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Le condizioni generali nell’ambito dell’ordinamento penitenziario

1. PREMESSA

Possono definirsi condizioni generali, nell’ambito dell’ordinamento penitenziario, l’insieme di condizioni minime che devono sussistere affinché i reclusi possano interagire al meglio con gli operatori nel perseguimento degli obiettivi istituzionali[2].

Il legislatore ha dettagliatamente disciplinato, nel capo II della legge n. 354/75, le condizioni generali di trattamento individuandole, in particolare, nei seguenti aspetti:

§ le caratteristiche degli edifici penitenziari;

§ i locali di soggiorno e di pernottamento;

§ il vestiario e corredo;

§ l’igiene personale;

§ l’alimentazione;

§ la permanenza all’aperto;

§ il servizio sanitario;

§ le attrezzature per attività di lavoro, di istruzione e di ricreazione.

2. L’EDILIZIA PENITENZIARIA ED I LOCALI DI SOGGIORNO E DI PERNOTTAMENTO

Tra le condizioni generali[3] del trattamento l’edilizia[4] penitenziaria è quella a cui la normativa attribuisce maggiore importanza (art. 5 O.P.)[5].

Il modello di edilizia penitenziaria è sempre stato funzionale al raggiungimento degli obiettivi che il legislatore ha inteso assegnare alla pena[6].

Per quanto concerne la situazione attuale, l’esistenza di edifici penitenziari idonei non solo ad assicurare la custodia dei detenuti ma anche a prepararli ad un sistema di vita risocializzante risulta essere la premessa essenziale per un’efficace opera di rieducazione del condannato.

In tal senso l’art. 5 della legge penitenziaria stabilisce, al primo comma, che gli istituti penitenziari devono essere realizzati in modo da accogliere un numero non elevato di detenuti ed internati e ciò sia per ragioni di trattamento sia per ragioni di politica finanziaria.

Ai sensi, poi, del secondo comma dell’art. 5 O.P., i predetti istituti devono essere dotati oltre che di locali per le esigenze della vita individuale anche di locali per lo svolgimento della vita in comune[7].

In particolare, per esigenze di vita individuale devono intendersi non solo quelle del pernottamento o della sistemazione durante il tempo non dedicato ad una qualunque attività, ma anche quelle che più opportunamente possono essere assolte al di fuori dell’altrui presenza (DI GENNARO).

La seconda previsione, invece, trova giustificazione nel fatto che trattamento individualizzato[8] non è sinonimo di trattamento in isolamento. Sarebbe, d’altra parte, quanto meno anomalo che l’istituto penitenziario, concepito come luogo di preparazione per il definitivo reinserimento sociale, non prevedesse già, al suo interno, lo sviluppo di relazioni interpersonali.

L’art. 6 dell’ordinamento penitenziario[9] prevede, poi, al primo comma, che in particolare i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente[10], illuminati con luce naturale ed artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; aerati, riscaldati, ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale. I detti locali devono essere, inoltre, tenuti in buono stato di conservazione e di pulizia.

Nel vigente regolamento di esecuzione, nonostante importanti novità siano state introdotte con gli artt. 6, 7 e 8 che specificano nel dettaglio i criteri da seguire per quanto concerne le condizioni igieniche, l’illuminazione dei locali ed i servizi igienici, non si rinvengono indicazioni in ordine agli impianti planimetrici degli istituti da costruirsi[11], nonché in ordine agli eventuali rifacimenti e ammodernamenti di quelli esistenti.

Per quanto concerne, in particolare, i locali destinati a pernottamento essi consistono in camere dotate di uno o più posti[12].

In linea di massima è previsto che agli imputati sia garantito il pernottamento in camere a un posto, almeno che la situazione particolare dell’istituto non lo consenta (art. 6, comma 4, O.P.). Tale previsione trova la propria ragione d’essere nella eventuale esigenza di isolamento giudiziario e, contemporaneamente, nella intenzione di agevolare il presunto desiderio dell’imputato di pernottare da solo (DI GENNARO). Poiché la norma è dettata in funzione di garanzia per il singolo, non è escluso che l’imputato, se lo desideri, possa essere collocato assieme agli altri.

