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L’acquisizione e la valutazione delle dichiarazioni del minore parte offesa di reati ad alto impatto traumatico

L’acquisizione e la valutazione delle dichiarazioni del minore parte offesa di reati ad alto impatto traumatico
L’acquisizione e la valutazione delle dichiarazioni del minore parte offesa di reati ad alto impatto traumatico

1. L’acquisizione delle dichiarazioni delle vittime vulnerabili minorenni

a. La problematicità delle prove dichiarative in generale: le trappole della memoria

Le prove dichiarative nel processo penale sono esposte a un rischio sempre latente, quello delle cosiddette “trappole della memoria”[1].

Gli individui tendono ad acquisire la conoscenza dei fatti attraverso percezioni sensoriali che vengono memorizzate e conservate per un periodo di tempo di durata variabile e possono poi essere richiamate attraverso un processo riproduttivo spontaneo o innescato da agenti esterni.

Ciascuno di questi momenti – la percezione, la memorizzazione, la riproduzione del ricordo – può subire interferenze e disturbi di vario genere.

La percezione può essere falsata da limiti degli organi sensoriali o dalle caratteristiche personali e dall’esperienza del percettore.

La memorizzazione viene ordinariamente compiuta secondo automatismi che dipendono a loro volta dal grado di attenzione e di coinvolgimento che il soggetto interessato riserva al fatto caduto nella sua percezione, dalle stesse caratteristiche di tale fatto e dagli schemi e concetti astratti di classificazione utilizzati nel processo mnemonico.

Anche la riproduzione del ricordo, infine, può essere inquinata in vario modo soprattutto se si tiene conto di alcune ricorrenti tendenze nel processo rievocativo di un fatto come, ad esempio, richiamare alla mente solo alcuni dei dati che lo hanno caratterizzato escludendo gli altri ovvero ricostruirlo non in modo genuino ma filtrato dalle esperienze di vita maturate nel periodo intercorso tra il fatto e il momento del ricordo.

Non solo: il processo di recupero delle informazioni memorizzate può essere influenzato secondo che il ricordo avvenga spontaneamente ovvero sia indotto o guidato come in effetti avviene nel caso del testimone.

È chiaro che in questo secondo caso il rischio di alterazione del ricordo aumenta per le possibili interferenze dovute al soggetto che sollecita la memoria o all’interazione tra questi e chi deve rievocare.

b. La problematicità specifica delle dichiarazioni del minore vittima di eventi traumatizzanti

I rischi aumentano in modo esponenziale quando nel profilo personale del dichiarante siano presenti due ulteriori caratterizzazioni: l’età minore – qui rilevante non tanto come dato formale quanto piuttosto come fatto significativo di un incompleto sviluppo psicofisico – e la soggezione ad eventi tali da comportare traumi nella sfera fisica ed emotiva delle vittime.

La considerazione appena svolta ha una sua intuitiva evidenza: è infatti un dato esperienziale generale che chi subisce uno choc o un trauma in tenera età può facilmente incorrere in uno o più di quei vizi della memoria elencati poc’anzi.

Questa percezione empirica trova solide conferme nel sapere scientifico.

Si legge, ad esempio, nelle linee guida della SINPIA (Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza) aggiornate nel 2007[2] che “…qualsiasi forma di violenza costituisce sempre un attacco confusivo e destabilizzante alla personalità in formazione di un bambino, provocando in molti casi gravi conseguenze a breve, medio e lungo termine sul processo di crescita specie nei casi in cui l’esperienza assume un carattere traumatico…”.

Nello stesso documento si raccomanda particolare attenzione alle dichiarazioni rese da bambini nel corso della fase evolutiva caratterizzata dalla cosiddetta amnesia infantile, espressione che indica l’assenza di ricordi riferiti ad un’età che va, approssimativamente, fino ai cinque anni ed è dovuta all’incompleta maturazione del sistema nervoso del minore.

Un altro fattore di cui tenere conto è la suggestionabilità che le citate linee guida definiscono come                  “il fenomeno per cui gli individui giungono ad accettare e successivamente ad incorporare informazioni post – evento all’interno del loro sistema mnestico. La maggiore suggestionabilità dei bambini può essere spiegata in base alle loro minori capacità mnestiche, al loro minore bagaglio di conoscenze, alle insufficienti abilità linguistiche e alla loro difficoltà nel distinguere la fonte delle informazioni ”.

A ciò si aggiunga che anche per i minori potrebbe accadere che le loro dichiarazioni siano dovute ad ipotesi alternative rispetto a quella del racconto della verità per come percepita.

Si legge infatti nelle citate linee guida che “Il consulente tecnico deve sempre tener presenti ed esplicitare tutte le eventuali ipotesi alternative che potrebbero spiegare gli esiti clinici comportamentali e le dichiarazioni testimoniali. Esse comprendono meccanismi consci ed intenzionali presenti nel/nella minore (bugie di fantasia, bugie innocenti o "pseudomenzogne", bugie deliberate), ed altri meccanismi di diversa natura (fraintendimento, suggestione o persuasione, esagerazione, distorsione psicotica della personalità, disturbo psicotico condiviso - folie à deux -, iperidealizzazione o alienazione di una figura genitoriale, sostituzione dell'abusante, dichiarazioni "a reticolo" - latticed allegations -, sindrome dei falsi ricordi).”.

2. Assetto normativo delle prove dichiarative

a. I principi costituzionali: giusto processo e formazione della prova in contraddittorio. L’inesistenza di deroghe ai principi ordinari allorchè le dichiarazioni d’accusa provengano da un minore

Le prime linee guida ad illuminare il percorso che si sta compiendo sono contenute nell’art. 111 Cost., cioè la norma che ha conferito rango costituzionale al cosiddetto giusto processo.

Il legislatore costituzionale ha disegnato un sistema compiuto nel quale il giusto processo è l’unico modo in cui l’ordinamento consente che si attui la giurisdizione.

Perché il processo sia giusto, occorre anzitutto che esso sia celebrato in contraddittorio tra parti poste in condizioni di parità che si fronteggiano dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale.

In particolare, per ciò che qui interessa, l’art. 111, recependo i principi contenuti nell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, assicura agli individui accusati di un reato la facoltà di interrogare o fare interrogare le persone che hanno reso dichiarazioni a loro carico. Tanta è l’importanza attribuita a questa prerogativa difensiva che nessun giudizio di colpevolezza può essere fondato su dichiarazioni rese da chi si sottragga volontariamente all’interrogatorio dell’accusato o del suo difensore.

La disposizione citata ammette infine, demandandone l’individuazione al legislatore ordinario, deroghe alla formazione della prova in contraddittorio nei soli casi in cui l’accusato abbia prestato il suo consenso ovvero ricorra un’impossibilità oggettiva o sia stata accertata una condotta illecita volta ad influire indebitamente sulla prova.

Nella visione costituzionale l’esigenza di protezione del diritto di difesa di chi subisce un’accusa penale non tollera deroghe che siano fondate sulla condizione personale e sui comportamenti dell’accusatore.

In altri termini, chi accusa – chiunque egli sia – è tenuto a dar conto di sé e delle sue dichiarazioni e non può in alcun modo sottrarsi al dibattito innescato dal confronto tra le opposte tesi dell’accusa e della difesa e dalle rispettive esigenze dimostrative.

Questo è il chiaro disposto dell’art. 111 Cost. e non esiste alcun’altra norma di rango pari o superiore che in qualche modo vi si contrapponga.

Tutt’altra questione è quella inerente le metodiche utilizzabili, per obbligo o semplice opportunità, quando appunto l’accusatore – o comunque la persona che rende dichiarazioni utilizzate in senso accusatorio – sia un minore, tanto più se ciò avviene nel contesto di procedimenti istruiti per particolari ipotesi di reato.

Si vedrà infatti che il legislatore ordinario ha avvertito in più occasioni l’esigenza di differenziare questo percorso dichiarativo dal tipo ordinario ed ha apprestato specifiche cautele.

Resta tuttavia il fatto che il nostro ordinamento penale, orientato com’è alla ricerca della verità e comunque dominato dal principio del contraddittorio, non accorda alcuna esenzione al minore che assuma la veste di dichiarante.

b. La normazione ordinaria: strumenti per fronteggiare la problematicità delle prove dichiarative in generale ed assicurarne la migliore valorizzazione

Il minore che conosca fatti rilevanti per l’accertamento della verità nel processo penale o che sia addirittura egli stesso parte offesa di tali reati deve dunque essere sentito come qualsiasi altra persona informata.

Il legislatore, di certo consapevole delle potenzialità critiche delle prove dichiarative, ha inteso porvi rimedio attraverso un consistente pacchetto di norme procedurali, tutte accomunate dalla loro finalizzazione alla creazione di filtri in grado di eliminare o quantomeno attenuare i rischi connessi a tali prove.

