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Le condizioni di legittimità della detenzione cautelare: un confronto tra la visione dei giudici italiani e quella dei giudici europei dei diritti umani

custodia cautelare
custodia cautelare

Premessa

L’uso del potere cautelare nei procedimenti penali italiani è da anni oggetto di dibattito.

La custodia carceraria è la misura cautelare più utilizzata, a dispetto del principio che assegna alla detenzione carceraria la funzione di ultima trincea, a cui ricorrere solo quando sia stata accertata e adeguatamente motivata l’impossibilità di ricorrere a misure meno afflittive. La custodia carceraria e gli arresti domiciliari rappresentano da soli quasi il 60% delle misure emesse, oscurando e relegando sullo sfondo le numerose possibilità alternative offerte dal codice di rito. Ben il 10% dei procedimenti “cautelati” si conclude con un esito che sconfessa, sia pure a posteriori, la necessità della misura. Se è vero che in alcuni casi questo può essere accaduto per sviluppi istruttori non preventivabili inizialmente, è ugualmente vero che nella maggior parte dei casi era al contrario prevedibile un esito tale da rendere inutile la cautela.

Nel 2019, come documentato da Errorigiudiziari.com, le Corti di appello italiane hanno ritenuto fondate oltre mille richieste di riparazione per ingiusta detenzione e alle loro decisioni consegue l’esborso di somme rilevanti con danno a carico dell’intera collettività.

Si levano sempre più spesso voci preoccupate che si estendono a ciascuno dei segmenti della “filiera” cautelare.

Si riflette anzitutto sulla sua stessa regolamentazione normativa.

Si osservano criticamente gli indirizzi interpretativi che rappresentano il diritto vivente in materia di gravità indiziaria, di esigenze cautelari e di scelta della misura più adeguata a fronteggiarle.

Si esprimono preoccupazioni per le conseguenze che il ricorso rilevante alla custodia carceraria provoca nella vita degli individui che ne sono destinatari, soprattutto coloro che, in virtù di regimi normativi differenziati (come è quello previsto dall’articolo 41-bis Ord. Penit.) o particolari circuiti regolamentati prevalentemente da circolari amministrative (come è quello dell’alta sicurezza), sono assoggettati a una detenzione più restrittiva di quella ordinaria che rende più penosa e alienante la loro condizione.

È un dibattito che ha trovato una sponda oltre confine negli anni non lontani in cui il sovraffollamento carcerario italiano ha superato la soglia della tollerabilità ed è costato al nostro Paese ripetuti e sempre più pressanti warning (congiunti a plurime condanne per violazione dell’articolo 3 della CEDU) da parte della Corte europea dei diritti umani, subissata da ricorsi la cui ragione giustificativa essenziale stava appunto nella disumanità della condizione imposta alla quasi totalità della popolazione carceraria italiana.

Il legislatore di quegli anni è stato chiamato a intervenire e lo ha fatto con una serie di misure tra le quali spicca la legge 47/2015 (contenente modifiche del regime normativo delle misure cautelari) emessa nel pieno dell’emergenza umanitaria in ambito carcerario.

A cosa servisse questo intervento normativo e quali fossero i presupposti di fatto che l’hanno sostanzialmente imposto lo spiega assai bene la proposta di legge (prima firmataria on. Donatella Ferranti) da cui è derivato: “Il problema carcerario in Italia è cronico e assume dimensioni sempre più preoccupanti, con istituti penitenziari sovraffollati e condizioni detentive sempre meno degne di un Paese civile. Urge trovare soluzioni immediate, in grado non più solo di lenire temporaneamente il problema ma di risolverlo definitivamente. In questa direzione occorre anzitutto una riflessione culturale. Negli ultimi anni la situazione carceraria si è ulteriormente aggravata sotto la pressione di un’ansia di sicurezza, talora assecondata con troppa disinvoltura, che ha germinato una legislazione emergenziale soprattutto preoccupata di prevenire e di punire, senza particolare attenzione per le ricadute sanzionatorie complessive. La stessa prassi giudiziaria si è talora mostrata fin troppo sensibile all’ondata securitaria, favorendo ulteriormente l’espansione dell’uso della leva detentiva a fini sanzionatori e cautelari. Non si tratta allora più soltanto di arginare la piaga del sovraffollamento, che da anni attanaglia il nostro sistema carcerario, né semplicemente di assicurare modalità detentive che rispettino i più basilari diritti dell’individuo, ma più in generale si deve ridare senso e dignità alla forma più drastica di restrizione dei diritti dell’individuo che il nostro ordinamento conosce […] È necessario superare quelle forme surrettizie di presunzione giurisprudenziale che di fatto enucleano la sussistenza di esigenze cautelari dalla sola gravità del reato commesso e puntare su una valutazione rigorosa, che sappia valorizzare il principio della tendenziale prevalenza della libertà sulla restrizione. L’intervento normativo deve quindi tendere a riallineare il sistema italiano agli standard previsti dalla Costituzione e a quelli previsti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva dalla legge n. 848 del 1955, e dalla sua giurisprudenza. È in queste coordinate che si inscrive la presente proposta di legge”.

