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Appalto fittizio: il rischio “tripletta” è dietro l’angolo

Marina di Ravenna
Ph. Ermes Galli / Marina di Ravenna

Il rischio derivante dall’appalto fittizio

Mascherare una somministrazione di personale dietro un fittizio contratto di appalti di servizi porta l’imputato a rischiare di essere condannato per ben 3 reati:

  1. L’intermediazione illegale di manodopera, reato contravvenzionale di cui all’articolo 18 del Decreto Legislativo n. 276 del 2003, che punisce l’esercizio dell’attività di somministrazione da parte di soggetti non autorizzati;
  2. La frode fiscale, reato tributario previsto dall’art. 2 del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, che punisce chi “al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi”;
  3. L’associazione a delinquere, di cui all’articolo 416 del Codice Penale.

Questo il quadro che emerge dalla pronuncia n. 8809 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, depositata il 4 marzo 2021.

 

La vicenda e la contestazione dei reati

La vicenda ha origine da una verifica fiscale eseguita dalla Guardia di Finanza di Ravenna nei confronti di una S.r.l. operante nel settore della gestione di servizi alberghieri, all’esito della quale le Fiamme Gialle prospettavano l’esercizio di un’illecita attività di somministrazione di manodopera dissimulata attraverso la stipulazione di contratti di appalto di servizi, per il periodo compreso tra il 2013 e il 2016.

A fronte delle prestazioni rese, la società aveva emesso fatture documentanti prestazioni di servizi relativi a contratti di appalto ma, data la natura fittizia di questi ultimi, in realtà le operazioni realmente effettuate consistevano nella semplice somministrazione di personale. Per tale ragione, le fatture contestate dovevano considerarsi come relative ad operazioni inesistenti, quindi integranti il reato tributario di frode fiscale.

Sulla base di questo quadro, il GIP emetteva così decreto per il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, che veniva annullato dal Tribunale solo relativamente all’importo del sequestro eseguito. Gli indagati proponevano quindi ricorso per Cassazione avverso all’ordinanza del Tribunale del Riesame, lamentando, con diversi motivi, l’erronea valutazione giudiziale circa la sussistenza del fumus commissi delicti.

 

La pronuncia della Cassazione: il fumus dei tre reati

La Cassazione si pronunciava sul ricorso rigettandolo e chiarendo che la valutazione del fumus era sta ben effettuata dal Tribunale, che:

  1. Aveva ritenuto sussistente il fumus per il reato di intermediazione illegale di manodopera sulla base di diverse circostanze che hanno fatto propendere il giudicante a ritenere che la società si era limitata alla mera gestione amministrativa dei lavoratori impiegati presso le committenti, senza svolgere alcuna reale organizzazione della prestazione lavorativa, realmente effettuate dai vari committenti.

Fra tali circostanze, il Tribunale richiamava: (a) l’indicazione da parte degli stessi committenti del personale da assumere, spesso già alle dipendenze del committente; (b) l’inserimento stabile del personale nel ciclo produttivo del committente; (c) la proprietà in capo al committente delle attrezzature necessarie per l’espletamento dell’attività ovvero prese a noleggio dallo stesso committente; d) l’organizzazione da parte del committente dell’attività del personale; e) la mancanza di assunzione del rischio d’impresa da parte della società degli indagati.

  1. Aveva correttamente applicato i principi di diritto relativi al concorso del reato di intermediazione illegale di manodopera con il delitto di dichiarazione fraudolenta, realizzato mediante fatture IVA rilasciate per operazioni inesistenti.

Con riguardo all’IVA, ricorda la Cassazione, la dichiarazione fraudolenta comprende l’inesistenza soggettiva della prestazione, ovverosia quella relativa alla diversità tra chi ha effettuato la prestazione (il fittizio committente) e chi è invece indicato in fattura (il fittizio appaltatore);

  1. Aveva correttamente ritenuto esistente il fumus per il reato associativo, rilevandone i tre elementi costitutivi: (i) la struttura organizzativa, individuata in quella societaria; (ii) il programma criminoso, consistente nello svolgere l’attività di gestione amministrativa di contratti d’appalto meramente fittizi attraverso la creazione di una realtà fiscale non corrispondente a quella commerciale; e (iii) l’accordo associativo di realizzazione del programma da parte dei soci.

La pronuncia della Cassazione, sulla scorta dei principi di diritto già cristallizzatisi, fotografa quindi a cosa rischiano di andare incontro quanti mettano in piedi una società per realizzare le condotte di cui in narrativa. Un “chi fa da sé, fa per tre” che forse è meglio evitare.