Questi filtri sono sia preventivi, cioè azionabili prima che la dichiarazione si manifesti e volti quindi ad impedire che essa si manifesti in modo distorto, che successivi, cioè azionabili dopo che la dichiarazione è stata resa e volti quindi ad evidenziare e rendere inoffensive le sue parti inquinate oppure a recuperare ciò che la dichiarazione ha omesso ed avrebbe dovuto invece contenere.

Si possono citare a questo riguardo, ed a solo scopo compilativo, le seguenti disposizioni codicistiche:

  • l’art. 188 il quale vieta, anche quando vi sia il consenso dell’interessato, l’uso di metodi o tecniche capaci di influire sulla libertà di determinazione del dichiarante o di alterare la sua capacità di ricordare e valutare i fatti;
  • l’art. 189 che, riferendosi alle prove non disciplinate dalla legge (le cosiddette prove atipiche), le ammette solo se non pregiudichino la libertà morale delle persone;
  • l’art. 192 che, riferendosi in generale al tema della valutazione della prova, sancisce la necessità che gli elementi indiziari siano gravi, precisi e concordanti, così estendendo queste aggettivazioni agli elementi di fatto da cui gli indizi sono desunti;
  • l’art. 194 il quale, precisando l’oggetto e i limiti della testimonianza, elenca una serie di prescrizioni che servono ad impedire dichiarazioni vaghe, generiche, incontrollabili, non pertinenti ai fatti oggetto di prova, fondate su apprezzamenti soggettivi;
  • l’art. 196 che conferisce ad ogni persona la capacità di testimoniare ma consente, a fini valutativi delle dichiarazioni rese, la verifica dell’idoneità fisica e mentale del dichiarante in relazione alla sua veste testimoniale;
  • l’art. 198 che obbliga il teste a dire la verità;
  • l’art. 207 che istituisce una specifica procedura azionabile allorchè il teste sia sospettato di falsità o reticenza;
  • l’art. 472 che impone il dibattimento a porte chiuse allorchè l’assunzione di una prova possa pregiudicare la riservatezza o la sicurezza del teste;
  • l’art. 497 che assoggetta i testimoni all’obbligo del giuramento ed alla conseguente assunzione di responsabilità;
  • l’art. 499 il quale prescrive che l’esame testimoniale sia condotto su fatti specifici ed eviti domande tali da nuocere alla sincerità delle risposte o domande suggestive ed attribuisce al presidente vaste facoltà allo scopo di tutelare il rispetto del dichiarante, la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni;
  • l’art. 500 il quale consente le contestazioni nell’esame testimoniale allorchè si profilino contraddizioni tra le dichiarazioni dibattimentali e quelle precedentemente rese e l’acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni istruttorie allorchè risulti che il teste sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o altra utilità perché non deponga o deponga il falso;
  • l’art. 504 che consente di formulare opposizioni nel corso dell’esame dei testimoni;
  • l’art. 506 che consente al presidente di intervenire nell’assunzione della prova testimoniale facendo egli stesso domande integrative rispetto a quelle delle parti.

A questo sintetico elenco vanno ovviamente aggiunte le norme del codice penale che sanzionano le varie fattispecie incriminatrici previste per i casi in cui le prove dichiarative non rispondano al dovuto canone di correttezza e verità per l’illecito comportamento dello stesso dichiarante o per l’influsso, altrettanto illecito, di forze esterne.

Si può allora affermare che il legislatore ha dotato l’ordinamento di un pacchetto di norme che, su un piano astratto, appaiono in grado di assicurare adeguati standard nell’assunzione e nel successivo utilizzo della prova dichiarativa.

Si potrebbe certo discutere se al piano astratto si accompagni anche quello sostanziale, se cioè le norme citate siano davvero in grado di preservare e valorizzare la capacità delle prove dichiarative di essere ciò che dovrebbero, cioè contributi reali alla conoscenza della verità, squarci di luce su spazi che altrimenti rimarrebbero bui.

E ci si potrebbe chiedere se abbia ancora un senso il peso preponderante, assolutamente centrale, che le dichiarazioni continuano ad avere nel processo penale e nel suo mosaico probatorio.

D’altro canto, è altrettanto vero che, pur in una civiltà così informatizzata e digitalizzata, gli esseri umani continuano - fortunatamente, è il caso di aggiungere - ad occupare il centro della scena e questo li rende protagonisti di ogni contesto sociale, ivi compreso il palcoscenico giudiziario. Si comprende così perché oggi come in passato nelle aule di giustizia non si può fare a meno delle parole, di chi le pronuncia, delle ragioni per cui le pronuncia. Perché, se così non fosse, tutte le alternative immaginabili sarebbero la negazione dell’umanesimo e questo non è certo un approdo auspicabile.

c. Vittime vulnerabili e testimonianze deboli: gli strumenti normativi per l’assistenza delle vittime vulnerabili

Gli accorgimenti e le tutele che ordinariamente accompagnano la prova dichiarativa sono destinati ad intensificarsi allorchè il dichiarante sia un minore di età ed abbia egli stesso subito il reato ed i suoi effetti diventandone in tal modo vittima e parte offesa.

Questa condizione inserisce di diritto il minore nell’area delle cosiddette vittime vulnerabili e porta a classificare il suo contributo dichiarativo come testimonianza debole.

Il nostro ordinamento interno non contiene alcuna esplicita definizione della vittima vulnerabile. Nondimeno l’espressione ed il senso che è corretto attribuirle possono essere desunti da molteplici fonti di diritto internazionale e da una specifica pronuncia della Corte costituzionale, precisamente la sentenza 63/2005.

È di particolare rilievo un passaggio motivazionale dei giudici della Consulta: “… Rendere testimonianza in un procedimento penale, nel contesto del contraddittorio, su fatti e circostanze legati all'intimità della persona e connessi a ipotesi di violenze subìte, è sempre esperienza difficile e psicologicamente pesante: se poi chi è chiamato a deporre è persona particolarmente vulnerabile, più di altre esposta ad influenze e a condizionamenti esterni, e meno in grado di controllare tale tipo di situazioni, può tradursi in un'esperienza fortemente traumatizzante e lesiva della personalità».

Nella visione della Corte la vulnerabilità della vittima è una condizione collegabile a plurime ragioni (età, sesso, condizioni psicofisiche ma anche la tipologia dei reati) la quale impone o suggerisce all’ordinamento la tutela, in varie forme e gradi, della fonte della prova dichiarativa.

Quanto alla testimonianza debole, è evidente a questo punto che essa consiste nella dichiarazione resa dalla vittima vulnerabile. È cioè una deposizione proveniente da un soggetto il quale, avendo per la sua particolare condizione di debolezza un più elevato rischio di subire traumi dal confronto dialettico dibattimentale, si vede per ciò stesso riconosciuto il diritto a misure protettive del suo equilibrio psicofisico. Ed è, al tempo stesso, un complesso dichiarativo che, proprio per le caratteristiche personali di chi lo rende, è più difficile da acquisire e valutare di quanto avvenga ordinariamente.

È bene adesso dare contezza delle varie norme cui il legislatore si è affidato per realizzare quel complesso sistema di tutele e di equilibri tra opposte esigenze cui si è accennato.

La fase delle indagini preliminari è quella in cui, ovviamente, si registra il primo contatto tra la parte offesa e il sistema giudiziario.

È un momento di straordinaria importanza i cui effetti, positivi o negativi che siano, sono destinati a durare nel tempo ben al di là del valore intrinseco che le dichiarazioni istruttorie ordinariamente hanno.

Si manifesta al riguardo un aspetto metagiuridico di notevolissimo rilievo, cioè lo standard di “accoglienza” che investigatori ed inquirenti riservano alla parte offesa dal quale, in un rapporto direttamente causale, dipende l’impressione che la vittima trae dall’accostamento al contesto che recepirà le sue dichiarazioni ma, ancor prima, la sua storia e gli eventi traumatici che l’hanno segnata.

È il momento in cui atteggiamenti non avveduti, privi della giusta sensibilità e manchevoli di professionalità possono causare o enfatizzare la cosiddetta vittimizzazione secondaria.

È tale, secondo la definizione che ne dà Giovanna FANCI[3], la “condizione di ulteriore sofferenza e oltraggio sperimentata dalla vittima in relazione ad un atteggiamento di insufficiente attenzione, o di negligenza, da parte delle agenzie di controllo formale nella fase del loro intervento e si manifesta nelle ulteriori conseguenze psicologiche negative che la vittima subisce.

Le forme di assistenza alle vittime vulnerabili apprestate dal nostro ordinamento sono per la verità piuttosto rarefatte e limitate a casi specifici.

Si possono citare al riguardo: l’art. 609 decies c.p. il quale prevede che i minori vittime di abusi sessuali siano, per così dire, accompagnati durante tutto il procedimento da persone deputate alla loro assistenza psicologica (genitori o personale specializzato dei servizi sociali); gli artt. 11 e 12 della Legge 38/2009 che introducono misure a sostegno delle vittime di stalking; gli artt. 18 del D. Lgs. 286/1988 e 2 della Legge 155/2005 che mirano alla protezione dello straniero esposto a violenza o sfruttamento ovvero che collabori con la giustizia.

