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Scienza e diritto si incontrano alla ricerca dell’uomo

La Corte di Cassazione (Sezione Prima, sentenza n. 11607/2018) apre a una nuova considerazione del giovane adulto che delinque
Neuroscienza
Neuroscienza

"Alle volte uno si crede completo ed è soltanto giovane".

Italo Calvino, Il visconte dimezzato

"La gioventù non sa quel che può, la maturità non può quel che sa". 

José Saramago, La caverna

 

Abstract

La Corte di Cassazione, invertendo il suo orientamento precedente, ha riconosciuto che le facoltà cognitive non si perfezionano al compimento della maggiore età, ma sono ancora in fase di sviluppo e maturazione insieme alle competenze sociali e affettive almeno fino ai 20 anni di età. Questo riconoscimento impone al giudice una particolare attenzione nella graduazione della pena per i giovani adulti che delinquono.

The Court of Cassation, reversing its previous orientation, acknowledged that cognitive faculties are not perfected at the age of majority, but they are still in the process of development and maturation together with social and affective skills at least up to 20 years of age. This statement requires the judge to pay particular attention to the gradation of the penalty for so called young offenders.

 

Indice

1. La storia

2. La pregressa giurisprudenza di legittimità

3. La più recente decisione della Corte di Cassazione e il cambio di prospettiva

4. L’epilogo

5. La scienza e il giudice

6. Le neuroscienze e il giudice

7. Conclusione

 

1. La storia

Sul finire del 2014 tre ragazzi appena maggiorenni compiono un omicidio in concorso tra loro.

È una brutta storia, di quelle che solitamente non stimolano alcun’empatia nell’accusatore e nel giudice e che provocano disagio anche al difensore.

Il fatto è pluriaggravato: accuratamente pianificato, compiuto per motivi abietti e con abuso di relazioni domestiche (gli autori vogliono sbarazzarsi della vittima, zio di uno di essi, cui imputano di intromettersi nella loro vita  e nella loro "tana" con disturbi e molestie), eseguito con crudeltà e approfittando della minorata condizione della vittima (questi, disabile con una rilevante compromissione intellettiva, viene colpito ripetutamente con una mazza da baseball e l’aggressione continua anche quando cade a terra privo di sensi).

Come non bastasse, dopo l’aggressione mortale i tre avvolgono il cadavere in sacchi di plastica e lo gettano in un fiume nella vana speranza di allontanare i sospetti da sé stessi.

Vengono dunque incriminati per omicidio e occultamento di cadavere e scelgono tutti di essere giudicati nelle forme del rito abbreviato.

Dinanzi al GUP l’esito è differenziato.

Il nipote della vittima, cioè l’imputato che nel capo di imputazione viene definito «autore principale del progetto di aggressione e delle sue micidiali modalità», ottiene la concessione delle circostanze attenuanti generiche (soprattutto in conseguenza del suo contributo alla ricostruzione dei fatti) e il riconoscimento della loro equivalenza al complesso delle aggravanti e viene condannato alla pena di diciassette anni e quattro mesi di reclusione.

Gli altri due concorrenti non sono considerati meritevoli di alcuna attenuazione e vengono condannati a trent’anni di reclusione.

La sentenza di primo grado è impugnata da tutti gli imputati.

La Corte di Assise di Appello esclude l’aggravante dei motivi futili e concede a un altro imputato le attenuanti generiche, rideterminando la sua pena nella stessa misura già riconosciuta al nipote della vittima.

Il terzo imputato non ottiene invece alcun miglioramento della sua posizione e la sua pena rimane confermata in trent’anni.

In particolare, il motivo d’appello legato alla sua giovanissima età e all’opportunità di mitigare la pena per l’incompleto sviluppo psicofisico che ne deriva non trova accoglimento perché la condizione anagrafica, al pari dell’incensuratezza, è solo «un dato meramente formale».

Neanche questa seconda decisione soddisfa gli imputati che ricorrono quindi per cassazione.

 

2. La pregressa giurisprudenza di legittimità

Al momento della trattazione del ricorso, è ben radicato un indirizzo interpretativo, interamente ascrivibile alla prima sezione penale della Suprema Corte, che non riconosce alcun rilievo autonomo alla questione dei "giovani adulti" e non intravede alcun sospetto di illegittimità costituzionale nell’articolo 72 codice penale nella parte in cui consente l’irrogazione dell’ergastolo anche a costoro.

Talmente radicato da essere talvolta declinato con poche e sbrigative espressioni [1].

La sostanza non cambia anche quando i ricorsi propongono argomentazioni più ampie e le decisioni sono più dettagliatamente motivate.

Così è per la decisione n. 13051/2015 che argomenta sulla portata circoscritta della sentenza n. 168/1994 della Consulta la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 22 codice penale poiché consente l’applicazione dell’ergastolo ai minorenni imputabili ma non ha concesso alcun’analoga apertura a favore dei giovani adulti.

La stessa decisione nega poi valore di principio generale ordinamentale a «sia pure limitati, benefici, quali, ad esempio, un ampliamento del limite di pena per la sospensione condizionale (articolo 163, comma 3, c.p.) ovvero la permanenza nell'istituto penale minorile, qualora condannati come minorenni» sicché «La tutela dell'infanzia deve, quindi, necessariamente attestarsi su un limite certo di età e non appare né irragionevole né in contrasto con tale tutela il fatto che il legislatore ne abbia fissato

il limite al compimento della maggiore età, che rappresenta per il soggetto l'ingresso nella età adulta con il conseguimento di tutti i diritti, ma anche di tutti i doveri e di tutte le responsabilità che ciò comporta».