Per quanto la normativa non lo preveda specificatamente, i nuovi stabilimenti (e quelli esistenti da riadattare) dovrebbero assicurare la creazione di strutture integrate nell’ambiente circostante, cioè dovrebbero trovarsi in una situazione di interconnessione con altri servizi infrastrutturali urbani e territoriali di completamento.

Gli istituti penitenziari dovrebbero, altresì, presentare caratteristiche di adattabilità al mutamento ed all’avanzamento dei programmi di trattamento, cioè dovrebbero avere flessibilità d’uso.

La struttura edilizia dovrebbe, inoltre, necessariamente contribuire a contrastare gli effetti deterioranti della deprivazione sensoriale.

In tal senso, gli ambienti dovrebbero comunque essere differenziati al fine di evitare l’uniformità di strutture e permettere varietà di esperienza visiva.

Negli istituti dovrebbero essere sempre inclusi spazi verdi.

Naturalmente, il rapporto funzionale esistente fra struttura edilizia e servizio penitenziario comporta che la prima contemperi i problemi legati alla gestione dei programmi di trattamento con quelli della custodia e della sicurezza.

3. LE CONDIZIONI IGIENICO–SANITARIE

Premessa

Altra importantissima condizione del trattamento è da rinvenirsi nel corretto esercizio dell’onere posto a carico dell’Amministrazione di assicurare soddisfacenti condizioni igienico-sanitarie nell’ambito degli istituti penitenziari (artt. 7 – 11 O.P.; artt. 6 – 20 reg. esec.), mediante l’attuazione di tutte quelle misure di prevenzione e protezione sanitaria atte a salvaguardare lo stato di benessere fisico e psichico di coloro che vi sono ristretti.

Vestiario e corredo

Secondo quanto previsto dall’art. 7 O.P. l’Amministrazione penitenziaria ha il compito di provvedere a fornire ad ogni detenuto biancheria, vestiario ed effetti d’uso in quantità sufficiente, in buono stato di conservazione e di pulizia e tali da assicurare la soddisfazione delle normali esigenze di vita. Curerà, inoltre, che gli effetti di uso abbiano caratteristiche adeguate al variare delle stagioni e alle particolari condizioni climatiche delle zone in cui gli istituti sono ubicati (art. 9, comma 2, reg. esec.).

L’art. 7 O.P. prevede, poi, che l’abito sia di tessuto in tinta unita e di foggia decorosa[13].

In realtà, i detenuti sono autorizzati ad indossare abiti di loro proprietà purché puliti e convenienti, cosa che normalmente accade.

Può essere, semmai, concesso l’abito da lavoro quando ciò sia reso necessario dall’attività svolta.

Il legislatore del ’75 precisa, inoltre, che l’abito fornito agli imputati deve essere comunque diverso da quello dei condannati e degli internati[14] e che i minorenni vestono in ogni caso abiti di foggia civile.

L’ultimo comma dell’art. 7 O.P., secondo il quale “i detenuti e gli internati possono essere ammessi a far uso di corredo di loro proprietà e di oggetti che abbiano particolare valore morale o affettivo”, è motivato dall’esigenza di riconoscere il valore psicologico e morale rivestito dal possesso e dall’uso di oggetti di proprietà personale.

Gli articoli 9 e 10 del regolamento di esecuzione dettagliano la disciplina in materia meglio di quanto accadesse in passato.

Ciascun detenuto e internato dispone di adeguato corredo per il proprio letto. Gli oggetti che costituiscono il corredo del letto, i capi di vestiario e la biancheria personale, nonché gli altri effetti di uso che l’Amministrazione è tenuta a corrispondere ai detenuti e agli internati, sono indicati, con specifico riferimento alla loro qualità, in tabelle, distinte per uomini e donne, stabilite con decreto ministeriale (art. 9, comma 1, reg. esec.).

Per ciascun capo o effetto deve essere prevista la durata d’uso (art. 9, comma 3, reg. esec.).