È un messaggio chiarissimo che chiama in causa responsabilità dello stesso legislatore e della giurisdizione penale, entrambi giudicati “colpevoli” di avere creato un sistema originato da ansie di sicurezza e tale da smarrire l’equilibrio tra la protezione del corpo sociale e le garanzie di libertà dei singoli individui che lo compongono.

Particolarmente preoccupanti appaiono i passaggi della proposta che danno per scontate condizioni di fatto in contrasto frontale con principi costituzionali di primissimo rango: una legislazione emergenziale preoccupata soprattutto di prevenire e punire, prassi giudiziarie che consentono l’espansione della leva detentiva a fini sanzionatori e comunque dimentiche della tendenziale prevalenza della libertà sulla detenzione.

Nelle intenzioni dei suoi ispiratori, la legge 47 doveva pertanto servire a porre robusti argini contro quelle derive, a favorire un uso meditato e rigorosamente circoscritto del potere cautelare, a ripristinare la natura di strumento di ultima istanza della detenzione carceraria, a rendere nuovamente effettivi gli standard costituzionali e convenzionali.   

Sono passati cinque anni da allora e si deve purtroppo constatare che quella riforma normativa non ha raggiunto, se non in modo insufficiente, alcuno dei suoi scopi.

Di più: sembra diventata marginale la sensibilità di cui la medesima riforma era frutto, sostituita da un atteggiamento istituzionale (da molti autorevoli studiosi definito come una forma di populismo penale) che assegna al carcere e alla pena la funzione di dare una risposta rassicurante a bisogni sociali veri o presunti.

La conseguenza è che il sovraffollamento carcerario sta nuovamente crescendo[1], la detenzione cautelare carceraria o domiciliare rappresenta il 58% delle misure cautelari complessivamente emesse[2], non accennano a diminuire le condanne dello Stato al ristoro delle ingiuste detenzioni[3].

 

I principi affermati nella materia cautelare dalla Corte di Strasburgo

Come si è già detto nel paragrafo precedente, si ritiene piuttosto diffusamente che le cause dell’eccesso cautelare proprio del nostro Paese debbano essere parimenti individuate in politiche legislative e prassi giurisprudenziali che nell’eterno conflitto tra difesa sociale e libertà individuali pendono eccessivamente a favore della prima.

Per chi si proponga di comprendere meglio questo fenomeno può essere utile allargare lo sguardo ai principi, creati attraverso una pluriennale produzione giurisprudenziale, dai giudici europei dei diritti umani, unici interpreti legittimati a trarre dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo il senso ultimo più appropriato di ogni sua disposizione.

Ebbene, in molteplici sue decisioni, la Corte di Strasburgo ha reso chiarissimo che in un sistema realmente rispettoso dei diritti umani la detenzione preventiva è uno strumento eccezionale, cui ricorrere solo a fronte della dimostrata inadeguatezza di misure meno afflittive e comunque sulla base di ragioni massimamente concrete ed argomentate in modo convincente ed effettivo.

