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La sentenza n. 164/2017 della Corte Costituzionale sulla responsabilità civile dei magistrati

Responsabilità penale
Responsabilità penale

Indice

1. Le questioni di legittimità costituzionale

2. La sentenza n. 164/2017 della Corte Costituzionale

3. Conclusione

 

1. Le questioni di legittimità costituzionale

Dopo l’entrata in vigore della Legge 18/2015 che ha modificato la disciplina della responsabilità civile dei magistrati contenuta nella Legge 117/1988 vari tribunali italiani hanno dubitato della legittimità costituzionale di talune norme della novella ed hanno rimesso gli atti alla Consulta per un intervento chiarificatore.

La prima questione, in ordine cronologico, è stata posta dal Tribunale di Treviso con un’ordinanza dell’8 maggio 2015 emessa nell’ambito di un giudizio penale nei confronti di un soggetto imputato di illegale detenzione di un ingente quantitativo di tabacchi lavorati esteri.

Ha affermato quel giudice che il tema essenziale di prova era stabilire se l’imputato fosse consapevole della presenza del tabacco in un magazzino di cui aveva la disponibilità.

La relativa valutazione, in difetto di prove dirette, doveva necessariamente fondarsi su elementi indiziari ed era per ciò stesso particolarmente “difficile e rischiosa”.

Questa situazione era ulteriormente complicata dalle modifiche apportate dalla Legge 18/2015 che, esponendo i magistrati a possibili responsabilità anche per effetto della valutazione di fatti e prove, li privava della necessaria serenità e li spingeva “per forza di cose”  verso la decisione meno rischiosa, ordinariamente coincidente con l’assoluzione dell’accusato.

Il giudice rimettente ha quindi sospettato, anche sulla base di ulteriori corollari, che la complessiva disciplina normativa della responsabilità dei magistrati fosse incostituzionale per violazione degli articoli 3, 25, 101, 104 e 113 della Costituzione.

Pochi giorni dopo, precisamente il 12 maggio 2015, anche il Tribunale di Verona si è inserito nella medesima scia.

Il giudizio a quo nasceva dall’opposizione proposta da una società cooperativa contro un decreto ingiuntivo emesso a favore di un’impresa agricola.

Il rimettente ha ipotizzato, sulla base di una visione affine a quella del Tribunale trevigiano, la possibile violazione degli articoli 3, 24, 25, 81, 101 e 111 della Costituzione.

È seguita l’ordinanza del 6 febbraio 2016 del Tribunale di Catania.

Nel giudizio sottostante si trattava l’opposizione proposta da un datore di lavoro contro l’ordinanza che aveva disposto la reintegrazione di una lavoratrice dopo il  suo licenziamento per giusta causa.

Nell’ordinanza di rimessione si è osservato che, date la delicatezza della controversia e l’asprezza dei toni delle parti in lite, la novella normativa del 2015 avrebbe potuto privare il decidente dell’indispensabile serenità e indurlo a scegliere non la soluzione giudicata più corretta ma quella “meno rischiosa”.

I giudici etnei hanno conclusivamente ipotizzato la violazione degli articoli 3, 24, 28, 101, 111 e 113 della Costituzione.

Qualche settimana dopo è intervenuto anche il Tribunale di Enna, con un’ordinanza emessa il 25 febbraio 2016.

Nel giudizio a quo si dibatteva di un’opposizione a decreto ingiuntivo emesso a favore di un istituto di credito. Il debitore opponente aveva dedotto l’usurarietà degli interessi applicati dalla banca.

I giudici siciliani hanno rimarcato la complessità della decisione e ne hanno tratto la convinzione, al pari degli altri Tribunali già menzionati, che l’esercizio della loro funzione decisoria poteva esporli al rischio di un’azione di responsabilità.

Hanno pertanto trasmesso gli atti la Consulta ipotizzando la violazione degli articoli 101, 104, 107 e 134 della Costituzione.

Infine, con ordinanza del 10 maggio 2016, anche il Tribunale di Genova ha sollevato questione di legittimità costituzionale della normativa in esame, per il suo asserito contrasto con gli articoli 3, 25, 101, 104 e 111 della Costituzione.

Questo è l’unico caso in cui il giudizio a quo aveva ad oggetto una causa civile risarcitoria promossa ai sensi della legge sulla responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, occasionata dalla dichiarazione di fallimento di una società in accomandita semplice e del suo socio illimitatamente responsabile senza che costui avesse ricevuto un valido avviso dell’udienza in esito alla quale fu appunto pronunciato il  fallimento.