La sentenza n. 34111/2015 arriva alle stesse conclusioni riguardo ad una diversa richiesta difensiva, concernente la possibilità in sede esecutiva di modificare e sostituire con altra pena di durata temporanea l'ergastolo, se inflitto a soggetto che al momento del fatto di reato era maggiore di età ma infraventicinquenne.

Il collegio di legittimità fa leva anzitutto sul principio di legalità della pena, osservando che «la pretesa di ottenere la sostituzione della pena perpetua con altra temporanea non si sostanzia nell'indicazione di una specifica sanzione di natura e durata determinate, come tale applicabile dal giudice dell'esecuzione, né della fonte normativa che preveda tale trattamento punitivo. Il rilievo è già in sé dirimente, in quanto la prospettazione difensiva rimette al giudice investito della domanda un potere di intervento decisorio creativo della sanzione, non ricavabile dall'ordinamento giuridico, che confligge irrimediabilmente col principio di legalità della fattispecie penale e della pena».

L’ovvio postulato giustificativo è che l’ergastolo non è mai una pena illegittima se irrogato ad un maggiorenne, quale che sia la sua età.

Questa conclusione non è indebolita dalla previsione contenuta nell’articolo 5 della Legge 117/2014 da cui discende che le misure cautelari, le misure alternative, le sanzioni sostitutive, le pene detentive e le misure di sicurezza di cui siano destinatari adulti di età compresa tra 21 e 25 anni di età si eseguono secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni, fatta eccezione per i casi in cui si ravvisino esigenze specifiche di prevenzione e tutela della sicurezza.

Si tratta infatti, ad avviso del collegio, di una norma di portata limitata alla fase esecutiva da cui non possono farsi discendere significati ed effetti che oltrepassino il suo ambito proprio.

In sostanza, la tutela dell’infanzia e della gioventù in ambito penale è adeguatamente assicurata dai già esistenti benefici penitenziari nella fase esecutiva e dalla possibilità di concessione delle attenuanti generiche nella fase cognitiva.

Nessun argomento ostativo può essere poi desunto dalla giurisprudenza dei giudici europei dei diritti umani.

A conclusioni completamente sovrapponibili e sulla medesima questione perviene la successiva sentenza n. 46219/2016.

 

3. La più recente decisione della Corte di Cassazione e il cambio di prospettiva

In questo contesto di netta chiusura si inserisce il ricorso di colui che, per comodità identificativa, si continua a chiamare il terzo imputato: il giovane adulto che, alla solitudine propria di chi deve fare i conti con un gesto così efferato e insensato ed è doverosamente chiamato a risponderne, aggiunge quella connessa a una posizione processuale isolata e differenziata in negativo da tutte le altre.

Eppure, la Suprema Corte smentisce le previsioni della vigilia e, all’interno di una decisione che rigetta ogni altro motivo di ricorso, ne accoglie solo uno, proprio quello di quel giovane, proprio in relazione alla sua giovinezza.

In netto contrasto con la decisione della Corte territoriale, il collegio afferma che «la giovanissima età non rappresenta un dato meramente formale né tanto meno neutro».

Osservazione che immediatamente dopo viene così spiegata:

«le facoltà cognitive non si perfezionano al compimento della maggiore età, ma sono ancora in fase di sviluppo e maturazione insieme alle competenze sociali e affettive almeno fino ai 20 anni di età».

Si cita a questo punto la Raccomandazione n. 20/2003 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa [2] che ha consigliato agli Stati membri l’adozione di regole tali per cui «il grado di colpa dovrà essere precipuamente legato all’età ed alla maturità del responsabile, e corrispondere meglio allo stato di sviluppo di questi, mentre le sanzioni penali andranno applicate in parallelo al livello ed all’entità della sua responsabilità individuale […] per tener conto dell’allungamento del periodo di transizione verso l’età adulta, dovrà essere possibile che i giovani di meno di 21 anni siano trattati in modo equiparabile a quello degli adolescenti, e che essi formino oggetto dei medesimi interventi, se il giudice ritenga che non siano maturi e consapevoli delle loro azioni come dei veri adulti».

Si fa ulteriore riferimento alla norma di favore per i maggiorenni infraventunenni contenuta nell’articolo 163 codice penale in materia di sospensione condizionale della pena e all’articolo 1 comma 85 n. 3 della Legge 203/2017 che ha delegato al Governo l’estensione ai detenuti giovani adulti della disciplina penitenziaria prevista per i minorenni.

Si constata infine l’illogicità e l’inadeguatezza della sentenza impugnata laddove concede le attenuanti generiche al concorrente che è emerso come l’ideatore, l’ispiratore e l’istigatore del brutale delitto e le nega al correo senza giustificare in modo plausibile questa vistosa disparità di trattamento.

La soluzione è obbligata: la decisione della Corte territoriale è annullata con rinvio per una nuova, e questa volta plausibilmente motivata, deliberazione in punto di attenuazione della pena.

 

4. L’epilogo

La Corte di Assise di Appello [3] chiamata a pronunciarsi in sede di rinvio condivide le indicazioni della Cassazione.

Rivaluta il contributo offerto dallo specialista psichiatra del penitenziario in cui è detenuto il giovane adulto, a giudizio del quale questi aveva una personalità fragile e psicologicamente dipendente ed era nient’altro che un soggetto immaturo, desideroso di mettersi in mostra agli occhi dei suoi coetanei.

Soprattutto, ritiene che «pur non potendo la giovane età costituire in nessun caso una sorta di "giustificazione" o lasciapassare per comportamenti di particolare violenza, è pur vero che alla stessa si accompagna abitualmente nell’agente una minore consapevolezza del disvalore delle proprie azioni, nonché una più ridotta capacità di tenere a freno le proprie pulsioni».