Per il resto, l’esigenza di accoglienza di cui si diceva all’inizio del paragrafo e gli accorgimenti volti ad evitare la ripetizione di traumi nelle vittime vulnerabili sono per intero affidati alla buona volontà degli operatori da un lato ed alla diffusione progressiva di protocolli investigativi e linee guida  dall’altro.

d. La regolamentazione normativa per l’acquisizione delle dichiarazioni delle vittime vulnerabili nella fase delle indagini

L’acquisizione delle conoscenze delle vittime vulnerabili, e quindi delle loro dichiarazioni, è il passaggio immediatamente successivo e al tempo stesso lo scopo principale della loro “accoglienza” nel sistema giudiziario.

Si tratta quindi di un evento assai rilevante il quale impone l’uso di percorsi specifici e di cautele adatte alle peculiarità dell’atto e del suo protagonista.

Il nostro legislatore ha risposto a queste esigenze in modo piuttosto frammentario e lacunoso, spesso sulla scia di fonti normative sovranazionali e senza mai mostrare di possedere una visione ed un programma adeguati.

Le norme codicistiche su cui contare non sono molte.

Vengono anzitutto in rilievo gli artt. 351, 362 e 391 bis i quali prescrivono complessivamente che, quando la polizia giudiziaria, il PM o il difensore devono assumere informazioni da persone minori in procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù), 600 bis (prostituzione minorile), 600 ter (pornografia minorile), 600 quater (pornografia virtuale), 600 quater 1 (detenzione di materiale pornografico), 600 quinquies (iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile), 601 (tratta di persone), 602 (acquisto e alienazione di schiavi), 609 bis (violenza sessuale), 609 quater (atti sessuali con minori), 609 quinquies (corruzione di minori), 609 octies (violenza sessuale di gruppo) e 609 undecies (adescamento di minori) del codice penale, devono avvalersi dell'ausilio di un esperto in psicologia o in psichiatria infantile, nominato dal pubblico ministero.

e. Le cautele normative per la fase dibattimentale

I risultati acquisiti nella fase delle indagini sono fisiologicamente destinati a produrre frutti nella successiva fase dibattimentale.

Il legislatore codicistico si è quindi premurato che anche in questo momento processuale le specifiche esigenze legate alla presenza in processo di un minore parte offesa fossero adeguatamente soddisfatte sotto diversi profili.

Si spiega così, anzitutto, la previsione contenuta nell’art. 190 bis c.p.p. la quale prevede che, quando si procede per uno dei reati previsti dagli articoli 600 bis, primo comma, 600 ter, 600 quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all'articolo 600 quater.1, 600 quinquies, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies e 609 octies del codice penale, se l'esame richiesto riguarda un testimone minore degli anni sedici e questi ha già reso dichiarazioni in un incidente probatorio o in sede dibattimentale in contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate ovvero dichiarazioni i cui verbali sono stati acquisiti ai sensi dell’art. 238, l’esame è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze.

Va poi citato l’art. 472 il quale impone al giudice di celebrare il dibattimento a porte chiuse quando  la pubblicità possa nuocere al buon costume o causare pregiudizio alla riservatezza o sicurezza dei testimoni e quando la parte offesa è un minorenne e si procede per uno dei delitti previsti dagli articoli 600, 600 bis, 600 ter, 600 quinquies, 601, 602, 609 bis, 609 ter e 609 octies. In questi casi non sono peraltro ammesse domande sulla vita privata e sulla sessualità della persona offesa se non necessarie alla ricostruzione del fatto.

Di particolare rilievo è poi l’art. 498 il quale regola l’esame e il controesame dei testimoni.

Vi si stabilisce anzitutto, allo scopo di assicurare la dovuta sensibilità e di evitare trattamenti traumatici, che l’esame del minorenne sia condotto dal presidente su domande e contestazioni proposte dalle parti.

Al presidente è comunque concessa la facoltà di avvalersi, ove ne ravvisi l’opportunità, dell’aiuto di un familiare del minore o di un esperto in psicologia infantile.

Sono altresì applicabili, a richiesta di parte o anche d’ufficio, le speciali modalità previste dall’art. 398 comma 5° bis per l’incidente probatorio.

Infine, quando si procede per gli stessi reati indicati nell’art. 472 l’esame del minore parte offesa è condotto, a richiesta dello stesso interessato o del suo difensore, mediante l’uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico.

3. Linee guida e protocolli di comportamento

Le incertezze e le lacune legislative hanno indotto gli operatori, giudiziari e no, a dotarsi di strumenti ed a ricorrere a procedure e competenze che potessero ovviare all’assenza di chiari punti di riferimento.

Si spiega così il progressivo proliferare di linee guida e di protocolli pratici finalizzati ad orientare e, nei limiti del possibile, ad uniformare i comportamenti e le procedure da seguire allorchè si debba procedere all’ascolto di un minore vittima di reati ad alto impatto traumatico.

Tra le linee guida di maggiore diffusione e rilievo deve essere segnalata la cosiddetta Carta di Noto.

Il documento è nato dalla collaborazione interdisciplinare di un gruppo di magistrati, avvocati, docenti di materie penalistiche, psicologi, neuroscienziati cognitivi, psicologici giuridici, esperti in scienze forensi delle forze dell’ordine e neuropsichiatri infantili riunitisi a Noto nel giugno del 1996 e serve a raccogliere le linee guida per l’indagine e l’esame psicologico del minore che abbia subito un abuso sessuale.

Il contenuto di questo contributo è stato più volte aggiornato e la sua ultima stesura risale al giugno del 2011.

Lo scopo della Carta è di offrire suggerimenti diretti a garantire l’attendibilità dei risultati degli accertamenti tecnici e la genuinità delle dichiarazioni, assicurando nel contempo al minore la protezione psicologica, la tutela dei suoi diritti relazionali, nel rispetto dei principi costituzionali del giusto processo e degli strumenti del diritto internazionale.

Tra questi suggerimenti si ricordano quelli volti a: utilizzare metodologie e strumenti ripetibili ed accurati; formulare quesiti consulenziali o peritali che non implichino giudizi, definizioni o altri profili di competenza dell’autorità giudiziaria; utilizzare protocolli di intervista e metodiche ispirati alla letteratura scientifica e tali da adattarsi alle competenze cognitive, alla capacità di comprensione linguistica ed al livello di maturità psicoaffettiva del minore; videoregistrare le attività di acquisizione delle dichiarazioni e dei comportamenti del minore; differenziare il ruolo dell’esperto incaricato di valutare il minore a fini giudiziari da quello del soggetto chiamato al sostegno psicologico ed al trattamento del minore.

4. La valutazione delle dichiarazioni del minore

Le considerazioni fin qui svolte fanno comprendere la delicatezza cui è chiamato il giudice al quale spetta di valutare le dichiarazioni del minore parte offesa.

Si tratta infatti di attribuire un senso a narrazioni che provengono da individui che hanno sperimentato la sofferenza, che potrebbero esserne rimasti traumatizzati, che sono stati costretti a rievocare pubblicamente le loro esperienze e che lo hanno fatto con le difficoltà che tutti questi fattori possono avere causato.

L’operazione valutativa si presenta quindi come il passo finale di un percorso complesso e in più di un caso travagliato ed è essa stessa un’attività che richiede uno standard di attenzione ed accuratezza più elevato dell’ordinario.

La conferma più evidente di questa conclusione sta nel florilegio di indirizzi che la giurisprudenza di legittimità ha posto a disposizione dei pratici, quasi a volere accompagnare capillarmente un’opera non facile e non banale.

Il primo versante di impegno giurisprudenziale riguarda un tema generale.

Possono le dichiarazioni dei minori parti offese, con tutte le loro caratterizzazioni problematiche, essere poste a base di una decisione che, se di condanna, deve superare la soglia del ragionevole dubbio?

La risposta a questo quesito, sempre in termini generali, è ovvia.

I minori hanno, come qualsiasi altro individuo, la capacità di testimoniare e le loro dichiarazioni possono essere legittimamente poste a base di qualunque decisione, anche quando siano l’unico elemento accusatorio, non valendo nel nostro ordinamento l’antico principio romanistico dell’unus testis nullus testis.

L’unico accorgimento che in quest’ultimo caso è richiesto è che la valutazione di attendibilità sia particolarmente rigorosa, si estenda alla credibilità soggettiva ed oggettiva del dichiarante e superi positivamente il confronto con gli altri elementi messi in luce dalle indagini.

Ancora maggiore rigore è richiesto quando la parte offesa, maggiorenne o minorenne che sia, si sia costituito parte civile ed abbia quindi un personale interesse anche economico – patrimoniale all’esito del procedimento.

