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L’appaltatore può garantire al committente l’allontanamento del dipendente sgradito? Soluzione e rischi

appalto
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Indice:

1. Introduzione sulla clausola di gradimento

2. Le argomentazioni della pronuncia sul gradimento

3. Due importanti risvolti ulteriori sulla clausola di gradimento

 

1. Introduzione sulla clausola di gradimento

Nel mese di settembre 2020, il Tribunale di Piacenza, nella persona del Giudice Filippo Ricci, si è pronunciato su un caso avente ad oggetto la nullità di una clausola di gradimento nel contratto di appalto tra due società, che aveva comportato l’allontanamento dalla sede di servizio del dipendente della società appaltatrice, a seguito di semplice richiesta formulata dalla società committente.  

La clausola prevedeva testualmente l’impegno dell’appaltatore ad assicurare “l’allontanamento di qualsiasi dipendente ritenuto inaccettabile dal committente, a sua assoluta discrezione”. A seguito dell’esercizio di quest’ultima, la società appaltatrice allontanava il dipendente dal sito della società committente e continuava a retribuirlo pur lasciandolo a casa.

Il dipendente “sgradito” ricorreva così al Tribunale affinché si pronunciasse sull’invalidità della clausola, condannando la società appaltatrice alla riammissione in servizio e la società committente a tollerarne la presenza presso la propria sede di servizio.

 

2. Le argomentazioni della pronuncia sul gradimento

Il Giudice, in via preliminare, chiarisce che “i due contratti, di appalto e di lavoro, per il tramite della clausola di gradimento, sono in collegamento negoziale tra di loro, sicché per il ricorrente il primo contratto non è res inter alios acta ed anzi il ricorrente (non solo è legittimato, ma anche) ha interesse a far valere la nullità (parziale) dell’appalto con riguardo alla clausola di gradimento”.

Corollario di tale collegamento negoziale è che dalla pronuncia di invalidità della clausola di gradimento, non potrà che derivare la nullità dell’atto unilaterale recettizio di allontanamento pronunciato dal datore di lavoro, ovverosia dalla società appaltatrice.

Con ciò premesso, le argomentazioni seguite dal Tribunale per pronunciarsi a favore del ricorrente, dichiarando dunque nulla la clausola di gradimento discrezionale sopra riportata, sono schematicamente così riassumibili:

  • l’articolo 2103 comma 8 del Codice Civile recita espressamente che “Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”;
  • l’articolo 2103 comma 9 del Codice Civile dispone la nullità di ogni patto contrario ai divieti di cui al medesimo articolo, fra i quali rientra quello esposto al punto precedente.
  • l’articolo 18 comma 5bis del Decreto Legislativo n.276 del 2003 vieta l’appalto in cui l’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori è trasferito dall'interposto appaltatore, che si limita a "portare" i lavoratori nell'appalto e a gestirli amministrativamente, al committente interponente che, come un vero e proprio datore di lavoro, decide chi deve restare e per quanto tempo.

L’ultimo dei punti citati merita qualche breve considerazione.

Sulla scorta del consolidato orientamento della Suprema Corte di Cassazione, al fine di verificare la configurazione del potere organizzativo e direttivo di cui all’articolo 29 comma del Decreto Legislativo n.276 del 2003, a cui il suddetto articolo 18 fa rinvio, occorre la prova che il committente determini le concrete modalità delle prestazioni lavorative dei dipendenti dell’appaltatore, non essendo tale onere assolvibile mediante la  semplice prova dell’esistenza di ordini dell’appaltante a questi ultimi, ben potendo tali disposizioni rientrare fra le legittime prerogative del committente funzionali al controllo del raggiungimento del risultato dell'appalto.

In altre parole, la giurisprudenza è chiara nell’afferma che si rende sempre necessaria un’analisi fattuale del contenuto delle disposizioni impartite dall’appaltante al dipendente per verificare se queste ultime integrino un effettivo potere datoriale in capo al committente (in questo senso, vedi di recente Tribunale di Reggio Emilia, Giudice Cavallari Silvia, sentenza n. 57 del 2020).