I giudici di appello concedono quindi le attenuanti generiche, dichiarandole equivalenti alle aggravanti, e la pena viene rideterminata nella stessa misura applicata agli altri imputati.

La storia rimane una brutta storia, brutale e insensata, e non potrebbe essere altrimenti.

Ai suoi artefici, e tra questi al terzo imputato di cui si parla in questo scritto, viene presentato il conto ed è salato, come è giusto che sia.

Eppure, in conseguenza del passaggio in Cassazione, qualcosa di nuovo è avvenuto nella storia umana e giudiziaria di quel giovane.

Senza dimenticare l’orrore del suo gesto, gli si è restituita un po’ di umanità, si è ascoltata con più attenzione la voce di chi conduce le attività trattamentali carcerarie, si sono gettate le basi per un percorso rieducativo che eviti la trasformazione di un essere umano in un vuoto a perdere.

Potrebbe sembrare una rivoluzione, e in effetti nel giudizio in esame lo è stata, ma è solo il finalismo rieducativo della pena.

 

5. La scienza e il giudice

Come si è visto, i giudici di legittimità hanno sovvertito consapevolmente – «È peraltro ben nota al Collegio la giurisprudenza di questa Corte» – un indirizzo interpretativo che da anni a questa parte sembrava immutabile.

La motivazione della sentenza 11607/2018 offre chiarissimi indizi della ragione del cambiamento allorché individua nella «scienza più moderna» e nelle «recenti acquisizioni scientifiche» le fonti della nuova consapevolezza circa l’incompleto sviluppo psichico dei giovani adulti.

La scienza, allora, in quella sua particolare declinazione costituita dalle neuroscienze.

Verrebbe da considerarlo un fatto normale, addirittura fisiologico, ma in realtà questa normalità è un punto d’approdo da conquistare faticosamente piuttosto che uno scontato punto di partenza.

L’incontro tra il giudice e la scienza, pure inevitabile, richiede infatti che vi siano sufficienti chiarezza e consenso su plurime questioni.

Cosa sia la scienza e se le si possa riconoscere la caratteristica dell’infallibilità, quale sia il modo migliore per farla entrare nel giudizio, come debba servirsene il giudice, se infine lo stesso giudice sia un semplice consumatore di scienza o concorra a crearla in uno dei tanti modi possibili: definendo le procedure per la sua manifestazione nel giudizio, delimitando il campo da esplorare, imprigionandola nelle categorie giuridiche, stabilendo la demarcazione tra buona e cattiva scienza, attribuendo ai suoi risultati il significato che ritiene più congruo, traendo da quei risultati le conseguenze che gli sembrano preferibili.

Ognuno di questi temi e ognuna delle variabili che gli si possono associare sono stati e sono ben lontani dalla definitività sulla quale piacerebbe contare e meriterebbero autonomi approfondimenti qui impossibili.

Non si rinuncia tuttavia a mettere a fuoco il concetto che pare contare sul maggiore consenso.

Esso riguarda l’essenza stessa della scienza e del suo prodotto ultimo, la conoscenza.

Si sono manifestate storicamente e ancora sono in campo due posizioni estreme: quella che attribuisce alla scienza la capacità di fornire risposte invariabilmente esatte, quella che invece la ridimensiona al ruolo di una semplice prospettiva, una tra le tanti possibili.

Nella consapevolezza contemporanea, tuttavia, sembra decisamente prevalere una posizione mediana che muove da un presupposto impossibile da ignorare e confutare: la scienza non ha una sua forza intrinseca poiché possiede solo quella degli uomini che la concepiscono e la praticano.

È quindi, a tutti gli effetti, un prodotto umano e conosce come tale l’arbitrio e la fallibilità propri dell’uomo.

Al tempo stesso, e senza che in questo vi sia contraddizione, la scienza, con tutto il suo relativismo, è indispensabile all’uomo che vuole conoscere sé stesso e il mondo di cui è parte ed è in pari misura il migliore antidoto ad oggi disponibile contro derive ideologiche ed etiche di ogni tipo e contro la tentazione del giudice di farsi esso stesso ed impropriamente produttore di scienza [4].

La scienza non equivale quindi necessariamente alla verità ma è sicuramente il miglior metodo a disposizione di chi la sta cercando.

Così come aveva intuito Bertolt Brecht per il quale

«Scopo della scienza non è tanto quello di aprire una porta all'infinito sapere, quanto quello di porre una barriera all'infinita ignoranza» [5].

Queste considerazioni giustificano e anzi impongono una conclusione.

Non è sufficiente al giudice avere un rapporto, quale che sia, col sapere scientifico poiché questo, al pari di ogni altro sapere, è e deve essere uno strumento immanente del giudizio e di chi ne ha la responsabilità.

Se quest’immanenza manca, il giudice si sta per ciò stesso ritraendo dal mondo, condannandosi a non comprenderne i mutamenti e relegandosi in un ruolo marginale.

Ancora più nettamente,

il giudice senza saperi è un non giudice.

Il che non equivale affatto ad attualizzare la vecchia e stantia formula del giudice peritus peritorum, ammesso che abbia mai avuto un senso.

Significa esattamente il contrario: il prodotto giurisdizionale, pur ascrivibile formalmente al giudice che ne assume la responsabilità, è sempre e comunque un concerto in cui si fondono esperienze e saperi che non devono appartenergli per mestiere ma di cui il giudice deve conoscere l’esistenza e apprezzare l’importanza.