Un secondo filone di pronunce ammonisce a tenere in debita considerazione le circostanze esterne che possono avere influito sulle dichiarazioni, magari condizionandole.

Quando il teste è in età prepuberale la Cassazione fornisce esplicite indicazioni circa la necessità che la valutazione relativa alla  sua testimonianza sia effettuata anche prendendo  in esame gli esiti di accertamenti tecnici di natura psicologica sul minore.

Questi tuttavia non devono mai trasmodare in valutazioni giudiziali, ma devono limitarsi a valutare la capacità a testimoniare del minore e il suo stato psicologico ai fini delle successive valutazioni giudiziali sulla attendibilità. In particolare potranno essere analizzati la disponibilità alla suggestione ed alla affabulazione anche con specifico riferimento ad alcune relazioni personali qualificate,  alla presenza di stati psicologici influenti nella gestione della valutazione giudiziale, alla esistenza di stati traumatici, con espresso divieto della loro riconduzione ad eventi traumatici specifici.

In linea con la netta demarcazione delle competenze tra tecnici e magistrati si pone anche quella giurisprudenza della Corte di legittimità che stabilisce la non incidenza del mancato rispetto nell’ambito degli eventuali accertamenti tecnici disposti di linee guida condivise dagli esperti di settore.

Se il minore  è in età  adolescenziale la Cassazione evidenzia, peraltro, la  non  necessità del ricorso all’indagine psicologica se non emergano circostanze e particolari che inducano ad effettuarla nel caso concreto.

Problemi particolari si pongono quanto il teste di riferimento è un minore che potrebbe patire dalla audizione un  trauma significativo “da processo”.

La giurisprudenza di legittimità è in tal caso orientata a dare rilievo al trauma da testimonianza sempre che lo stesso possa essere inquadrato in un danno seppur transeunte alla salute e non in un mero disagio. Per la prova della critica situazione psichica del teste minore e gli effetti negativi della audizione testimoniale, la Cassazione fa espresso riferimento alla opportunità che la situazione psicologica  del teste minore sia  valutata da un esperto competente. 

Quando il teste minore chiamato a deporre si rifiuti di rispondere, la condizione per la utilizzabilità delle dichiarazioni de relato si ritiene comunque verificata: il teste diretto è stato infatti chiamato a deporre  come richiesto dalla norma ed a nulla rileva  ai fini della  utilizzabilità  delle testimonianze indirette che egli si sia rifiutato di rispondere.

Sul punto una significativa sentenza della Corte di Cassazione ha chiarito che le dichiarazioni de relato non sono indizi e come tali non devono essere valutate, ma sono comunque delle prove storiche rappresentative dei fatti narrati ed in particolare del fatto di cui i testi sono relatori mediati. 

Un’ulteriore questione è quella del procedimento incidentale regolato dall’art. 500 comma 4° c.p.p. e della ritrattazione.

La rilevanza delle dichiarazioni accusatorie provenienti dall’offeso e la sua naturale vulnerabilità, spesso riconducibile alla relazione di soggezione che lo lega all’imputato, rendono frequente il fenomeno della ritrattazione, sia in fase investigativa che in fase dibattimentale (come anche nel corso dell’incidente probatorio).

Se la ritrattazione si traduce nella rimessione di querela, ne consegue il difetto della condizione di procedibilità in relazione a tutti i reati non perseguibili d’ufficio.

Per questi ultimi si pone invece un serio problema di valutazione dell’attendibilità della testimonianza “modificata”, e la necessità di valutare l’eventuale ricorso alla acquisizione delle dichiarazioni assunte  nella fase investigativa ai sensi dell’art. 500 comma 4° c.p.p.

Quando la ritrattazione si verifica in dibattimento, è infatti onere del giudice la verifica delle cause del comportamento del testimone quando vi sia il dubbio che la testimonianza dibattimentale non sia frutto di una libera scelta, ma piuttosto di pressioni, intimidazioni o subornazione.

I processi con vittima vulnerabile – ed in particolare quelli per il resto di sfruttamento della prostituzione – sono spesso caratterizzati dalla acquisizione delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini che vengono lette in dibattimento ai sensi dell’art. 512 c.p.p.

Tale meccanismo di acquisizione delle dichiarazioni unilaterali può creare qualche problema di compatibilità con  le garanzie previste dalla Convenzione EDU in materia di diritto al processo equo.

L’art. 6 CEDU individua il  diritto di ogni persona accusata di esaminare o far esaminare i testimoni a carico e che gli elementi di prova siano prodotti in  pubblica udienza, in vista di un esame in  contraddittorio.

Tale regola non è tuttavia esente da eccezioni.

I paragrafi 1 e 3 d) dell’art. 6 CEDU impongono, come  ineludibile garanzia, di concedere all’imputato un’occasione adeguata e sufficiente per contestare una testimonianza a carico e di interrogarne l’autore, al momento delle sue prime deposizioni o successivamente. E’ quindi ritenuto compatibile con le soglie di garanzia individuate dall’art. 6 della Convenzione anche il ricorso a deposizioni rese nella fase delle indagini preliminari, se l’imputato ha avuto un’occasione adeguata e sufficiente di contestarle, al momento in cui sono state rese, o più tardi. 

La Corte di Strasburgo ritiene però – e questo presidio si presenta insuperabile – che i diritti della difesa siano compressi in maniera incompatibile con le garanzie previste dalla Convenzione quando una condanna si fonda, unicamente o in misura determinante, sulle deposizioni rese da una persona che l’imputato non ha potuto interrogare o far interrogare durante le indagini o successivamente

Nel nostro sistema, per contro, le condanne potrebbero in astratto fondarsi, anche in modo esclusivo, su dichiarazioni rilasciate in istruttoria e poi acquisite al fascicolo dibattimentale per l’impossibilità a di ripeterle, ai sensi dell’art. 512 c.p.p.

Questa possibilità crea uno standard di garanzia certamente inferiore a quello assicurato dall’art. 6 CEDU.

Della questione si è occupata ripetutamente la Corte di Cassazione che, con varie pronunce, ha provato ad eliminare questo squilibrio ponendo rilevanti oneri prognostici al PM (obbligandolo a valutare se il dichiarante sarà o meno reperibile nella successiva fase dibattimentale) e circoscrivendo l’acquisibilità dibattimentale ai soli casi di impossibilità oggettiva di ripetizione della dichiarazione resa in istruttoria.

Un’ulteriore e rilevante questione attiene alla possibilità di attribuire o meno un’attendibilità frazionate alle dichiarazioni della persona offesa vulnerabile. La giurisprudenza di legittimità mostra al riguardo notevoli incertezza oscillando tra la soluzione positiva e quella negativa.

5. Conclusioni

La materia della protezione giudiziaria dei minori che subiscono reati gravi e traumatici e della migliore valorizzazione possibile del loro sforzo narrativo e collaborativo con le istituzioni è tra quelle che determinano il grado di civiltà giuridica e sociale di un Paese.

Sarebbe ingeneroso affermare che il panorama nazionale sia disattento a questi temi.

Il legislatore ha messo in campo un complesso normativo e lo ha arricchito ed affinato progressivamente sebbene in modo non organico, non sempre perfettamente coerente e non sempre secondo una prospettiva d’insieme.

La magistratura e tutte le altre categorie di operatori sociali che sono muniti di competenze e di capacità professionali spendibili in questo settore hanno mostrato grande attenzione e voglia di misurarsi in modo attento con la complessità del tema. Ne è nato in tal modo un movimento variegato, multiculturale e multidisciplinare che è stato spesso in grado di ovviare alle lacune ed incertezze normative.

Può quindi complessivamente affermarsi che le istituzioni giudiziarie e no, il sapere scientifico, gli operatori di ogni livello appaiono in grado di dare risposte accettabili alla domanda di giustizia, spesso fioca o rauca o sgrammaticata, che proviene dai bambini e dai ragazzi che subiscono la violenza del crimine.

Il problema vero, stando alle statistiche ed ai dati disponibili, come ad esempio quelli di Terre des Hommes di cui si è parlato nell’introduzione, è che questa domanda di giustizia resta spesso muta, non ha la capacità di esprimersi e non trova quindi chi la ascolti e le dia risposta.

Nelle strade, nelle case, nei territori in cui viviamo, ogni giorno ci sono bambini e ragazzi che conoscono troppo presto e senza potersi difendere gli orchi e i mostri che insidiano il loro diritto alla felicità ed alla serenità.

È questo il terreno di impegno più forte per la comunità, è qui che si misura la sua capacità di essere accogliente e protettiva, è qui che uomini e istituzioni devono accentrare il loro impegno.

 

[1] L’espressione è di Raffaele GRECO, in “Prova testimoniale e fallacia della memoria”, Rivista della Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, 2006, n. 4, pag. 159 e ss.

[2] Le linee guida della SINPIA sono consultabili sul sito www.sinpia.eu.