L’Amministrazione sostituisce, anche prima della scadenza del termine di durata, i capi e gli effetti deteriorati. Se, però, l’anticipato deterioramento è imputabile al detenuto o all’internato, questi è tenuto a risarcire il danno (art. 9, comma 4, reg. esec.).

Il sanitario dell’istituto può prescrivere variazioni qualitative e quantitative del corredo del letto, dei capi di biancheria e di vestiario in relazione a particolari bisogni dei singoli soggetti (art. 9, comma 5, reg. esec.).

È prevista, poi, la possibilità per l’Amministrazione di provvedere a fornire abiti civili ai dimittendi, qualora essi non siano in condizioni di provvedervi a loro spese (art. 9, comma 10, reg. esec.).

Il regolamento di esecuzione al comma 2 dell’art. 10 prevede, peraltro, che gli istituti siano dotati di un servizio di lavanderia[15].

Il terzo comma dell’art. 10 reg. esec., infine, ribadisce che è ammesso il possesso di oggetti di particolare valore morale o affettivo qualora, però, non abbiano un consistente valore economico e non siano incompatibili con l’ordinato svolgimento della vita nell’istituto (ad es. la fede).

Igiene personale e dei locali di pernottamento

L’igiene fa parte delle condizioni basilari di vita, il cui rispetto realizza il precetto dell’umanizzazione ed è condizione non secondaria perché si possano raggiungere gli obiettivi del trattamento[16] (DI GENNARO).

In tal senso, le innovazioni delle previsioni attuali in materia di igiene personale corrispondono, peraltro, ad un preciso dettato delle Regole Penitenziarie Europee (artt. 17 e 18) che raccomandano di rendere possibile ai detenuti una completa autonomia in relazione alle necessità fisiologiche ed alla pulizia. Rispetto alle previsioni contenute nella legge e nel primo regolamento di esecuzione (D.P.R. n. 431/76) è necessario porre in evidenza le importanti novità introdotte dal nuovo regolamento di esecuzione.

Secondo il vecchio regolamento esecutivo l’adeguatezza e la sufficienza dell’igiene personale dei detenuti e degli internati dovevano essere determinate dal regolamento interno, il quale, pertanto, prevedeva i tempi e le modalità di accesso ai servizi di bagno e di doccia, di barbiere e di parrucchiere.

Il nuovo regolamento esecutivo, pur mantenendo il rinvio al regolamento interno per la previsione dei tempi e delle modalità di accesso ai servizi di barbiere e di parrucchiere e confermando che l’obbligo della doccia può essere imposto per motivi igienico-sanitari (art. 8, comma 5, reg. esec.), ha riconosciuto al detenuto il diritto di gestire autonomamente la propria igiene personale.

Il detenuto, infatti, deve poter disporre di un vano annesso alla camera nel quale devono essere predisposti servizi igienici dotati di lavabo e di doccia (negli istituti femminili anche di bidè) e forniti d’acqua corrente, dei quali il detenuto può usufruire liberamente quando e come ritenga opportuno (art. 7, commi 1 e 2, reg. esec.). Il solo limite a tale libertà è costituito dall’utilizzazione dell’acqua calda, per la quale il detenuto dovrà attenersi agli orari stabiliti dal regolamento interno (art. 8, comma 4, reg. esec.)[17]. Il primo comma dell’art. 6 reg. esec. prescrive che i locali in cui si svolge la vita dei detenuti siano igienicamente adeguati.

Il secondo comma dello stesso articolo stabilisce che le finestre dei locali devono consentire il passaggio di aria e luce naturali[18].

I commi 3 e 4 sempre dell’art. 6 reg. esec. prevedono che le fonti di luce artificiale siano gestite dai detenuti e dagli internati, compatibilmente con un adeguato regime di controlli.

L’Amministrazione penitenziaria deve, poi, provvedere a mettere a disposizione di ogni detenuto gli oggetti e gli strumenti necessari alla pulizia della propria persona e della propria camera[19] (art. 6, comma 5, reg. esec.).

In ciascun istituto sono assicurati i servizi per il periodico taglio dei capelli e la rasatura della barba[20], per le donne è organizzato il servizio di parrucchiere. Di tali servizi si può usufruire periodicamente secondo le necessità (art. 8, comma 2, reg. esec.)[21].