Perché un fatto è certo: la giurisdizione è arrogante e povera ogni qualvolta non sappia resistere a visioni autoreferenziali che attribuiscano al giudizio e al suo risultato, quali che siano, una capacità di autolegittimazione che in realtà non posseggono affatto.

Conforta che a conclusioni del genere sia pervenuta anche la Corte Costituzionale, valorizzando in particolare il canone della ragionevolezza scientifica [6].

Di particolare interesse è la sentenza 282/2002 in cui la Consulta affermò il principio generale secondo il quale ogni decisione legislativa fondata su indicazioni scientifiche deve essere il frutto di un adeguato e quindi ragionevole bilanciamento tra acquisizioni scientifiche «allo stato attuale della scienza e del prevalente pensiero» e gli scopi che il legislatore si prefigge, bilanciamento che richiede «un serio dialogo tra risk managers (i decisori politici) e risk assessors (gli organi dotati di competenze tecnico-scientifiche)» [7].

Un principio, questo, già coniato dalla sentenza 185/1998 emessa in relazione al protocollo di cura messo a punto dal Prof. Di Bella.

La tendenza proseguì con la decisione 151/2009, una delle tante che ha rilevato profili di illegittimità costituzionale della Legge 40/2004 sulla procreazione assistita. In questo caso, come in altri analoghi interventi successivi, la Consulta stigmatizzò l’assenza di un’adeguata considerazione legislativa delle «acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica», aggiungendo che «ridurre la fecondazione assistita ad un modello unico, valido per tutte le situazioni concrete che si presentano alla attenzione dei medici, equivarrebbe ad obliterare completamente quelle che sono le acquisizioni scientifiche, le quali indicano come i plurimi fattori che afferiscono alla coppia genitoriale incidono sulla scelta del trattamento da attuare».

Anche in questi ultimi anni la Corte ha continuato a confrontarsi con temi scientifici e non ha smesso di servirsi del canone della ragionevolezza.

Lo ha fatto con la sentenza 162/2014 che ha reso possibile le tecniche di fecondazione tramite l’uso di gameti donati da soggetti terzi rispetto alla coppia donataria, osservando in particolare che la concezione legislativa del diritto alla salute espressa nella Legge 40 era scientificamente inadeguata e che «un intervento sul merito delle scelte terapeutiche, […] deve tenere conto anche degli indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche […], anche in riferimento all’accertamento dell’esistenza di una lesione del diritto alla salute psichica».

L’aspetto forse più interessante di questa decisione sta nell’opinione che

«le acquisizioni scientifiche non sono più soltanto evidenze che non possono essere contraddette ma anche, forse soprattutto, strumenti per lo sviluppo delle libertà dell’individuo,

[nel senso che] la persona e i diritti fondamentali conoscono una profonda, e forse irresistibile, trasformazione di fronte alle acquisizioni della scienza e della tecnica» [8].

Di poco successiva è stata la sentenza 96/2015, anch’essa sulla Legge 40/2004, la cui pertinenza ai temi qui trattati deriva dall’affermazione che è compito del legislatore «introdurre apposite disposizioni al fine della auspicabile individuazione (anche periodica, sulla base della evoluzione tecnico-scientifica) delle patologie che possano giustificare l’accesso alla PMA di coppie fertili».

Il che equivale a dire che «un’opzione legislativa, la quale non offra la massima possibilità d’accesso alle più sofisticate tecniche procreative che il progresso scientifico mette a disposizione (con tutto ciò che esse comportano in termini di salute psico-fisica per la coppia che desideri ricorrere ad esse), sarà da considerarsi scientificamente irragionevole» [9].

E dunque «la libertà della politica legislativa trova un limite […] nella scienza», al cui progredire deve corrispondere un aggiornamento della regolazione della materia de qua» [10].

Di poco precedente è stata invece la sentenza 274/2014 sul cosiddetto trattamento Stamina e sulla possibilità di sottoporvi i pazienti che lo avessero richiesto dopo l’entrata in vigore del Decreto Legge 24/2013 emesso dal Governo appunto allo scopo di impedire, dopo l’acquisizione di plurimi pareri negativi dell’Agenzia italiana del farmaco e di due ulteriori comitati di esperti, che a quel trattamento potessero essere ammessi nuovi pazienti.

Gli scienziati chiamati a pronunciarsi avevano affermato concordemente che i metodi Stamina non consentivano neanche l’avvio della sperimentazione clinica, non garantendo la sicurezza dei pazienti che vi si sarebbero dovuti sottoporre.

La Consulta, chiamata a chiarire se fosse ragionevole la differenza di trattamento tra i pazienti che avevano potuto sottoporsi al metodo Stamina poiché avviato prima del Decreto Legge 24 e quelli che non avevano avuto analoga possibilità in conseguenza della sua entrata in vigore, non ha ravvisato alcun vizio di illegittimità, poiché «allo stato, la sussistenza delle condizioni per la prosecuzione della sperimentazione prevista dalla legge censurata risulta esclusa dal decreto del Ministero della salute adottato, sulla base della relazione dell’apposito comitato scientifico, il 4 novembre 2014, nelle more del presente giudizio».

Il giudice delle leggi pretende dunque dal legislatore che l’esercizio della sua funzione tipica avvenga nella piena consapevolezza e valorizzazione delle acquisizioni scientifiche.

Non pare azzardato ritenere che, se questo obbligo è imposto al legislatore, non c’è alcuna plausibile ragione perché ad esso possa sottrarsi il giudice.

 

6. Le neuroscienze e il giudice

Il diverso orientamento adottato dalla sentenza che ha dato spunto a questo scritto è frutto della valorizzazione di saperi scientifici tra i quali hanno un peso preponderante quelli neuroscientifici.

