dewey, Esperienza, natura ed arte, Mimesis, Minima/Volti, 2016

Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, Piccola Biblioteca Einaudi, 2010

Blaise Pascal, Pensieri, Torino, Einaudi, 1962

Jacques Maritain, Umanesimo integrale, Borla Editore, 2009