I componenti del collegio, a differenza di tutti gli altri giudici di cui si è detto, non hanno paventato la loro possibile responsabilità personale ma hanno invece ipotizzato che l’abolizione del filtro preliminare di ammissibilità, da essi stessi ritenuta estensibile anche alle domande inerenti presunti illeciti verificatisi prima della riforma, fosse in contrasto con l’articolo 111 della Costituzione. in tema di giusto processo.

Hanno inoltre ravvisato altre possibili violazioni degli articoli 25, 101 e 104 della Costituzione.

 

2. La sentenza n. 164/2017 della Corte Costituzionale

Su tutte le predette questioni, la Consulta, dopo avere riunito i relativi giudizi, si è pronunciata con la sentenza 164, decisa all’udienza del 3 aprile 2017 e la cui motivazione è stata pubblicata il 12 luglio successivo.

Il giudice delle leggi ha anzitutto, in accoglimento di un’eccezione proposta dall’Avvocatura dello Stato, dichiarato inammissibili le questioni sollevate dai Tribunale di Treviso, Verona, Enna e Catania, poichè sono state sollevate “a prescindere da qualsiasi considerazione circa una loro diretta incidenza sullo statuto di autonomia e di indipendenza dei magistrati, tale da condizionare strutturalmente e funzionalmente lo ius dicere, ma facendo esclusivo riferimento alle sue modalità di esercizio”.

Non rileva infatti che “tali modalità possano costituire elementi variamente perturbatori della condizione psicologica di questo o quel magistrato, secondo i principi, del resto, costantemente ribaditi – sia prima sia dopo la sentenza n. 18 del 1989 – dalla giurisprudenza di questa Corte. Si è escluso, infatti, che potesse strutturare il nesso di pregiudizialità, richiesto ai fini di rendere rilevante la questione, il mero richiamo del giudice a quo al turbamento psicologico e della propria serenità di giudizio prodotto dall’applicazione dei «ferri di sicurezza» nelle operazioni di traduzione degli imputati detenuti, «non potendosi ovviamente qualificare per tale una soggettiva situazione psicologica come quella allegata dal giudicante che, oltre tutto, deriva da norme assolutamente estranee all’oggetto del processo principale» (sentenza n. 147 del 1974). Allo stesso modo, si è pure escluso che potessero considerarsi rilevanti, in un qualsiasi giudizio di competenza della Corte dei conti, questioni volte a denunciare l’asserita menomazione della serenità e autonomia di giudizio dei magistrati di detta Corte derivante dal carattere, in assunto, «troppo latamente discrezionale» dei poteri riconosciuti al Presidente della Corte stessa in materia di assegnazione di funzioni e promozioni: le doglianze attenevano, infatti, a disposizioni che non dovevano essere applicate dal giudice rimettente, riflettendo «violazioni solo potenziali ma non attuali delle garanzie costituzionali» (sentenza n. 19 del 1978)”.

La Corte ha quindi esaminato la questione posta dal Tribunale di Genova, dopo avere respinto un’eccezione di inammissibilità posta dall’Avvocatura dello Stato.

Ha anzitutto sottolineato l’incidenza della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea che ha più volte rimarcato “l’obbligo degli Stati membri di riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario (ora, dell’Unione europea) commesse da organi giurisdizionali nazionali (anche di ultimo grado): principi con i quali alcune delle limitazioni previste dalla legge n. 117 del 1988 sono state ritenute incompatibili (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa), tanto da dar luogo all’apertura di una procedura di infrazione, decisa in senso sfavorevole per il nostro Paese (Corte di giustizia, sentenza 24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana)”.