[3] G. FANCI: La vittimizzazione secondaria: ambiti di ricerca, teorizzazione e scenari. Rivista di criminologia, vittimologia e sicurezza, volume V, n. 3, settembre/dicembre 2011.

1. L’acquisizione delle dichiarazioni delle vittime vulnerabili minorenni

a. La problematicità delle prove dichiarative in generale: le trappole della memoria

Le prove dichiarative nel processo penale sono esposte a un rischio sempre latente, quello delle cosiddette “trappole della memoria”[1].

Gli individui tendono ad acquisire la conoscenza dei fatti attraverso percezioni sensoriali che vengono memorizzate e conservate per un periodo di tempo di durata variabile e possono poi essere richiamate attraverso un processo riproduttivo spontaneo o innescato da agenti esterni.

Ciascuno di questi momenti – la percezione, la memorizzazione, la riproduzione del ricordo – può subire interferenze e disturbi di vario genere.

La percezione può essere falsata da limiti degli organi sensoriali o dalle caratteristiche personali e dall’esperienza del percettore.

La memorizzazione viene ordinariamente compiuta secondo automatismi che dipendono a loro volta dal grado di attenzione e di coinvolgimento che il soggetto interessato riserva al fatto caduto nella sua percezione, dalle stesse caratteristiche di tale fatto e dagli schemi e concetti astratti di classificazione utilizzati nel processo mnemonico.

Anche la riproduzione del ricordo, infine, può essere inquinata in vario modo soprattutto se si tiene conto di alcune ricorrenti tendenze nel processo rievocativo di un fatto come, ad esempio, richiamare alla mente solo alcuni dei dati che lo hanno caratterizzato escludendo gli altri ovvero ricostruirlo non in modo genuino ma filtrato dalle esperienze di vita maturate nel periodo intercorso tra il fatto e il momento del ricordo.

Non solo: il processo di recupero delle informazioni memorizzate può essere influenzato secondo che il ricordo avvenga spontaneamente ovvero sia indotto o guidato come in effetti avviene nel caso del testimone.

È chiaro che in questo secondo caso il rischio di alterazione del ricordo aumenta per le possibili interferenze dovute al soggetto che sollecita la memoria o all’interazione tra questi e chi deve rievocare.

b. La problematicità specifica delle dichiarazioni del minore vittima di eventi traumatizzanti

I rischi aumentano in modo esponenziale quando nel profilo personale del dichiarante siano presenti due ulteriori caratterizzazioni: l’età minore – qui rilevante non tanto come dato formale quanto piuttosto come fatto significativo di un incompleto sviluppo psicofisico – e la soggezione ad eventi tali da comportare traumi nella sfera fisica ed emotiva delle vittime.

La considerazione appena svolta ha una sua intuitiva evidenza: è infatti un dato esperienziale generale che chi subisce uno choc o un trauma in tenera età può facilmente incorrere in uno o più di quei vizi della memoria elencati poc’anzi.

Questa percezione empirica trova solide conferme nel sapere scientifico.

Si legge, ad esempio, nelle linee guida della SINPIA (Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza) aggiornate nel 2007[2] che “…qualsiasi forma di violenza costituisce sempre un attacco confusivo e destabilizzante alla personalità in formazione di un bambino, provocando in molti casi gravi conseguenze a breve, medio e lungo termine sul processo di crescita specie nei casi in cui l’esperienza assume un carattere traumatico…”.

Nello stesso documento si raccomanda particolare attenzione alle dichiarazioni rese da bambini nel corso della fase evolutiva caratterizzata dalla cosiddetta amnesia infantile, espressione che indica l’assenza di ricordi riferiti ad un’età che va, approssimativamente, fino ai cinque anni ed è dovuta all’incompleta maturazione del sistema nervoso del minore.

Un altro fattore di cui tenere conto è la suggestionabilità che le citate linee guida definiscono come                  “il fenomeno per cui gli individui giungono ad accettare e successivamente ad incorporare informazioni post – evento all’interno del loro sistema mnestico. La maggiore suggestionabilità dei bambini può essere spiegata in base alle loro minori capacità mnestiche, al loro minore bagaglio di conoscenze, alle insufficienti abilità linguistiche e alla loro difficoltà nel distinguere la fonte delle informazioni ”.

A ciò si aggiunga che anche per i minori potrebbe accadere che le loro dichiarazioni siano dovute ad ipotesi alternative rispetto a quella del racconto della verità per come percepita.

Si legge infatti nelle citate linee guida che “Il consulente tecnico deve sempre tener presenti ed esplicitare tutte le eventuali ipotesi alternative che potrebbero spiegare gli esiti clinici comportamentali e le dichiarazioni testimoniali. Esse comprendono meccanismi consci ed intenzionali presenti nel/nella minore (bugie di fantasia, bugie innocenti o "pseudomenzogne", bugie deliberate), ed altri meccanismi di diversa natura (fraintendimento, suggestione o persuasione, esagerazione, distorsione psicotica della personalità, disturbo psicotico condiviso - folie à deux -, iperidealizzazione o alienazione di una figura genitoriale, sostituzione dell'abusante, dichiarazioni "a reticolo" - latticed allegations -, sindrome dei falsi ricordi).”.

2. Assetto normativo delle prove dichiarative

a. I principi costituzionali: giusto processo e formazione della prova in contraddittorio. L’inesistenza di deroghe ai principi ordinari allorchè le dichiarazioni d’accusa provengano da un minore

Le prime linee guida ad illuminare il percorso che si sta compiendo sono contenute nell’art. 111 Cost., cioè la norma che ha conferito rango costituzionale al cosiddetto giusto processo.

Il legislatore costituzionale ha disegnato un sistema compiuto nel quale il giusto processo è l’unico modo in cui l’ordinamento consente che si attui la giurisdizione.

Perché il processo sia giusto, occorre anzitutto che esso sia celebrato in contraddittorio tra parti poste in condizioni di parità che si fronteggiano dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale.

In particolare, per ciò che qui interessa, l’art. 111, recependo i principi contenuti nell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, assicura agli individui accusati di un reato la facoltà di interrogare o fare interrogare le persone che hanno reso dichiarazioni a loro carico. Tanta è l’importanza attribuita a questa prerogativa difensiva che nessun giudizio di colpevolezza può essere fondato su dichiarazioni rese da chi si sottragga volontariamente all’interrogatorio dell’accusato o del suo difensore.

La disposizione citata ammette infine, demandandone l’individuazione al legislatore ordinario, deroghe alla formazione della prova in contraddittorio nei soli casi in cui l’accusato abbia prestato il suo consenso ovvero ricorra un’impossibilità oggettiva o sia stata accertata una condotta illecita volta ad influire indebitamente sulla prova.

Nella visione costituzionale l’esigenza di protezione del diritto di difesa di chi subisce un’accusa penale non tollera deroghe che siano fondate sulla condizione personale e sui comportamenti dell’accusatore.

In altri termini, chi accusa – chiunque egli sia – è tenuto a dar conto di sé e delle sue dichiarazioni e non può in alcun modo sottrarsi al dibattito innescato dal confronto tra le opposte tesi dell’accusa e della difesa e dalle rispettive esigenze dimostrative.

Questo è il chiaro disposto dell’art. 111 Cost. e non esiste alcun’altra norma di rango pari o superiore che in qualche modo vi si contrapponga.

Tutt’altra questione è quella inerente le metodiche utilizzabili, per obbligo o semplice opportunità, quando appunto l’accusatore – o comunque la persona che rende dichiarazioni utilizzate in senso accusatorio – sia un minore, tanto più se ciò avviene nel contesto di procedimenti istruiti per particolari ipotesi di reato.

Si vedrà infatti che il legislatore ordinario ha avvertito in più occasioni l’esigenza di differenziare questo percorso dichiarativo dal tipo ordinario ed ha apprestato specifiche cautele.

Resta tuttavia il fatto che il nostro ordinamento penale, orientato com’è alla ricerca della verità e comunque dominato dal principio del contraddittorio, non accorda alcuna esenzione al minore che assuma la veste di dichiarante.

b. La normazione ordinaria: strumenti per fronteggiare la problematicità delle prove dichiarative in generale ed assicurarne la migliore valorizzazione

Il minore che conosca fatti rilevanti per l’accertamento della verità nel processo penale o che sia addirittura egli stesso parte offesa di tali reati deve dunque essere sentito come qualsiasi altra persona informata.

Il legislatore, di certo consapevole delle potenzialità critiche delle prove dichiarative, ha inteso porvi rimedio attraverso un consistente pacchetto di norme procedurali, tutte accomunate dalla loro finalizzazione alla creazione di filtri in grado di eliminare o quantomeno attenuare i rischi connessi a tali prove.

Questi filtri sono sia preventivi, cioè azionabili prima che la dichiarazione si manifesti e volti quindi ad impedire che essa si manifesti in modo distorto, che successivi, cioè azionabili dopo che la dichiarazione è stata resa e volti quindi ad evidenziare e rendere inoffensive le sue parti inquinate oppure a recuperare ciò che la dichiarazione ha omesso ed avrebbe dovuto invece contenere.