L’art. 6, comma 7, reg. esec. prevede, infine, che se le condizioni logistiche lo consentono siano assicurati reparti per non fumatori.

4. L’ALIMENTAZIONE

L’alimentazione, ancor più dell’igiene personale e degli oggetti di vestiario e di corredo, ha sempre costituito un tema centrale di quanti hanno mosso critiche alle istituzioni penitenziarie.

Il legislatore del ’75, con la previsione dell’art. 9, ha cercato, quindi, di evitare che il detenuto possa subire pregiudizio in questo suo diritto a causa di deficienze organizzative dell’Amministrazione.

L’art. 9 della legge penitenziaria prevede, infatti, che:

“Ai detenuti e agli internati è assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima.

Il vitto è somministrato, di regola, in locali all’uopo destinati.

I detenuti e gli internati devono avere sempre a disposizione acqua potabile.

La quantità e la qualità del vitto giornaliero sono determinate da apposite tabelle approvate con decreto ministeriale.

Il servizio di vettovagliamento è di regola gestito direttamente dall’amministrazione penitenziaria.

Una rappresentanza dei detenuti o degli internati designata mensilmente per sorteggio[22], controlla l’applicazione delle tabelle e la preparazione del vitto.

Ai detenuti e agli internati è consentito l’acquisto, a proprie spese, di generi alimentari e di conforto, entro i limiti fissati dal regolamento. La vendita dei generi alimentari o di conforto deve essere affidata di regola a spacci gestiti direttamente dall’amministrazione carceraria o da imprese che esercitano la vendita a prezzi controllati dall’autorità comunale. I prezzi non possono essere superiori a quelli comunemente praticati nel luogo in cui è sito l’istituto. La rappresentanza indicata nel precedente comma, integrata da un delegato del direttore, scelto tra il personale civile dell’istituto, controlla qualità e prezzi dei generi venduti nell’istituto”.

Anche il vigente regolamento di esecuzione ha introdotto rilevanti novità in materia.

Sono lontani, infatti, i tempi in cui le limitazioni alimentari venivano previste dal legislatore come sanzioni disciplinari per mantenere l’ordine e la sicurezza all’interno dell’istituto penitenziario (artt. 153 e 154 Regolamento del 1931).

Ai detenuti ed agli internati il vitto giornaliero è assicurato incondizionatamente, senza alcuna possibilità di deroga.

La quantità e la qualità del vitto possono variare solo a causa delle specifiche esigenze legate all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro dei ristretti o alla fede religiosa (art. 11, comma 4, reg. esec.), ma mai per ragioni punitive. Al fattore età è dovuta, per esempio, la più intensa frequenza dei pasti prevista per i minorenni (quattro al giorno anziché tre: art. 11, comma 3, reg. esec.). Il legislatore ha tentato di garantire la reale osservanza del diritto in questione attraverso la previsione di apposite tabelle approvate con decreto ministeriale, in conformità del parere dell’Istituto superiore della nutrizione (art. 11, comma 4, reg. esec.).

In questo senso, a dimostrazione di quanto il legislatore della riforma penitenziaria si sia voluto appunto discostare dall’esperienza precedente ha istituito un secondo e, forse, più efficace, sistema di controllo. Si è previsto, infatti, che i detenuti e gli internati tramite una rappresentanza[23] designata per sorteggio e rinnovata quadrimestralmente (art. 67, comma 2, reg. esec.) controllino sia la rispondenza della qualità e della quantità dei cibi a ciò che è stabilito nelle tabelle ministeriali sia le operazioni di prelievo e di utilizzazione dei generi vittuari (art. 12, comma 3, reg. esec.).

Analoga garanzia è prevista anche per il c.d. sopravvitto, cioè, per l’acquisto a spese dei detenuti e degli internati che ne facciano richiesta di generi alimentari e di conforto ulteriori rispetto a quelli ordinariamente forniti dall’Amministrazione per il mantenimento dei ristretti.