Non è stato un esordio assoluto poiché le neuroscienze sono entrate più volte nel raggio di attenzione della Suprema Corte.

Così è avvenuto nella sentenza 12204/2014 della quinta sezione penale.

Il ricorrente lamentava la mancata concessione delle attenuanti generiche a fronte di un disturbo della personalità con tratti paranoidi, narcisistici e antisociali. Il collegio ha disatteso il gravame «trattandosi di caratteristiche attinenti esclusivamente alla personalità dello stesso imputato, comportanti la disarmonia nelle modalità di interazione, nel suo modo di essere e di reagire agli eventi, senza tuttavia determinare una menomazione della funzione volitiva e del controllo degli impulsi, tale da non consentire di regolare le azioni aggressive poste in essere».

Ciò che più conta, ha ritenuto condivisibile la decisione impugnata nella parte in cui ha considerato suggestiva la «prospettazione intesa a evocare l'apporto delle neuroscienze per verificare la presenza di anomalie strutturali (nella morfologia del cervello) e genetiche comportamentali, atte a causare comportamenti aggressivi e violenti», non essendo mai stato chiesto alcuno specifico accertamento al riguardo.

Di maggiore interesse è la sentenza 45351/2015 della prima sezione penale.

Anche in questo caso si lamentava la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche sul presupposto che l’imputato sarebbe stato «portatore di disfunzioni genetiche determinanti suoi comportamenti aggressivi e impulsivi».

Nelle fasi di merito era stata disposta una perizia d’ufficio sull’imputabilità del ricorrente, affidata a un collegio di cui facevano parte uno psicologo clinico e un neuroscienziato.

La Corte territoriale, «basandosi su tutti gli accertamenti individuali condotti e sul sapere scientifico attuale, ritiene difficile sia attribuire una incidenza del fattore genetico sul comportamento aggressivo posto in essere sia riconoscere una infermità riconducibile ai disturbi di personalità, e per conseguenza che nemmeno per tale via sia giustificata la concessione delle attenuanti generiche».

Il ricorrente, tuttavia, «ritiene che l'organo giudicante avrebbe dovuto prendere atto che anche il consulente d'ufficio, genetista S., aveva riscontrato la presenza simultanea nell'imputato di più varianti genetiche disfunzionali, generatori di comportamenti aggressivi ed impulsivi. Tale accertamento avrebbe dovuto essere valorizzato al fine del riconoscimento delle attenuanti generiche, in una con gli altri elementi già evidenziati, tra cui la confessione. Il ricorrente richiama altresì la sentenza della Corte Costituzionale che ha censurato, in punto di necessaria valutazione della condotta post-delitto, l'aprioristico approccio negativo alla concessione delle attenuanti generiche ai recidivi reiterati e conclude che il principio di ragionevolezza richiede che dette attenuanti vadano applicate anche a colui che presenta geneticamente un significativo aumento del rischio di sviluppo di comportamento aggressivo, impulsivo, così differenziandosi dal "callido e lucido omicida"».

Il collegio di legittimità ha respinto il ricorso, osservando che «nel caso di specie, i giudici di merito, […] hanno correttamente escluso ogni incidenza tra il genoma di G. e il reato commesso, dal momento che - a tacere delle implicazioni sui temi più generali del libero arbitrio, del principio di responsabilità individuale e della mancata considerazione dell'interazione dei fattori ereditari e ambientali nello sviluppo della personalità - nel rispetto delle regole proprie del processo penale, al suo interno può essere introdotta solo una prova "idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti" (articolo 189 cod. proc. pen.) e la cd. verità scientifica è tale solo se la conoscenza è scientifica. Nell'esperienza della Corte Suprema nordamericana, la sentenza Daubert individua come criteri per l'apprezzamento della scienza valida (ossia rilevante e affidabile) la possibilità di verificare e falsificare il principio scientifico da impiegare; che esso sia stato oggetto di una revisione paritaria da parte dei componenti della comunità scientifica; che i risultati delle ricerche siano stati pubblicati in riviste specialistiche; che sia considerata la percentuale di errore, nota o potenziale, della teoria scientifica; che siano rispettati gli standard di corretta esecuzione delle operazioni applicative inerenti quel determinato principio scientifico […] La motivazione resa dai giudici di merito per escludere la rilevanza del profilo genomico di G. è esaustiva ed idonea a spiegare le ragioni per le quali le prospettazioni difensive non sono condivisibili e determina la manifesta infondatezza del ricorso, a maggior ragione considerando che la tesi che l'agire del ricorrente sia stato determinato da un impulso interiore cui non ha potuto resistere condurrebbe inevitabilmente a toccare quel tema dell'imputabilità – non agit sed agitur - che è stata consapevolmente abbandonata dal ricorrente».

Altrettanto interessante è la sentenza 27129/2016, anch’essa emessa dalla prima sezione penale della Corte suprema.

Il ricorso, tendente ad ottenere il riconoscimento del vizio parziale di mente ex articolo 89 c.p., era in parte fondato su una valutazione genetica dalla quale sarebbe emerso «un quadro di disfunzionalità per quattro dei sei alleli esaminati che, si assumeva dimostrato, predisponessero a comportamenti impulsivi ed aggressivi».

Il relativo motivo è stato giudicato infondato.

I giudici di legittimità hanno infatti condiviso sul punto la decisione impugnata laddove «i giudici della Corte d'assise d'appello hanno osservato come una base genetica della predisposizione ad azioni impulsive ed aggressive non avesse un fondamento scientifico consolidato, in guisa da far ritenere acquisito il dato stesso al patrimonio delle neuroscienze. La conclusione non è risultata frutto d'una posizione di mera asserzione, ma si è confrontata con un riferimento espresso alla posizione assunta dalla società italiana di genetica umana, che non aveva affatto condiviso quel concetto che avrebbe aperto ad una predisposizione criminale, su base genetica».