Si possono citare a questo riguardo, ed a solo scopo compilativo, le seguenti disposizioni codicistiche:

  • l’art. 188 il quale vieta, anche quando vi sia il consenso dell’interessato, l’uso di metodi o tecniche capaci di influire sulla libertà di determinazione del dichiarante o di alterare la sua capacità di ricordare e valutare i fatti;
  • l’art. 189 che, riferendosi alle prove non disciplinate dalla legge (le cosiddette prove atipiche), le ammette solo se non pregiudichino la libertà morale delle persone;
  • l’art. 192 che, riferendosi in generale al tema della valutazione della prova, sancisce la necessità che gli elementi indiziari siano gravi, precisi e concordanti, così estendendo queste aggettivazioni agli elementi di fatto da cui gli indizi sono desunti;
  • l’art. 194 il quale, precisando l’oggetto e i limiti della testimonianza, elenca una serie di prescrizioni che servono ad impedire dichiarazioni vaghe, generiche, incontrollabili, non pertinenti ai fatti oggetto di prova, fondate su apprezzamenti soggettivi;
  • l’art. 196 che conferisce ad ogni persona la capacità di testimoniare ma consente, a fini valutativi delle dichiarazioni rese, la verifica dell’idoneità fisica e mentale del dichiarante in relazione alla sua veste testimoniale;
  • l’art. 198 che obbliga il teste a dire la verità;
  • l’art. 207 che istituisce una specifica procedura azionabile allorchè il teste sia sospettato di falsità o reticenza;
  • l’art. 472 che impone il dibattimento a porte chiuse allorchè l’assunzione di una prova possa pregiudicare la riservatezza o la sicurezza del teste;
  • l’art. 497 che assoggetta i testimoni all’obbligo del giuramento ed alla conseguente assunzione di responsabilità;
  • l’art. 499 il quale prescrive che l’esame testimoniale sia condotto su fatti specifici ed eviti domande tali da nuocere alla sincerità delle risposte o domande suggestive ed attribuisce al presidente vaste facoltà allo scopo di tutelare il rispetto del dichiarante, la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni;
  • l’art. 500 il quale consente le contestazioni nell’esame testimoniale allorchè si profilino contraddizioni tra le dichiarazioni dibattimentali e quelle precedentemente rese e l’acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni istruttorie allorchè risulti che il teste sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o altra utilità perché non deponga o deponga il falso;
  • l’art. 504 che consente di formulare opposizioni nel corso dell’esame dei testimoni;
  • l’art. 506 che consente al presidente di intervenire nell’assunzione della prova testimoniale facendo egli stesso domande integrative rispetto a quelle delle parti.

A questo sintetico elenco vanno ovviamente aggiunte le norme del codice penale che sanzionano le varie fattispecie incriminatrici previste per i casi in cui le prove dichiarative non rispondano al dovuto canone di correttezza e verità per l’illecito comportamento dello stesso dichiarante o per l’influsso, altrettanto illecito, di forze esterne.

Si può allora affermare che il legislatore ha dotato l’ordinamento di un pacchetto di norme che, su un piano astratto, appaiono in grado di assicurare adeguati standard nell’assunzione e nel successivo utilizzo della prova dichiarativa.

Si potrebbe certo discutere se al piano astratto si accompagni anche quello sostanziale, se cioè le norme citate siano davvero in grado di preservare e valorizzare la capacità delle prove dichiarative di essere ciò che dovrebbero, cioè contributi reali alla conoscenza della verità, squarci di luce su spazi che altrimenti rimarrebbero bui.

E ci si potrebbe chiedere se abbia ancora un senso il peso preponderante, assolutamente centrale, che le dichiarazioni continuano ad avere nel processo penale e nel suo mosaico probatorio.

D’altro canto, è altrettanto vero che, pur in una civiltà così informatizzata e digitalizzata, gli esseri umani continuano - fortunatamente, è il caso di aggiungere - ad occupare il centro della scena e questo li rende protagonisti di ogni contesto sociale, ivi compreso il palcoscenico giudiziario. Si comprende così perché oggi come in passato nelle aule di giustizia non si può fare a meno delle parole, di chi le pronuncia, delle ragioni per cui le pronuncia. Perché, se così non fosse, tutte le alternative immaginabili sarebbero la negazione dell’umanesimo e questo non è certo un approdo auspicabile.

c. Vittime vulnerabili e testimonianze deboli: gli strumenti normativi per l’assistenza delle vittime vulnerabili

Gli accorgimenti e le tutele che ordinariamente accompagnano la prova dichiarativa sono destinati ad intensificarsi allorchè il dichiarante sia un minore di età ed abbia egli stesso subito il reato ed i suoi effetti diventandone in tal modo vittima e parte offesa.

Questa condizione inserisce di diritto il minore nell’area delle cosiddette vittime vulnerabili e porta a classificare il suo contributo dichiarativo come testimonianza debole.

Il nostro ordinamento interno non contiene alcuna esplicita definizione della vittima vulnerabile. Nondimeno l’espressione ed il senso che è corretto attribuirle possono essere desunti da molteplici fonti di diritto internazionale e da una specifica pronuncia della Corte costituzionale, precisamente la sentenza 63/2005.

È di particolare rilievo un passaggio motivazionale dei giudici della Consulta: “… Rendere testimonianza in un procedimento penale, nel contesto del contraddittorio, su fatti e circostanze legati all'intimità della persona e connessi a ipotesi di violenze subìte, è sempre esperienza difficile e psicologicamente pesante: se poi chi è chiamato a deporre è persona particolarmente vulnerabile, più di altre esposta ad influenze e a condizionamenti esterni, e meno in grado di controllare tale tipo di situazioni, può tradursi in un'esperienza fortemente traumatizzante e lesiva della personalità».

Nella visione della Corte la vulnerabilità della vittima è una condizione collegabile a plurime ragioni (età, sesso, condizioni psicofisiche ma anche la tipologia dei reati) la quale impone o suggerisce all’ordinamento la tutela, in varie forme e gradi, della fonte della prova dichiarativa.

Quanto alla testimonianza debole, è evidente a questo punto che essa consiste nella dichiarazione resa dalla vittima vulnerabile. È cioè una deposizione proveniente da un soggetto il quale, avendo per la sua particolare condizione di debolezza un più elevato rischio di subire traumi dal confronto dialettico dibattimentale, si vede per ciò stesso riconosciuto il diritto a misure protettive del suo equilibrio psicofisico. Ed è, al tempo stesso, un complesso dichiarativo che, proprio per le caratteristiche personali di chi lo rende, è più difficile da acquisire e valutare di quanto avvenga ordinariamente.

È bene adesso dare contezza delle varie norme cui il legislatore si è affidato per realizzare quel complesso sistema di tutele e di equilibri tra opposte esigenze cui si è accennato.

La fase delle indagini preliminari è quella in cui, ovviamente, si registra il primo contatto tra la parte offesa e il sistema giudiziario.

È un momento di straordinaria importanza i cui effetti, positivi o negativi che siano, sono destinati a durare nel tempo ben al di là del valore intrinseco che le dichiarazioni istruttorie ordinariamente hanno.

Si manifesta al riguardo un aspetto metagiuridico di notevolissimo rilievo, cioè lo standard di “accoglienza” che investigatori ed inquirenti riservano alla parte offesa dal quale, in un rapporto direttamente causale, dipende l’impressione che la vittima trae dall’accostamento al contesto che recepirà le sue dichiarazioni ma, ancor prima, la sua storia e gli eventi traumatici che l’hanno segnata.

È il momento in cui atteggiamenti non avveduti, privi della giusta sensibilità e manchevoli di professionalità possono causare o enfatizzare la cosiddetta vittimizzazione secondaria.

È tale, secondo la definizione che ne dà Giovanna FANCI[3], la “condizione di ulteriore sofferenza e oltraggio sperimentata dalla vittima in relazione ad un atteggiamento di insufficiente attenzione, o di negligenza, da parte delle agenzie di controllo formale nella fase del loro intervento e si manifesta nelle ulteriori conseguenze psicologiche negative che la vittima subisce.

Le forme di assistenza alle vittime vulnerabili apprestate dal nostro ordinamento sono per la verità piuttosto rarefatte e limitate a casi specifici.

Si possono citare al riguardo: l’art. 609 decies c.p. il quale prevede che i minori vittime di abusi sessuali siano, per così dire, accompagnati durante tutto il procedimento da persone deputate alla loro assistenza psicologica (genitori o personale specializzato dei servizi sociali); gli artt. 11 e 12 della Legge 38/2009 che introducono misure a sostegno delle vittime di stalking; gli artt. 18 del D. Lgs. 286/1988 e 2 della Legge 155/2005 che mirano alla protezione dello straniero esposto a violenza o sfruttamento ovvero che collabori con la giustizia.