Gli stessi generi alimentari ed oggetti possono, poi, esser ricevuti dall’esterno previo controllo all’atto della consegna (art. 14, commi 1 e 5, reg. esec.). Per tali acquisti e ricezioni il regolamento esecutivo fissa, in applicazione del principio di parità di condizioni di vita fra i detenuti, limiti quantitativi e qualitativi, i quali, però, non sono applicabili alle detenute madri per il fabbisogno dei bambini che hanno con sé (art. 14, comma 10, reg. esec.).

Il legislatore precisa anche che il detenuto o l’internato non possono accumulare il cibo in quantità eccedente il proprio fabbisogno settimanale (art. 14, comma 9, reg. esec.).

Tanto il servizio di vitto quanto quello di sopravvitto possono essere gestiti o direttamente dall’Amministrazione penitenziaria o, a seguito di gara di appalto, da imprese esterne[24].

5. PERMANENZA ALL’APERTO

Nel Regolamento del 1931 anziché di permanenza all’aria aperta si parlava di passeggio nei cortili[25].

Oggi la situazione è diversa.

Far trascorrere, infatti, ai soggetti ristretti all’interno dell’istituto penitenziario parte della loro giornata all’aperto risponde, prima di tutto, ad esigenze umanitarie.

È noto, altresì, che la prolungata custodia in ambienti chiusi può provocare sui detenuti, a causa della intensa deprivazione sensoriale, che essi subiscono, effetti psicologici molto negativi ed il rischio di danni irreversibili alle capacità visive.

Da tali preoccupazioni sembra muovere l’art. 16, comma 2, reg. esec., secondo cui la permanenza all’aperto deve avvenire, se possibile, in spazi non interclusi fra fabbricati e deve essere assicurata per periodi adeguati, anche attraverso le valutazioni dei servizi sanitario e psicologico, come strumento di contenimento degli effetti negativi della privazione della libertà personale.

Del diritto all’aria aperta, perciò, l’Amministrazione penitenziaria non può disporre in alcun modo (salva la possibilità di attenuarlo, a non meno di un’ora al giorno, per motivi eccezionali, con provvedimento motivato del direttore dell’istituto[26] ex art. 16, comma 3, reg. esec.), neanche ove si tratti di soggetti in isolamento per ragioni sanitarie, disciplinari o investigative.

Per gli isolati cambiano, invece, le modalità di esercizio del diritto (non più in gruppo ma individualmente).

L’art. 10 O.P. non si limita a proporre la permanenza all’aperto come condizione necessaria per una detenzione accettabile, ma promuove quest’ultima al rango di potenziale elemento del trattamento[27]. Tale considerazione la si evince dall’esplicito invito, rivolto ai direttori di istituto, ad utilizzare la permanenza facendo svolgere ai detenuti esercizi fisici, evitando inutili e monotone passeggiate senza meta.

Il concetto è, d’altra parte, ripreso anche dal regolamento esecutivo, secondo il quale il tempo di permanenza all’aperto è utilizzato, oltre che per le finalità di cui all’art. 10 O.P., per lo svolgimento di attività trattamentali e, in particolare, per attività sportive, ricreative e culturali, secondo i programmi predisposti dalla direzione (art. 16, comma 1, reg. esec.).

6. SERVIZIO SANITARIO[28]

La tutela della salute, il dettato costituzionale e la posizione del detenuto

La tutela della salute[29] rappresenta una tematica non facilmente riconducibile ad un sistema dogmatico omogeneo[30].

La stessa nozione giuridica di tutela della salute non è, peraltro, stata ancora definita in maniera univoca. Infatti, il problema è stato avvertito con differente intensità nei vari momenti storici e nei diversi ordinamenti.

Le definizioni che nel corso del tempo si sono alternate testimoniano come il passaggio da una nozione individuale (necessità del singolo di essere curato) ad una collettiva (interesse della comunità ad avere individui sani) abbia significato un diverso atteggiamento delle istituzioni verso la questione sanitaria.

Il ruolo dello Stato è mutato. Mentre fino al XIX secolo gli interventi statuali erano di tipo assistenziale oggi, invece, lo Stato si è assunto la piena gestione della sanità[31].