In estrema sintesi e limitando l’excursus ai temi più importanti, i giudici dei diritti umani hanno precisato che:

  • la protrazione della detenzione, anche di quella inizialmente legittima, è ammissibile solo in presenza di elementi concreti che ne rivelino un’effettiva necessità di interesse pubblico (Contrada c. Italia, 24 agosto 1999) poiché, in caso contrario, diventa lo strumento per un’inammissibile anticipazione dell’espiazione della pena (Khudobin c. Russia, 26 ottobre 2006);
  • la motivazione della detenzione deve essere particolarmente penetrante riguardo all’effettiva esistenza di ragioni sufficienti e rilevanti (Gerard Bernard c. Francia, 26 settembre 2006), non deve limitarsi ad argomenti generali e astratti (Clooth c. Belgio, 12 dicembre 1991) né essere fondata su formule stereotipate o sommarie (Solmaz c. Turchia, 16 gennaio 2007) né consistere nella mera ripetizione dei criteri previsti dalla legge (Smatana c. Repubblica Ceca, 27 settembre 2007);
  • questi obblighi motivazionali esistono anche in presenza di presunzioni normative di pericolosità sociale come quella contenuta nell’articolo 275, comma 3, codice penalep (Labita c. Italia, 6 aprile 2000);
  • quanto alle specifiche esigenze cautelari, il pericolo di sviluppo dell’attività criminosa deve essere desunto da elementi concreti quali, ad esempio, la continuazione prolungata degli illeciti, l’entità dei danni causati alla vittima, la pericolosità dell’imputato (Dumont Maliverg c. Francia, 31 maggio 2005) o i suoi precedenti specifici (Clooth c. Belgio, citata);
  • a sua volta, il pericolo di interferenze con il corso della giustizia è concepibile all’inizio dell’attività investigativa ma è poi destinato a svanire quando il procedimento prosegua e la raccolta delle prove si avvicina al termine (Nevmerzhitsky c. Ucraina, 5 aprile 2005); anche tale pericolo deve essere comunque fondato su elementi concreti, non può essere proclamato solo in astratto (Becciev c. Moldavia, 4 ottobre 2005) e deve andare ben oltre la semplice possibilità teorica (Klamecky c. Polonia, 3 aprile 2003).

Principi chiari, saldamente ancorati al buon senso e ad una visione sostanziale delle garanzie spettanti a chi subisce un procedimento penale.

Così chiari e condivisibili da lasciare immaginare una loro ampia condivisione da parte della giurisdizione penale italiana e prima ancora dalla nostra legislazione.

Nel paragrafo successivo si verificherà se sia davvero così.

 

La giurisprudenza italiana in materia cautelare

Le prassi applicative ed ancor prima le norme vigenti in questa materia, ove esaminate al di là dell’apparenza formale, dimostrano una sensibilità di sistema piuttosto distante da quella dei giudici dei diritti umani.

Si consideri anzitutto l’articolo 303 cod. proc. pen., cioè la norma che disciplina i termini di durata massima della custodia cautelare. Sembrerebbe avere essenzialmente una funzione di limite nel senso che, stabilendo termini invalicabili per ciascuna fase procedimentale, può essere considerata come un argine all’arbitrio giudiziario.

In realtà, se pure questa funzione ha una sua qualche consistenza, la stessa logica della norma risulta contraddittoria con i principi affermati in sede europea. Si vuole intendere che l’avallo legislativo di una detenzione preventiva che si protragga per la durata dell’intero processo è già di per sé profondamente incoerente con l’esigenza di non trasformare le misure cautelari detentive in una modalità di espiazione della pena.

Quest’impressione di incoerenza aumenta se si considera che, sempre ai sensi dell’articolo 303, la durata complessiva della custodia cautelare può arrivare a sei anni per i delitti puniti più gravemente.

La distanza diventa infine siderale allorché si prenda in considerazione il successivo articolo 304 il quale, ammettendo a fronte di determinate evenienze e necessità procedurali, la sospensione dei termini previsti dall’articolo 303, ne consente esplicitamente il raddoppio, sia pure introducendo una clausola generale di salvaguardia in virtù della quale la custodia cautelare non può in nessun caso superare i due terzi del massimo della pena prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza.

Non occorrono calcoli aritmetici perché sia evidente che il nostro ordinamento consente detenzioni preventive spaventosamente lunghe e ne legittima la protrazione per l’intero giudizio.

Si potrebbe obiettare che l’incoerenza di cui si parla è un fatto interamente imputabile al legislatore e al quale i giudici sono estranei. Le prassi applicative e i consolidati indirizzi giurisprudenziali dimostrano tuttavia che la nostra magistratura opera spesso in modo da potenziare quell’incoerenza e portarla ai suoi massimi limiti.