Per quanto piccolo sia, questo campione di decisioni non è così insignificante da non poterne ricavare alcune impressioni.

Su un piano generale,

si coglie una significativa tendenza a riportare entro la sfera delle caratteristiche personologiche penalmente irrilevanti le devianze che le difese, al contrario, servendosi di dati di provenienza genetica o neuroscientifica, prospettano come incidenti sull’imputabilità o, quantomeno, sul grado di adesione alla condotta riprovevole.

A voler sintetizzare seccamente, si potrebbe dire che in entrambe le posizioni si accredita l’idea che “si è come si è” ma, mentre le difese aggiungono che “non si può essere altrimenti”, la Cassazione non è propensa a questo passo ulteriore.

Le ragioni di questa diffusa ritrosia sono varie ma di certo due di esse prevalgono su tutte le altre e in un certo qual modo le giustificano: la convinzione che il compimento di quel passo intaccherebbe l’imputabilità come l’abbiamo finora conosciuta; la preoccupazione che questo avvenga su un presupposto, quello per cui si possa compiere crimini per impulsi incontrollabili dovuti a devianze genetiche che incidono sui processi neuronali, che la stessa scienza non è ancora disposta ad accreditare in modo condiviso e che dunque il diritto fa bene a rifiutare.

Ci si affida ai criteri Daubert [11], quasi fossero un mantra, ma non si spiega o non si spiega in modo adeguato se si crede fino in fondo alla loro efficacia e attualità e, soprattutto, se ne è stata verificata l’applicazione nel caso concreto.

Si accredita l’idea che le proposizioni dei ricorrenti contraddicano le tesi dominanti nella comunità scientifica ma non si va molto oltre la mera affermazione di questa convinzione e non si dà conto delle posizioni in campo, dell’autorevolezza di chi le esprime, di chi abbia titolo e voce in capitolo.

Preso atto di questa diffusa diffidenza e della difficoltà che ne deriva riguardo alla penetrazione del sapere scientifico nel giudizio, resta da chiedersi come sia stato possibile quel cambiamento giurisprudenziale descritto in apertura, a quali acquisizioni scientifiche sia dovuto, verso quali strade potrebbe condurci.

La risposta, almeno per la parte strettamente connessa ai giovani adulti, è abbastanza agevole.

Si deve dunque constatare che «i risultati delle ricerche neuroscientifiche (Luna et al., 2001; Spear, 2000) suggeriscono che comportamenti autocontrollati, pianificati, socialmente cooperativi, moderati e di evitamento del rischio sono talvolta “incompatibili” con l’infanzia, l’adolescenza e l’emergente età adulta, non solo per una questione di "capricciosità", ma per un’immaturità neurofunzionale, psicologica e relazionale (Keating, 2004). Da queste ricerche emerge quindi la necessità di verificare, attraverso metodi scientifici e neuroscientifici, se gli adolescenti siano in grado maturazionalmente di controllare il loro comportamento, evitare il rischio e comprendere le conseguenze delle loro azioni. La differenza tra un bambino e un adulto risiede quindi nell’emergere delle funzioni esecutive e nel loro perfezionamento. In linea con la letteratura precedente alcuni studi condotti da Pontinus (2003) confermano come il sistema frontale non sia ancora propriamente maturo negli adolescenti delinquenti o comunque risulti in molti casi disfunzionale (Pontius & Rutting, 1976; Pontius & Yudowits, 1980) ed è per questa immaturità cerebrale che gli adolescenti si comportano in modo più rischioso rispetto agli adulti.

Durante l’adolescenza il cervello è anche influenzato dal sistema limbico e dalle regioni sottocorticali associative quali l’amigdala e l’ippocampo, regioni cerebrali che governano gli impulsi, le emozioni e la memoria. Negli adolescenti, essendo quest’area ancora non completamente sviluppata, la modulazione e il controllo delle emozioni e degli impulsi potrebbe essere compromessa creando difficoltà anche nell’elaborazione delle ipotesi su cosa potrebbe accadere in conseguenza di un’azione. Lo sviluppo della sostanza grigia dal punto di vista strutturale avviene a quest’età secondo un processo back to front (Giedd et al., 1999), che prevede lo sfoltimento delle connessioni neurali in disuso in linea con la maturazione del cervello e il processo di postura delle connessioni neurali.

Per l’ordinamento italiano un ragazzo di 18 anni, in quanto maggiorenne, è passibile di pena a pari modo di un adulto; per la scienza, invece, le facoltà cognitive non si perfezionano al compimento della maggiore età, ma sono ancora in fase di sviluppo e maturazione insieme alle competenze sociali e affettive e alle caratteristiche personologiche, almeno fino ai 20 anni di età (Strata, 2014). Partendo da questo assunto, la valutazione del giovane adulto dovrebbe tener conto di questo importante e oggettivo dato scientifico» [12].

Sarebbe davvero fuori luogo aggiungere altro, salvo sottolineare che la sentenza oggetto di questo scritto si è condivisibilmente confrontata con la scienza, quella migliore, e ha accettato di farsene influenzare a servizio dell’uomo.

 

7. Conclusione

Nessuno può immaginare cosa avverrà negli anni a venire.

Se le neuroscienze sapranno consegnarci nuove conoscenze sul funzionamento della nostra mente, se queste conoscenze potranno addirittura generare la necessità di ripensare profondamente i criteri di imputazione soggettiva oggi comunemente accettati, se imporranno finanche un ripensamento generale del libero arbitrio.