La sanità consiste nell’efficienza psico-fisica dell’individuo quale presupposto indispensabile per una completa espressione della sua personalità e socialità. La tutela della salute si esprime nell’azione dello Stato diretta a prevenire e reprimere quelle situazioni che, causando la malattia, impediscono al soggetto una vita piena e dignitosa (POIDOMANI).

La stessa Carta Costituzionale italiana ha fatto propri i principi della Conferenza internazionale della Sanità. Il primo comma dell’art. 32 Cost. afferma:

“la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

In tale previsione diritto ed interesse non sono contrapposti ma reciprocamente integrati: lo stato di salute non riguarda solo il singolo individuo, ma si riflette sulla collettività stessa.

Da questa configurazione discende una duplicità di piani di tutela: difesa della persona dalla malattia e difesa della collettività da tutti quegli elementi ambientali o individuali che possono ostacolare un pieno godimento del diritto. Nemmeno le condizioni economiche del singolo possono costituire un ostacolo alla realizzazione di una piena tutela. In tal senso, la seconda parte del primo comma dell’art. 32 Cost. prevede, in forza dei principi di solidarietà e di partecipazione, la gratuità delle prestazioni sanitarie a favore di chi versi in stato di indigenza.

Il secondo comma dell’art. 32 Cost. stabilisce: “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

La prima parte della disposizione contiene una riserva di legge e pone un preciso vincolo alla pubblica amministrazione nel consentire determinati trattamenti in vista di superiori interessi pubblici, che sono i soli che possono giustificare la compressione del diritto di libertà individuale; la seconda parte della disposizione, diretta allo stesso legislatore, impone, in ogni caso, il rispetto della persona.

Naturalmente la tutela della salute, nelle sue implicazioni costituzionali, non si esaurisce in questi soli profili.

Il diritto alla salute, si è detto, non si riduce solo alla difesa dello stato biopsichico, ma comprende, altresì, il bisogno di personalità e socialità dell’individuo.

L’art. 32 Cost., letto in rapporto agli artt. 2 e 3 Cost., si sostanzia, infatti, in una serie di principi che possono così riassumersi:

a) il diritto alla salute è un fondamentale diritto erga omnes[32]. Tale connotazione ha consentito, peraltro, l’estensione del diritto alla salute sino alla configurazione di un diritto alla salubrità dell’ambiente in cui opera l’individuo[33] e, sul piano processuale, la possibilità di impugnazione dei provvedimenti della pubblica amministrazione ritenuti lesivi avanti al giudice ordinario[34];

b) la salute è un fondamentale diritto verso lo Stato, chiamato non solo a predisporre strutture e mezzi idonei ad assicurare una condizione ottimale di sanità individuale ma anche ad attuare una politica efficace di prevenzione, di cura, di riabilitazione e di intervento sulle possibili cause di turbativa dell’equilibrio psico-fisico della popolazione. In tal modo il diritto alla salute si atteggia quale “diritto sociale” che attua nel settore sanitario il principio di eguaglianza fra i cittadini;

c) la tutela della salute è, alla luce dell’art. 3, secondo comma, Cost., uno strumento di elevazione della dignità sociale dell’individuo e, pertanto, costituisce interesse della collettività;

d) la tutela della salute, per il richiamo dell’art. 3 al rispetto della persona umana, assume un carattere personalistico cosicché il mancato riconoscimento di idonei mezzi di tutela per singoli aspetti specifici di protezione viola la previsione costituzionale relativamente alla persona[35].

La giurisprudenza costituzionale ha, tuttavia, precisato che, pur essendo il diritto alla salute compreso tra le posizioni soggettive direttamente garantite dalla Costituzione, la tutela riconosciuta dal precetto costituzionale può incontrare dei limiti oggettivi sia nella stessa organizzazione dei servizi sanitari sia nelle esigenze di concomitante tutela di altri interessi.

Le connaturali esigenze di sicurezza che sono il presupposto della detenzione possono, quindi, condurre ad un affievolimento della tutela della salute in quegli aspetti che, limitando fortemente la volizione dell’individuo, non consentono una normale fruizione dell’assistenza sanitaria.