Ancora una volta si preferisce evitare una rassegna sistematica e si ricorre ad un unico esempio, quello del cosiddetto giudicato cautelare. L’espressione, di creazione giurisprudenziale, si riferisce alla condizione di chi abbia esperito (o abbia scelto di non esperire, facendo decorrere infruttuosamente i termini previsti) tutte le reazioni consentite dal diritto nazionale contro provvedimenti che abbiano inciso sulla sua libertà personale.

Si crea in tal modo una situazione di tendenziale immutabilità dello status libertatis dell’interessato che può essere rimossa solo in presenza di eventi nuovi, tali da mutare significativamente lo status quo ante.

A cosa serva il giudicato cautelare lo chiarisce benissimo una pronuncia della quinta sezione penale della Corte di Cassazione del 2 ottobre 2014. Vi si afferma che “L’operazione risponde a chiara necessità di economia processuale: si vuole evitare la riproposizione di istanze aventi ad oggetto una stessa misura cautelare, fondate sugli stessi presupposti già vagliati dal giudice dell’impugnazione e respinte. In altre parole la preclusione endoprocessuale è finalizzata ad evitare ulteriori interventi giudiziari, in assenza di una modifica della situazione di riferimento, rendendo inammissibili istanze fondate su motivi che hanno già formato oggetto di apposita valutazione”.

Il giudicato cautelare è quindi uno strumento di sbarramento che ha l’unico scopo di salvaguardare i giudici dalla necessità di pronunciarsi nuovamente su questioni cautelari già trattate e respinte. Gli è perciò estranea qualsiasi funzione di garanzia, anzi ne è l’antitesi.

Certo, si potrebbe astrattamente provare a presentare una nuova istanza fondata sul decorso del tempo, da considerarsi, soprattutto a fronte di lunghi periodi, come un evento nuovo, idoneo a rimuovere il giudicato cautelare.

Si potrebbe, altroché. Ma la risposta più probabile (si veda, tra le altre, Cass. pen. Sez. 2^, 30.11.2011, n. 47416) sarebbe che “Il mero decorso del tempo non è elemento rilevante perché la sua valenza si esaurisce nell’ambito della disciplina dei termini di durata massima della custodia stessa, e quindi necessita di essere considerato unitamente ad altri elementi idonei a suffragare la tesi dell’affievolimento delle esigenze cautelari”.

Si potrebbe fare riferimento al tempo trascorso dalla commissione del presunto reato. Ma il giudice direbbe che tale periodo, se deve essere preso in considerazione all’atto dell’emissione dell’ordinanza cautelare, perde ogni rilevanza ai fini della revoca o della sostituzione della misura (sentenza n. 47416 citata).

Un’altra possibile carta potrebbe essere quella della pregressa incensuratezza dell’istante ma la risposta sarebbe che non si tratta di un elemento nuovo, poiché già esistente all’atto dell’emissione della misura. Un lampo di gioia potrebbe illuminare il volto del difensore all’idea di potere utilizzare il buon comportamento carcerario tenuto dal suo assistito. E tuttavia, per Cass. pen., Sez. 3^, 8 gennaio 2015 n. 257, “l’osservanza delle prescrizioni connesse al regime custodiale è, a ben vedere, il minimo che ci si possa attendere da parte di chi vi è sottoposto sì da non poter essere segnalato come se si trattasse di condotta eccezionale”.

Si potrebbe infine far leva, se si ha la fortuna di disporne, su ragioni che all’uomo della strada sembrerebbero eccezionali, come ad esempio la condizione di un detenuto che sia genitore di un figlio minore il quale, in sua assenza ed in assenza dell’altro genitore, finisca in stato di abbandono. Eppure,

anche in questo caso, la Corte di cassazione (stessa pronuncia n. 257), concedendosi argomentazioni sociologiche o comunque metagiuridiche, osserverebbe che “si rende comunque necessaria una dimostrazione specifica del preteso stato di “abbandono” ove si verifichi una contestuale assenza dell’altro genitore (posto che, a ben vedere, la condizione di affidamento di un minore ad uno solo dei genitori è ormai quasi fisiologica in una società come quella attuale ove sono molti i genitori separati o addirittura “single” – per non esservi stato mai, ab initio, per le più varie ragioni, il secondo genitore). Nello specifico, quindi, è del tutto assertiva la frase del ricorrente secondo cui, “sussistendo l’impossibilità della madre di prestare assistenza al minore”, conclusione inevitabile dovrebbe essere quella di trasformare l’attuale stato custodiale in carcere con quello agli arresti domiciliari”.