Se il legislatore, il giudice, l’uomo comune, ammesso che quelle nuove conoscenze si manifestino, saranno propensi ad accettarle o almeno a prenderle in considerazione oppure le respingeranno per uno qualsiasi degli impulsi che possono governare le reazioni umane al nuovo, soprattutto quando il nuovo è così distante dal vecchio da risultare quasi intollerabile e incomprensibile.

Nessuno può dirlo.

Certo è che l’uomo non può rinunciare a conoscere sé stesso e in fondo non l’ha mai fatto, essendo stata sempre presente nella storia umana, anche se con intensità variabile, un’insopprimibile pulsione al progresso.

Certo è che la scienza, proprio in quanto prodotto umano per eccellenza, non si fermerà e non smetterà di rendere disponibili nuovi strumenti e nuove verità.

Certo è, infine, che un diritto che si negasse alla conoscenza e quindi alla verità, perderebbe per ciò stesso la sua più autentica legittimazione.

 

Note

[1] In Cass. Pen., Sez. 1^, sentenza 35514/2014, si legge ad esempio che «è manifestamente infondata l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'articolo 72 cod. pen. - in relazione agli artt. 17 e 22 stesso codice - per contrasto con gli articoli 27 comma terzo e 31 comma secondo della Costituzione, laddove si prevede l'irrogazione della pena dell'ergastolo a soggetti "quasi minorenni" (cioè di età compresa tra il diciottesimo ed il ventunesimo anno), atteso che il "giovane adulto" rientra comunque tra i soggetti i quali hanno raggiunto la maggiore età, che rappresenta il limite oltre il quale il soggetto consegue tutti i diritti e tutti i doveri e le responsabilità connesse con l'età adulta».

[2] Il testo è scaricabile in lingua italiana all’indirizzo web http://www.minoriefamiglia.it/download/cons-europa-9-03.PDF

[3] Corte di Assise di Appello di Milano, Sezione 1^, sentenza n. 2018/20 del 16 maggio 2018, inedita

[4] Spicca per generosità civile, originalità e modernità “laica” il pensiero manifestato complessivamente da L. Santa Maria in una serie di scritti, tutti pubblicati su Diritto Penale Contemporaneo tra il 2017 e il 2018, e precisamente: Piccolo manifesto per un programma di idee sul diritto e il processo penale, 7 febbraio 2017, La verità, 1 marzo 2017, Il falso nella causa del diritto penale, 20 marzo 2017 e, più di recente, La mia idea di una scienza del diritto penale, prima parte, 26 marzo 2018. Un corpus che si affina e precisa progressivamente. Così si legge nel Piccolo Manifesto: «Anche la scienza ha i suoi problemi. Nel secolo scorso è stata investita da una crisi scettica imponente. Popper, liquidando il positivismo logico, paragona la base empirica della scienza ad una palude dove la palafitta conficca i pali che la tengono sopra l’acqua. Lo scientismo è un’altra ideologia da cui guardarsi. Non abbiamo, però, nulla di meglio della scienza per conoscere il mondo e chi siamo noi». E ancora, nel Falso nella causa: «Nelle partite la cui decisione implica la conoscenza di come “le cose stanno nel mondo”, tra diritto e scienza, vince la scienza, sempre […] Il dilemma è se il diritto possa o anzi debba costruirsi da sé una propria metafisica e una propria epistemologia che abbia il pregio – se non della verità, perché……non si può avere tutto – almeno di rendere prevedibile, almeno entro certi limiti, la sentenza del giudice, ovvero se, impossibilitato a ciò, per intrinseci limiti linguistici e, per effetto di essi, anche limiti cognitivi, il Diritto debba, comunque, attingere da fuori una metafisica e una epistemologia – ma anche un’etica – più accreditate e ragionevoli di quelle che potrebbe farsi da sé, e che avrebbero anche il vantaggio di essere più prossime al vero. Non ho dubbi che la risposta giusta sia la seconda». Pensieri cui aggiunge una chiosa finale: «Sono ben consapevole che quel che sto per scrivere non garberà a nessuno, o forse, più semplicemente, non interesserà a nessuno. Il sistema attuale in Italia sembra reggere ancora solo perché da un lato l’ignoranza scientifica è distribuita in modo equilibrato, tra giudice, PM e avvocati, e dall’altro, la messa in discussione del libero convincimento del giudice per dover magari scoprire che non è né libero né tantomeno ben giustificato, non conviene ad alcuno». L’elaborazione di Santa Maria è proseguita con La mia idea di una scienza del diritto penale: «Abbiamo davvero qualcosa di meglio della scienza, per capire la realtà del mondo e dell’uomo? Il senso comune? Il senso comune, cioè il sistema di credenze, probabilmente innato, che è plasmato e strutturato dal linguaggio naturale, che, per milioni di anni ci ha fatto da bussola per sopravvivere nel mondo, fallisce quasi sistematicamente al cospetto della scienza. Tra senso comune e scienza, per quanto accese siano le discussioni, è più probabile che vi sia un rapporto di discontinuità profonda piuttosto che di lenta evoluzione. La scienza compare molto tardi nella storia evolutiva dell’uomo, non più di quattro secoli orsono. Che cosa c’entra il diritto penale con tutto questo? Molto. Il diritto penale è una delle manifestazioni più rilevanti di un’immagine dell’uomo e del mondo profondamente radicata, forse incarnata, nella natura umana. Se questo semplice quanto fondamentale modo di pensare il mondo e l’uomo, interamente guidato dall’interno da un oscuro pensiero punitivo, perde colpi – che gli infligge la scienza, un sistema di produzione di conoscenza che, comunque, l’uomo è stato capace di elaborare, prevalendo sui vincoli del senso comune, cioè della propria natura profonda – c’è la possibilità che anche i vincoli ontologici epistemologici ed etici del diritto penale che oggi ci paiono insuperabili, potrebbero essere superati e integrati da una visione del mondo più ampia aperta ed umana. […] La scienza è fatta dall’umiltà dell’uomo che, ad un certo momento dell’evoluzione, prende coscienza di non sapere e di voler sapere e – inventando il metodo della scienza – vuole poter esser umanamente certo di sapere. Scienza è davvero un grande straordinario bagno d’umiltà dell’uomo». Ugualmente imprescindibile è il riferimento al pensiero di Giovanni Fiandaca, espresso da ultimo in Prima lezione di diritto penale, Laterza, Bari, 2017 ma ben presente da anni nella riflessione complessiva del giurista siciliano, in particolare ne Il giudice di fronte alle controversie tecnico-scientifiche. Il diritto e il processo penale, in Pensare la complessità. Itinerari interdisciplinari, (a cura di S. Costantino e C. Rinaldi), Sigma Edizioni, Palermo, 2004. Nella Prima lezione Fiandaca si schiera a favore della prospettiva dialogica tra diritto e “saperi empirici” per due essenziali ragioni: «la corrispondenza tra i presupposti della responsabilità e i corrispondenti riferimenti scientifici […] è preferibile per ragioni di garanzia individuale»; «è, nel contempo, funzionale ad un potenziamento della capacità di resa del diritto penale quale strumento effettivo, e non soltanto simbolico, di contrasto della criminalità»; nondimeno «gli apporti conoscitivi delle scienze di volta in volta coinvolte non possono risultare automaticamente risolutivi: al giudice, e più in generale al giurista (e prima ancora al legislatore), spetta infatti pur sempre il compito di stabilire quale tipo di rilevanza i dati scientifici assumano ai fini di decisioni (legislative o giudiziarie) da prendere, in ultima istanza, in base agli scopi e ai canoni della coercizione penale. Che la valenza “giuridica” attribuibile alle conoscenze fornite dagli esperti non sia questione di competenza di questi ultimi, è d’altra parte ben comprensibile: sono infatti in giuoco giudizi di valore a vari livelli, e delicati bilanciamenti tra esigenze di tutela in conflitto o in concorrenza, che, come tali, esulano dalla tendenziale “neutralità” valutativa degli scienziati e competono, invece, ai legislatori e agli operatori del diritto».