Ne ha tratto la conclusione che “L’affermazione di tali principi − pur se non immediatamente e specificamente pretensivi dell’abolizione del cosiddetto “filtro di ammissibilità” contemplato dall’articolo 5 della legge n. 117 del 1988 – ha rappresentato un considerevole mutamento del quadro normativo di riferimento in tema di responsabilità civile dello Stato e del giudice, finendo inevitabilmente per ispirare e permeare l’intervento riformatore, sul punto, della legge n. 18 del 2015. Al riguardo, il legislatore ha ritenuto che, per un verso, l’azione di responsabilità nei confronti dello Stato per i danni conseguenti ad un provvedimento giudiziario non si collocasse in una condizione di equivalenza rispetto alle azioni risarcitorie nei confronti dello Stato in altre materie che non prevedono un simile “filtro” e, per altro verso, che l’esperienza applicativa della legge n. 117 del 1988, arrestando le azioni di danno contro lo Stato in larghissima misura nella fase della delibazione preliminare, non avesse garantito l’effettività del risarcimento per il cittadino danneggiato. È appena il caso di sottolineare, al proposito, che l’intervento riformatore non era evidentemente limitabile alle sole violazioni del diritto europeo, se non al prezzo di determinare una irragionevole disparità di trattamento rispetto alle violazioni delle norme del diritto nazionale che fossero all’origine, anch’esse, di danno per il cittadino”.

Ha ricordato che “nella materia in esame occorre perseguire il delicato bilanciamento tra due interessi contrapposti: da un lato, il diritto del soggetto ingiustamente danneggiato da un provvedimento giudiziario ad ottenere il ristoro del pregiudizio patito, posto che «una legge che negasse al cittadino danneggiato dal giudice qualunque pretesa verso l’amministrazione statale sarebbe contraria a giustizia» (sentenza n. 2 del 1968); dall’altro, la salvaguardia delle funzioni giudiziarie da possibili condizionamenti, a tutela dell’indipendenza e dell’imparzialità della magistratura, «in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni» (sentenza n. 26 del 1987)”.

È quindi arrivata alla proposizione essenziale: “In tale cornice di rinnovato bilanciamento normativo − i cui termini sono rimessi alla discrezionalità del legislatore, nei limiti della ragionevolezza − si colloca la scelta legislativa di abolizione del cosiddetto “filtro di ammissibilità”, ritenuta funzionale al nuovo impianto normativo, specie se riguardata alla luce dei già ricordati principi affermati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. Non è costituzionalmente necessario, infatti, che, per bilanciare i contrapposti interessi di cui si è detto, sia prevista una delibazione preliminare dell’ammissibilità della domanda contro lo Stato, quale strumento indefettibile di protezione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Tale esigenza può essere infatti soddisfatta dal legislatore per altra via: ciò è quanto accaduto con la legge n. 18 del 2015, per un verso mediante il mantenimento del divieto dell’azione diretta contro il magistrato e con la netta separazione dei due ambiti di responsabilità, dello Stato e del giudice; per un altro, con la previsione di presupposti autonomi e più restrittivi per la responsabilità del singolo magistrato, attivabile, in via di rivalsa, solo se e dopo che lo Stato sia rimasto soccombente nel giudizio di danno; per un altro ancora, tramite il mantenimento di un limite della misura della rivalsa. Tanto vale a stornare il paventato pericolo che l’abolizione del meccanismo processuale in esame determini un pregiudizio alla «serenità del giudice» come pure la temuta deriva verso una «giurisprudenza difensiva», ipotesi, questa, che evidentemente oblitera l’elevato magistero proprio di ogni funzione giurisdizionale”.

Questo è bastato alla Consulta per dichiarare infondate le questioni poste dal Tribunale di Genova “in riferimento ai principi di indipendenza e autonomia della magistratura e di terzietà e imparzialità del giudice, di cui agli articoli 101, 104 e 111 della Costituzione”.

Un analogo giudizio è stato riservato a tutte le altre questioni.

Difatti “Infondato è, altresì, il dubbio di costituzionalità avanzato dal giudice a quo in relazione all’articolo 3 della Costituzione, sulla base della ritenuta irragionevolezza intrinseca della soppressione del filtro di ammissibilità e della violazione del principio di eguaglianza rispetto alle «pronunce semplificate di inammissibilità» introdotte dal legislatore in rapporto alle impugnazioni ordinarie. Invero, l’ambito del tutto eterogeneo in cui si muove il raffronto prospettato dal rimettente – e rappresentato dagli artt. 348-bis e 348-ter cod. proc. civ., in relazione all’appello, e dagli articoli 360-bis e 375, primo comma, numeri 1) e 5), cod. proc. civ., riguardo al ricorso per cassazione – rende la censura priva di fondamento. La mera «comunanza logica» evocata dal giudice a quo non vale evidentemente ad accomunare normativamente – e, dunque, a rendere comparabili − strumenti deflattivi e semplificativi innestati dal legislatore nel regime delle impugnazioni civili con l’abrogato meccanismo del “filtro di ammissibilità”, il quale riguardava il giudizio di primo grado, la cui disciplina generale non contempla analoghi meccanismi. E ciò anche a prescindere dalla diversità di scopi degli istituti nonché dalla discrezionalità di cui gode il legislatore nelle scelte in materia processuale, il cui limite della manifesta irragionevolezza, ad ogni modo, non risulta, nel caso in esame, travalicato né in senso assoluto, né “per comparazione”.