In base a quanto detto, a parere di chi scrive, il richiamo operato dal Giudice all’articolo 18 comma 5bis del Decreto Legislativo n.276 del 2003 risulta difficilmente condivisibile. Se è vero che l’integrazione del potere direttivo di cui all’articolo 29 del menzionato Decreto richiede una circostanziata verifica concreta delle modalità fattuali contraddistintive della specifica posizione del dipendente ricorrente, allora ciò vale tanto per il contenuto delle disposizioni impartite dal committente che per le clausole del contratto di appalto favorevoli a quest’ultimo.

Chiosando sul punto, corretto sarebbe limitarsi ad affermare che una clausola di gradimento discrezionale, formulata come quella oggetto del caso di specie, può essere un indice a sostegno della configurabilità di un potere datoriale effettivo in capo al committente. Cosa diversa è però intendere, come pare invece fare il Giudice estensore, che ciò sia necessario e sufficiente ai fini della connotazione di quest’ultimo. Una puntuale analisi della operatività concreta delle clausole contrattuali formali, rimasta estranea al caso qui approfondito, si rende quindi sempre indispensabile.

Al riguardo si segnala la pronuncia del Tribunale di Bologna che ha ritenuto efficace la clausola di gradimento attivata per avere il lavoratore della impresa attivato manualmente uno degli allarmi antincendio, senza che vi fosse alcun principio o sospetto di incendio, né presenza di fumo, dunque senza giustificato motivo. Per approfondimenti: Legittima la clausola di gradimento nei contratti di appalto.

 

3. Due importanti risvolti ulteriori sulla clausola di gradimento

Doveroso fare un riferimento ad hoc su due importanti risvolti ulteriori che emergono dalla vicenda.

Il primo è ravvisabile nel fatto che, trasformando la clausola un regolare appalto in un’ipotesi di illecita somministrazione, il dipendente “sgradito” avrebbe potuto domandare la costituzione forzata del rapporto di lavoro con la società beneficiaria della clausola, ovverosia la società committente.

In realtà, come si è detto al paragrafo che precede, la supposta non genuinità dell’appalto che il Tribunale, in via di obiter dictum, ha voluto sottolineare avrebbe richiesto una verifica fattuale, ulteriore rispetto a quanto non sia avvenuto nel caso di specie, la quale non era però attinente alle domande avanzate dal ricorrente, che non attenevano in nessuna misura al profilo dell’illecita somministrazione.

Secondo aspetto da considerare, derivante dall’accoglimento del ricorso, è l’avvenuta trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica competente, avendo il Giudice ravvisato gli indici probatori della materiale fattispecie di cui all’articolo 603bis comma II del codice penale, rubricata “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”.

Nel caso di specie, il Tribunale specifica che “Risulta, invero, la sottoposizione del lavoratore a "condizioni di lavoro degradanti" la sua dignità, mediante privazione, autoritativa e ingiustificata, del diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto, con le inevitabili ripercussioni (onorabilità, reputazione, autostima) sociali e psicologiche (ma anche il livello retributivo – Euro 950,00 lordi per 40 ore settimanali – appare meritevole di indagine, quanto meno sotto il profilo dello stato di bisogno)”.

Anche su questo punto, il Tribunale ha probabilmente ecceduto nel ritenere possibile sussumere la vicenda in un fatto tipico di reato nato per combattere pratiche dal disvalore molto più pregnante, quali il caporalato. È ben vero, che la fattispecie è oggetto di ampie critiche della dottrina, stante la sua “tipicità debole”, la sua scarsa caratterizzazione in termini di disvalore (con specifico riferimento al comma II) e la vaghezza degli elementi comuni del fatto tipico di reato. Cionondimeno, un’esegesi della disposizione maggiormente orientata alle finalità che ne hanno segnato la recente evoluzione porta a dover porre l’attenzione su un’applicazione più accorta della fattispecie, anche e soprattutto per evitare fenomeni di degradazione penale in attrito con i principi costituzionali fondamentali della materia. 

In conclusione, la vicenda dimostra come l’apposizione di una clausola di gradimento discrezionale a favore del committente, magari scritta e firmata “senza pensarci troppo su”, oltre ad essere invalida, comporta seri rischi sia per l’appaltatore che, ancor maggiormente, proprio per chi il patto intendeva favorire, ovverosia l’appaltante.