Per il resto, l’esigenza di accoglienza di cui si diceva all’inizio del paragrafo e gli accorgimenti volti ad evitare la ripetizione di traumi nelle vittime vulnerabili sono per intero affidati alla buona volontà degli operatori da un lato ed alla diffusione progressiva di protocolli investigativi e linee guida  dall’altro.

d. La regolamentazione normativa per l’acquisizione delle dichiarazioni delle vittime vulnerabili nella fase delle indagini

L’acquisizione delle conoscenze delle vittime vulnerabili, e quindi delle loro dichiarazioni, è il passaggio immediatamente successivo e al tempo stesso lo scopo principale della loro “accoglienza” nel sistema giudiziario.

Si tratta quindi di un evento assai rilevante il quale impone l’uso di percorsi specifici e di cautele adatte alle peculiarità dell’atto e del suo protagonista.

Il nostro legislatore ha risposto a queste esigenze in modo piuttosto frammentario e lacunoso, spesso sulla scia di fonti normative sovranazionali e senza mai mostrare di possedere una visione ed un programma adeguati.

Le norme codicistiche su cui contare non sono molte.

Vengono anzitutto in rilievo gli artt. 351, 362 e 391 bis i quali prescrivono complessivamente che, quando la polizia giudiziaria, il PM o il difensore devono assumere informazioni da persone minori in procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù), 600 bis (prostituzione minorile), 600 ter (pornografia minorile), 600 quater (pornografia virtuale), 600 quater 1 (detenzione di materiale pornografico), 600 quinquies (iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile), 601 (tratta di persone), 602 (acquisto e alienazione di schiavi), 609 bis (violenza sessuale), 609 quater (atti sessuali con minori), 609 quinquies (corruzione di minori), 609 octies (violenza sessuale di gruppo) e 609 undecies (adescamento di minori) del codice penale, devono avvalersi dell'ausilio di un esperto in psicologia o in psichiatria infantile, nominato dal pubblico ministero.

e. Le cautele normative per la fase dibattimentale

I risultati acquisiti nella fase delle indagini sono fisiologicamente destinati a produrre frutti nella successiva fase dibattimentale.

Il legislatore codicistico si è quindi premurato che anche in questo momento processuale le specifiche esigenze legate alla presenza in processo di un minore parte offesa fossero adeguatamente soddisfatte sotto diversi profili.

Si spiega così, anzitutto, la previsione contenuta nell’art. 190 bis c.p.p. la quale prevede che, quando si procede per uno dei reati previsti dagli articoli 600 bis, primo comma, 600 ter, 600 quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all'articolo 600 quater.1, 600 quinquies, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies e 609 octies del codice penale, se l'esame richiesto riguarda un testimone minore degli anni sedici e questi ha già reso dichiarazioni in un incidente probatorio o in sede dibattimentale in contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate ovvero dichiarazioni i cui verbali sono stati acquisiti ai sensi dell’art. 238, l’esame è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze.

Va poi citato l’art. 472 il quale impone al giudice di celebrare il dibattimento a porte chiuse quando  la pubblicità possa nuocere al buon costume o causare pregiudizio alla riservatezza o sicurezza dei testimoni e quando la parte offesa è un minorenne e si procede per uno dei delitti previsti dagli articoli 600, 600 bis, 600 ter, 600 quinquies, 601, 602, 609 bis, 609 ter e 609 octies. In questi casi non sono peraltro ammesse domande sulla vita privata e sulla sessualità della persona offesa se non necessarie alla ricostruzione del fatto.

Di particolare rilievo è poi l’art. 498 il quale regola l’esame e il controesame dei testimoni.

Vi si stabilisce anzitutto, allo scopo di assicurare la dovuta sensibilità e di evitare trattamenti traumatici, che l’esame del minorenne sia condotto dal presidente su domande e contestazioni proposte dalle parti.

Al presidente è comunque concessa la facoltà di avvalersi, ove ne ravvisi l’opportunità, dell’aiuto di un familiare del minore o di un esperto in psicologia infantile.

Sono altresì applicabili, a richiesta di parte o anche d’ufficio, le speciali modalità previste dall’art. 398 comma 5° bis per l’incidente probatorio.

Infine, quando si procede per gli stessi reati indicati nell’art. 472 l’esame del minore parte offesa è condotto, a richiesta dello stesso interessato o del suo difensore, mediante l’uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico.

3. Linee guida e protocolli di comportamento

Le incertezze e le lacune legislative hanno indotto gli operatori, giudiziari e no, a dotarsi di strumenti ed a ricorrere a procedure e competenze che potessero ovviare all’assenza di chiari punti di riferimento.

Si spiega così il progressivo proliferare di linee guida e di protocolli pratici finalizzati ad orientare e, nei limiti del possibile, ad uniformare i comportamenti e le procedure da seguire allorchè si debba procedere all’ascolto di un minore vittima di reati ad alto impatto traumatico.

Tra le linee guida di maggiore diffusione e rilievo deve essere segnalata la cosiddetta Carta di Noto.

Il documento è nato dalla collaborazione interdisciplinare di un gruppo di magistrati, avvocati, docenti di materie penalistiche, psicologi, neuroscienziati cognitivi, psicologici giuridici, esperti in scienze forensi delle forze dell’ordine e neuropsichiatri infantili riunitisi a Noto nel giugno del 1996 e serve a raccogliere le linee guida per l’indagine e l’esame psicologico del minore che abbia subito un abuso sessuale.

Il contenuto di questo contributo è stato più volte aggiornato e la sua ultima stesura risale al giugno del 2011.

Lo scopo della Carta è di offrire suggerimenti diretti a garantire l’attendibilità dei risultati degli accertamenti tecnici e la genuinità delle dichiarazioni, assicurando nel contempo al minore la protezione psicologica, la tutela dei suoi diritti relazionali, nel rispetto dei principi costituzionali del giusto processo e degli strumenti del diritto internazionale.

Tra questi suggerimenti si ricordano quelli volti a: utilizzare metodologie e strumenti ripetibili ed accurati; formulare quesiti consulenziali o peritali che non implichino giudizi, definizioni o altri profili di competenza dell’autorità giudiziaria; utilizzare protocolli di intervista e metodiche ispirati alla letteratura scientifica e tali da adattarsi alle competenze cognitive, alla capacità di comprensione linguistica ed al livello di maturità psicoaffettiva del minore; videoregistrare le attività di acquisizione delle dichiarazioni e dei comportamenti del minore; differenziare il ruolo dell’esperto incaricato di valutare il minore a fini giudiziari da quello del soggetto chiamato al sostegno psicologico ed al trattamento del minore.

4. La valutazione delle dichiarazioni del minore

Le considerazioni fin qui svolte fanno comprendere la delicatezza cui è chiamato il giudice al quale spetta di valutare le dichiarazioni del minore parte offesa.

Si tratta infatti di attribuire un senso a narrazioni che provengono da individui che hanno sperimentato la sofferenza, che potrebbero esserne rimasti traumatizzati, che sono stati costretti a rievocare pubblicamente le loro esperienze e che lo hanno fatto con le difficoltà che tutti questi fattori possono avere causato.

L’operazione valutativa si presenta quindi come il passo finale di un percorso complesso e in più di un caso travagliato ed è essa stessa un’attività che richiede uno standard di attenzione ed accuratezza più elevato dell’ordinario.

La conferma più evidente di questa conclusione sta nel florilegio di indirizzi che la giurisprudenza di legittimità ha posto a disposizione dei pratici, quasi a volere accompagnare capillarmente un’opera non facile e non banale.

Il primo versante di impegno giurisprudenziale riguarda un tema generale.

Possono le dichiarazioni dei minori parti offese, con tutte le loro caratterizzazioni problematiche, essere poste a base di una decisione che, se di condanna, deve superare la soglia del ragionevole dubbio?

La risposta a questo quesito, sempre in termini generali, è ovvia.

I minori hanno, come qualsiasi altro individuo, la capacità di testimoniare e le loro dichiarazioni possono essere legittimamente poste a base di qualunque decisione, anche quando siano l’unico elemento accusatorio, non valendo nel nostro ordinamento l’antico principio romanistico dell’unus testis nullus testis.

L’unico accorgimento che in quest’ultimo caso è richiesto è che la valutazione di attendibilità sia particolarmente rigorosa, si estenda alla credibilità soggettiva ed oggettiva del dichiarante e superi positivamente il confronto con gli altri elementi messi in luce dalle indagini.

Ancora maggiore rigore è richiesto quando la parte offesa, maggiorenne o minorenne che sia, si sia costituito parte civile ed abbia quindi un personale interesse anche economico – patrimoniale all’esito del procedimento.

Un secondo filone di pronunce ammonisce a tenere in debita considerazione le circostanze esterne che possono avere influito sulle dichiarazioni, magari condizionandole.