[5] B. Brecht, Vita di Galileo, Einaudi, 2005

[6] Per una riassunzione complessiva e come prezioso riferimento per le decisioni citate nello scritto e l’individuazione dei passaggi motivazionali di maggiore rilievo sul tema del canone della ragionevolezza scientifica, si rinvia a G. Ragone, Scienza e diritto nell’argomentazione costituzionale, GDP (Gruppo di Pisa), 18 settembre 2015, consultabile all’indirizzo web https://www.gruppodipisa.it/8-rivista/87-giada-ragone-scienza-e-diritto-nell-argomentazione-della-corte-costituzionale

Sugli stessi temi, si rimanda inoltre a M. D’Amico, Le questioni eticamente sensibili, tra scienza, giudici e legislatori, Forum costituzionale, 2015, consultabile sul web all’indirizzo http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2015/11/damico.pdf

[7] G. Ragone, op. cit.

[8] A. Morrone, Ubi scientia ibi iura. A prima lettura sull’eterologa, Forum di quaderni costituzionali, 11 giugno 2014, reperibile sul web all’indirizzo: http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/giurisprudenza/2014/0022_nota_162_2014_morrone.pdf

[9] G. Ragone, op. cit.

[10] A. Morrone, op.cit.

[11] Si intendono con questa espressione i criteri elaborati dalla Corte Suprema Federale degli Stati Uniti d’America nella sentenza Daubert vs. Merrel-Dow Pharmaceutical Inc. 509 U.S. 579 del 1993. La decisione rappresenta una sorta di manifesto dello “scientificamente corretto” nella valutazione di rilevanza delle prove fondate su evidenze scientifiche.

[12] I dati, le fonti, le conclusioni scientifiche e il passaggio virgolettato di seguito citati sono interamente tratti dal Memorandum Patavino (Le capacità giuridiche alla luce delle neuroscienze) del 2015, un documento che sintetizza l’esito dei lavori di un convegno tenutosi presso l’Accademia dei Lincei nel giugno del 2015 sull’attualità delle neuroscienze forensi. Alla stesura del memorandum hanno collaborato illustri esponenti di plurime discipline e precisamente: U. Castiello (psicobiologo), R. Caterina (ordinario di diritto privato), M. De Caro (filosofo morale), L. De Cataldo Neuburger (avvocato e psicologa), S. Ferracuti (psicologo clinico), A. Forza (avvocato), N. Fusaro (avvocato), G. Gulotta (avvocato, psicologo e psicoterapeuta), F. M. Iacoviello (magistrato), C. Intrieri (avvocato), A. Lavazza (giornalista scientifico), A. Mascherin (avvocato, presidente del CNF), S. Pellegrini (professore associato di biochimica clinica), P. Pietrini (psichiatra), R. Rumiati (ordinario di psicologia generale e del giudizio e della decisione), L. Sammicheli (sociologo e psicologo), G. Sartori (neuropsicologo e psicopatologo), C. Squassoni (magistrato), A. Stracciari (neurologo). Il Memorandum è consultabile all’indirizzo: https://www.penalecontemporaneo.it/d/4379-le-capacita-giuridiche-alla-luce-delle-neuroscienze---memorandum-patavino