In tal senso, la caratteristica che distingue la posizione del recluso dalla totalità dei cittadini, consiste appunto nella mancanza di autodeterminazione alle prestazioni mediche che si sostanzia nella:

a) impossibilità di scegliere il luogo di cura: mentre, infatti, il libero cittadino ha il diritto di scegliersi il luogo di cura, la scelta, per il detenuto, è, invece, effettuata dall’Amministrazione penitenziaria e dall’autorità giudiziaria sulla base delle prevalenti esigenze di sicurezza e dell’adeguatezza del servizio sanitario penitenziario[36];

b) limitazione del diritto alla scelta del medico curante: mentre il libero cittadino gode, al riguardo, di un pieno diritto fondato sul rapporto fiduciario che si viene a creare tra utente del servizio e sanitario, tanto da poter scegliere un altro medico senza fornire alcuna giustificazione qualora venga meno tale rapporto fiduciario, il detenuto, invece, fruisce dell’opera dei medici penitenziari e la possibilità di avere un proprio medico di fiducia è normalmente subordinata alla sua disponibilità economica (art. 17 reg. esec.).

I predetti aspetti, tuttavia, non esauriscono tutti i profili in cui si sostanzia la tutela.

Infatti, come abbiamo già detto, diritto alla salute è concetto che esprime la garanzia di una pluralità di situazioni soggettive assai differenziate tra cui[37]: il diritto alla propria integrità psico fisica; il diritto alla salubrità dell’ambiente; il diritto degli indigenti alle cure gratuite; il diritto all’informazione sul proprio stato di salute e sui trattamenti che il medico vuole effettuare; il diritto alla partecipazione; il diritto di accesso alle strutture; il diritto del malato di comunicare con i propri congiunti.

Pare opportuno, poi, rammentare l’aspetto che costituisce il risvolto negativo della tutela della salute: il diritto di non essere curato.

La configurabilità di tale ultima situazione soggettiva è controversa dal punto di vista costituzionale.

L’argomento rileva ancora una volta il delicato rapporto che lega il diritto alla salute alla tutela della libertà individuale ed alle esigenze collettive.

Infatti, il diritto a non farsi curare, ad essere malato come espressione di libertà, viene ad essere superato nel momento in cui la situazione patologica del singolo mette in pericolo la salute della collettività. In tal caso la legge prevede la possibilità di interventi sanitari obbligatori e coattivi (c.d. T.S.O.) con il solo limite del rispetto della dignità umana (art. 32 Cost).

Se è dato delineare la valenza del diritto alla salute nel nostro ordinamento quale è garantita al cittadino e connotare in negativo la posizione del detenuto, appare imprescindibile osservare come tale connotazione non esaurisca interamente tutte le problematiche esistenti in subiecta materia.

Singolarmente, infatti, la tutela della salute della persona reclusa assume una valenza particolarmente rilevante in relazione a quella che è la concezione della pena riconosciuta nella nostra Costituzione all’art. 27, comma 3, che recita:

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Tale norma costituzionale impone una concezione della pena non meramente retributiva o preventiva ma attenta ai bisogni umani del condannato in vista del suo possibile reinserimento sociale. È naturale osservare come, allora, l’umanizzazione della pena e la rieducazione del detenuto postuli necessariamente la tutela del suo diritto alla salute. La condizione di benessere psico-fisico diviene, infatti, condizione imprescindibile per l’attività volta al recupero sociale dell’individuo. La stessa esecuzione della pena nei suoi caratteri sanzionatori e disciplinari deve cedere pertanto il passo di fronte alla malattia[38].

La tutela del diritto alla salute e l’organizzazione sanitaria in ambito penitenziario[39]

La Costituzione italiana, come si è detto, considera la salute come una condizione indispensabile per il più completo svolgimento ed integrazione della personalità.

La salute è un bene primario non solo del singolo individuo ma anche della società ed è, dunque, doveroso un intervento dello Stato volto a realizzare un’organizzazione sanitaria adeguata alle necessità dei cittadini come singoli e come parte della collettività.