Quando il teste è in età prepuberale la Cassazione fornisce esplicite indicazioni circa la necessità che la valutazione relativa alla  sua testimonianza sia effettuata anche prendendo  in esame gli esiti di accertamenti tecnici di natura psicologica sul minore.

Questi tuttavia non devono mai trasmodare in valutazioni giudiziali, ma devono limitarsi a valutare la capacità a testimoniare del minore e il suo stato psicologico ai fini delle successive valutazioni giudiziali sulla attendibilità. In particolare potranno essere analizzati la disponibilità alla suggestione ed alla affabulazione anche con specifico riferimento ad alcune relazioni personali qualificate,  alla presenza di stati psicologici influenti nella gestione della valutazione giudiziale, alla esistenza di stati traumatici, con espresso divieto della loro riconduzione ad eventi traumatici specifici.

In linea con la netta demarcazione delle competenze tra tecnici e magistrati si pone anche quella giurisprudenza della Corte di legittimità che stabilisce la non incidenza del mancato rispetto nell’ambito degli eventuali accertamenti tecnici disposti di linee guida condivise dagli esperti di settore.

Se il minore  è in età  adolescenziale la Cassazione evidenzia, peraltro, la  non  necessità del ricorso all’indagine psicologica se non emergano circostanze e particolari che inducano ad effettuarla nel caso concreto.

Problemi particolari si pongono quanto il teste di riferimento è un minore che potrebbe patire dalla audizione un  trauma significativo “da processo”.

La giurisprudenza di legittimità è in tal caso orientata a dare rilievo al trauma da testimonianza sempre che lo stesso possa essere inquadrato in un danno seppur transeunte alla salute e non in un mero disagio. Per la prova della critica situazione psichica del teste minore e gli effetti negativi della audizione testimoniale, la Cassazione fa espresso riferimento alla opportunità che la situazione psicologica  del teste minore sia  valutata da un esperto competente. 

Quando il teste minore chiamato a deporre si rifiuti di rispondere, la condizione per la utilizzabilità delle dichiarazioni de relato si ritiene comunque verificata: il teste diretto è stato infatti chiamato a deporre  come richiesto dalla norma ed a nulla rileva  ai fini della  utilizzabilità  delle testimonianze indirette che egli si sia rifiutato di rispondere.

Sul punto una significativa sentenza della Corte di Cassazione ha chiarito che le dichiarazioni de relato non sono indizi e come tali non devono essere valutate, ma sono comunque delle prove storiche rappresentative dei fatti narrati ed in particolare del fatto di cui i testi sono relatori mediati. 

Un’ulteriore questione è quella del procedimento incidentale regolato dall’art. 500 comma 4° c.p.p. e della ritrattazione.

La rilevanza delle dichiarazioni accusatorie provenienti dall’offeso e la sua naturale vulnerabilità, spesso riconducibile alla relazione di soggezione che lo lega all’imputato, rendono frequente il fenomeno della ritrattazione, sia in fase investigativa che in fase dibattimentale (come anche nel corso dell’incidente probatorio).

Se la ritrattazione si traduce nella rimessione di querela, ne consegue il difetto della condizione di procedibilità in relazione a tutti i reati non perseguibili d’ufficio.

Per questi ultimi si pone invece un serio problema di valutazione dell’attendibilità della testimonianza “modificata”, e la necessità di valutare l’eventuale ricorso alla acquisizione delle dichiarazioni assunte  nella fase investigativa ai sensi dell’art. 500 comma 4° c.p.p.

Quando la ritrattazione si verifica in dibattimento, è infatti onere del giudice la verifica delle cause del comportamento del testimone quando vi sia il dubbio che la testimonianza dibattimentale non sia frutto di una libera scelta, ma piuttosto di pressioni, intimidazioni o subornazione.

I processi con vittima vulnerabile – ed in particolare quelli per il resto di sfruttamento della prostituzione – sono spesso caratterizzati dalla acquisizione delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini che vengono lette in dibattimento ai sensi dell’art. 512 c.p.p.

Tale meccanismo di acquisizione delle dichiarazioni unilaterali può creare qualche problema di compatibilità con  le garanzie previste dalla Convenzione EDU in materia di diritto al processo equo.

L’art. 6 CEDU individua il  diritto di ogni persona accusata di esaminare o far esaminare i testimoni a carico e che gli elementi di prova siano prodotti in  pubblica udienza, in vista di un esame in  contraddittorio.

Tale regola non è tuttavia esente da eccezioni.

I paragrafi 1 e 3 d) dell’art. 6 CEDU impongono, come  ineludibile garanzia, di concedere all’imputato un’occasione adeguata e sufficiente per contestare una testimonianza a carico e di interrogarne l’autore, al momento delle sue prime deposizioni o successivamente. E’ quindi ritenuto compatibile con le soglie di garanzia individuate dall’art. 6 della Convenzione anche il ricorso a deposizioni rese nella fase delle indagini preliminari, se l’imputato ha avuto un’occasione adeguata e sufficiente di contestarle, al momento in cui sono state rese, o più tardi. 

La Corte di Strasburgo ritiene però – e questo presidio si presenta insuperabile – che i diritti della difesa siano compressi in maniera incompatibile con le garanzie previste dalla Convenzione quando una condanna si fonda, unicamente o in misura determinante, sulle deposizioni rese da una persona che l’imputato non ha potuto interrogare o far interrogare durante le indagini o successivamente

Nel nostro sistema, per contro, le condanne potrebbero in astratto fondarsi, anche in modo esclusivo, su dichiarazioni rilasciate in istruttoria e poi acquisite al fascicolo dibattimentale per l’impossibilità a di ripeterle, ai sensi dell’art. 512 c.p.p.

Questa possibilità crea uno standard di garanzia certamente inferiore a quello assicurato dall’art. 6 CEDU.

Della questione si è occupata ripetutamente la Corte di Cassazione che, con varie pronunce, ha provato ad eliminare questo squilibrio ponendo rilevanti oneri prognostici al PM (obbligandolo a valutare se il dichiarante sarà o meno reperibile nella successiva fase dibattimentale) e circoscrivendo l’acquisibilità dibattimentale ai soli casi di impossibilità oggettiva di ripetizione della dichiarazione resa in istruttoria.

Un’ulteriore e rilevante questione attiene alla possibilità di attribuire o meno un’attendibilità frazionate alle dichiarazioni della persona offesa vulnerabile. La giurisprudenza di legittimità mostra al riguardo notevoli incertezza oscillando tra la soluzione positiva e quella negativa.

5. Conclusioni

La materia della protezione giudiziaria dei minori che subiscono reati gravi e traumatici e della migliore valorizzazione possibile del loro sforzo narrativo e collaborativo con le istituzioni è tra quelle che determinano il grado di civiltà giuridica e sociale di un Paese.

Sarebbe ingeneroso affermare che il panorama nazionale sia disattento a questi temi.

Il legislatore ha messo in campo un complesso normativo e lo ha arricchito ed affinato progressivamente sebbene in modo non organico, non sempre perfettamente coerente e non sempre secondo una prospettiva d’insieme.

La magistratura e tutte le altre categorie di operatori sociali che sono muniti di competenze e di capacità professionali spendibili in questo settore hanno mostrato grande attenzione e voglia di misurarsi in modo attento con la complessità del tema. Ne è nato in tal modo un movimento variegato, multiculturale e multidisciplinare che è stato spesso in grado di ovviare alle lacune ed incertezze normative.

Può quindi complessivamente affermarsi che le istituzioni giudiziarie e no, il sapere scientifico, gli operatori di ogni livello appaiono in grado di dare risposte accettabili alla domanda di giustizia, spesso fioca o rauca o sgrammaticata, che proviene dai bambini e dai ragazzi che subiscono la violenza del crimine.

Il problema vero, stando alle statistiche ed ai dati disponibili, come ad esempio quelli di Terre des Hommes di cui si è parlato nell’introduzione, è che questa domanda di giustizia resta spesso muta, non ha la capacità di esprimersi e non trova quindi chi la ascolti e le dia risposta.

Nelle strade, nelle case, nei territori in cui viviamo, ogni giorno ci sono bambini e ragazzi che conoscono troppo presto e senza potersi difendere gli orchi e i mostri che insidiano il loro diritto alla felicità ed alla serenità.

È questo il terreno di impegno più forte per la comunità, è qui che si misura la sua capacità di essere accogliente e protettiva, è qui che uomini e istituzioni devono accentrare il loro impegno.

 

[1] L’espressione è di Raffaele GRECO, in “Prova testimoniale e fallacia della memoria”, Rivista della Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, 2006, n. 4, pag. 159 e ss.

[2] Le linee guida della SINPIA sono consultabili sul sito www.sinpia.eu.

[3] G. FANCI: La vittimizzazione secondaria: ambiti di ricerca, teorizzazione e scenari. Rivista di criminologia, vittimologia e sicurezza, volume V, n. 3, settembre/dicembre 2011.