È altresì infondata la censura dell’articolo 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015 per violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.), che si verificherebbe, secondo il giudice rimettente, perché la contemporanea pendenza del giudizio contro lo Stato e di quello principale – agevolata dall’eliminazione del “filtro di ammissibilità” – indurrebbe il giudice del secondo giudizio ad astenersi o all’astensione addirittura lo obbligherebbe, nel caso in cui intervenisse nel giudizio intentato nei confronti dello Stato.

A prescindere dalla considerazione che l’identica situazione oggi paventata dal rimettente ben poteva verificarsi anche in vigenza del meccanismo abrogato, è sufficiente osservare che, secondo la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 22 luglio 2014, n. 16627), la pendenza della causa di danno contro lo Stato non costituisce motivo di astensione o ricusazione del giudice autore del provvedimento. E ciò – come recentemente affermato dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 23 giugno 2015, n. 13018 – neppure nel caso di intervento del magistrato in detta causa: non vi è, infatti, un rapporto diretto parte-magistrato, che valga a qualificare il secondo come debitore – anche solo potenziale – della prima.

È infine non fondata la questione in riferimento all’articolo 111 della Costituzione, sotto il profilo del contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.

Il giudice a quo – motivando tale dubbio di legittimità costituzionale sulla base dell’assunto che, abolito il filtro preliminare, i tempi per pervenire ad una pronuncia sull’ammissibilità sono invece quelli del processo ordinario, di «lunghezza eccessiva ed irragionevole» − non considera che detto dubbio dovrebbe per ciò stesso inerire a tutti i giudizi civili ordinari se non preceduti da meccanismi di preliminare delibazione della domanda simili a quello contemplato dall’abrogato art. 5 della legge n. 117 del 1988. Ciò che rende di evidente precarietà logica la premessa argomentativa del rimettente e, dunque, non fondata la questione che da essa si sviluppa”.

 

3. Conclusione

Assai probabilmente la sentenza qui esaminata non avrà il plauso della magistratura.

Fin dall’entrata in vigore della Legge 117/1988 una larga parte dell’ordine giudiziario ha manifestato un’aperta insofferenza verso la regolamentazione ivi contenuta e ne ha sostanzialmente boicottato l’operatività.

Lo stesso è avvenuto dopo la modifica del 2015, accolta da una fittissima salva di bordate, accomunate dall’ossessivo richiamo a garanzie e valori costituzionali che sarebbero stati traditi e dal retropensiero (neanche tanto nascosto, per la verità) che la riforma fosse nient’altro che la manifestazione di un revanscismo della politica che aveva finalmente trovato il modo per regolare a suo vantaggio i conti col potere giudiziario.

Si dirà quindi, verosimilmente, che questa sentenza ha la sua unica giustificazione nella politicizzazione della Consulta e nella sua obbedienza a una sorta di ragion di Stato.

Non si dirà nulla invece della conclamata e sostanziale disapplicazione di una legge nata per offrire ai cittadini una doverosa tutela dai guasti prodotti da un cattivo uso delle prerogative giudiziarie.

Proprio per questo, la sentenza 164/2017 ha un altissimo valore civile oltre che giuridico.

Perché non ci si aspetta di avere giudici così tremebondi da porre a base di un’eccezione di illegittimità costituzionale la loro propensione a decidere nel modo più comodo piuttosto che nel modo giusto.

Perché fa piazza pulita di argomentazioni speciose e inconcludenti che non avevano altro scopo se non quello di conservare un privilegio castale.

Perché ricorda che tutti sono soggetti alla legge, anche quelli che la interpretano e la applicano.

Perché riporta su un piano di correttezza e chiarezza il rapporto tra magistrati e cittadini, i secondi non più inermi di fronte agli abusi dei primi.

Perché, infine, dice senza mezzi termini ai magistrati che non tutto è possibile, non tutto è tollerabile.