È chiaro che il panorama giurisprudenziale è per sua natura variegato e ospita sensibilità e visioni differenti, talune delle quali assolutamente rispettose dei principi costituzionali e convenzionali.

Ma gli indirizzi esposti sono lì a ricordare quanto peso abbiano tuttora quelle ansie securitarie di cui parlava l’on. Ferranti nella proposta che ha portato alla Legge 47 e quali pesanti conseguenze ne derivino.

Cesare Beccaria scriveva: “Il carcere è la semplice custodia d’un cittadino finchè sia giudicato reo, e questa custodia essendo essenzialmente penosa, deve durare il minor tempo possibile e dev’essere meno dura che si possa. Il minor tempo dev’esser misurato e dalla necessaria durazione del processo e dall’anzianità di chi prima ha un diritto di esser giudicato”.

Il suo monito è stato dimenticato.

 

Che fare?

Il dibattito sugli eccessi cautelari e le tante riflessioni colte e documentate di studiosi prestigiosi non hanno finora sortito l’auspicato cambio di passo e lo stesso legislatore del 2015 ha visto frustrate le sue aspettative.

Eppure bisogna ugualmente continuare a tenere alta l’attenzione sul tema e continuare ad alimentare l’idea che esista un altrove possibile, più rispettoso della dignità umana e dei principi fondamentali sui quali si regge la nostra comunità.

È ugualmente indispensabile che i difensori di chi subisce un provvedimento cautelare potenzialmente adottino linee reattive di elevata efficacia e inizino fin dalle primissime fasi a inserire esplicitamente tra gli argomenti di contrasto gli indirizzi giurisprudenziali tracciati dalla Corte di Strasburgo così da poterne più facilmente rilevare la violazione in ogni fase e grado del giudizio e, ove occorra, anche dinanzi alla stessa Corte.

È auspicabile che la giurisdizione assecondi con sempre maggiore convinzione un uso limitato e meditato del potere cautelare e respinga ogni suggestione che gli assegni scopi diversi da quelli fisiologici.

Serve insomma uno sforzo corale e ognuno può dare il suo apporto.

 

[1] In base alle ultime rilevazioni statistiche del Ministero della Giustizia, aggiornate al 30 ottobre 2020, sono presenti nei penitenziari italiani 54.868 detenuti a fronte di una capienza regolamentare dichiarata pari a 50.553 posti. Lo stesso Ministero si premura tuttavia di precisare in calce alla tabella che “Il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato”. È una precisazione che accompagna tutte le rilevazioni statistiche e, secondo stime di vari osservatori, lo scostamento tra dato dichiarato e dato reale è pari ad alcune migliaia di posti.

[2] Il dato è ricavato dalla relazione, predisposta dal Ministero della Giustizia ed inviata al Parlamento, sulle misure cautelari emesse nell’anno 2019. Vi si attesta che nel 2019 sono state emesse 94.197 misure cautelari personali così divise: 620 custodie cautelari in luoghi di cura o strutture (0,6% del totale); 31.264 custodie cautelari in carcere (33,6%); 23.047 custodie agli arresti domiciliari (24,5%); 12.358 divieti o obblighi di dimora (13,1%); 12.235 allontanamenti dalla casa familiare o divieti di avvicinamento alla parte offesa (13%); 14.204 obblighi di presentazione alla polizia giudiziaria (15,1%); 109 divieti di espatrio (0,1%).

[3] Dalla medesima relazione citata nella nota 2, si ricava che nell’anno 2019 sono state emesse 1.026 decisioni di accoglimento di cui 489 ormai definitive e 537 ancora soggette ad impugnazione. Si apprende inoltre che nello stesso anno lo Stato ha pagato a titolo di riparazione per ingiusta detenzione l’importo complessivo di € 43.486.630 (a fronte di un importo di € 33.373.830 per l’anno precedente.)