È compito del legislatore assicurare il conseguimento dei fini predetti attraverso la predisposizione di mezzi e l’individuazione di strutture.

In tal senso, l’organizzazione sanitaria per l’erogazione delle prestazioni a favore del cittadino è stata disegnata compiutamente dalla legge n. 833/78 che ha istituito il servizio sanitario nazionale.

Nel settore penitenziario, invece, l’intervento del legislatore in materia di assistenza e organizzazione sanitaria è stato alquanto frammentario ed episodico.

Nel Regolamento del 1931, infatti, non vi era una regolamentazione organica dell’assistenza sanitaria erogata ai detenuti.

Nella legge n. 354/75, che rappresenta il tentativo di attuazione del dettato costituzionale in materia di esecuzione della pena, solo pochi articoli trattano specificamente dell’organizzazione sanitaria. In particolare, l’art. 11 O.P., rubricato “Servizio sanitario”, e composto da ben 13 commi, prevede, in maniera disorganica, una disciplina a larghe maglie.

Al di fuori di tale disposizione vi sono una serie di norme che, pur riguardando la tutela della salute, in quanto dirette in sostanza a regolare il rapporto di compatibilità dello stato di malattia con la detenzione, non attengono all’aspetto organizzativo.

Nonostante i numerosi interventi che hanno apportato nel tempo diverse modifiche alla normativa penitenziaria e prescindendo dal D.P.R. n. 309/90 si può notare come la materia sanitaria sia stata solo marginalmente interessata da mutamenti normativi che hanno riguardato settori connessi, per quanto secondari, al profilo organizzativo.

L’Amministrazione penitenziaria ha tentato di risolvere gli urgenti problemi di omogeneizzazione e razionalizzazione della funzione sanitaria emanando un notevole numero di circolari fino ad arrivare alla riforma del Servizio sanitario penitenziario.

La riforma della medicina penitenziaria

ll trasferimento delle funzioni sanitarie nei confronti dei detenuti e degli internati dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale, è l’atto conclusivo di un lungo processo di riflessione e di ricerca che ha visto progressivamente coinvolti organi politici, studiosi e addetti ai lavori di questo settore.

Nel 1998 la legge n. 419, all’art. 5 aveva affidato ad appositi decreti legislativi il “riordino della medicina penitenziaria”. Mediante la realizzazione di forme progressive d’inserimento all’interno del Servizio sanitario nazionale di personale e di strutture sanitarie dell’Amministrazione penitenziaria, il legislatore intese comprendere l’avvio di tale riordino nell’ambito di un più vasto intervento riformatore riguardante l’intero assetto del sistema assistenziale pubblico.

In attuazione di queste disposizioni, il d.lgs. 22 giugno 1999, n. 230 inseriva tale settore nel Sistema sanitario nazionale, definendo gli ambiti di intervento degli enti interessati – Regioni, Ministero della Salute e Ministero della Giustizia. All’azienda sanitaria locale veniva assegnata la funzione di erogare le prestazioni sanitarie, mentre l’Amministrazione penitenziaria manteveva compiti relativi alla sicurezza.

Lo stesso decreto legislativo 230/1999 disponeva il transito immediato, a decorrere dall’1 gennaio 2000, delle funzioni relative alla prevenzione e all’assistenza e cura dei detenuti tossicodipendenti e prevedeva il trasferimento delle altre funzioni sanitarie al termine di un periodo di sperimentazione da realizzarsi presso alcune Regioni.

Nel 2002 con un decreto interministeriale giustizia-salute, presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, veniva costituita una Commissione mista di studio per il rinnovamento del Servizio sanitario penitenziario con l’obiettivo di definire nuovi modelli organizzativi in materia di tutela della salute della popolazione detenuta, fondati sul principio di assicurare la medicina di base con medici dell’Amministrazione penitenziaria, affidando al Servizio sanitario nazionale la medicina specialistica. La Commissione ha elaborato un ventaglio di proposte che hanno costituito la base anche per una bozza di disegno di legge.

Nel mese di maggio 2007 con la costituzione, presso il Ministero della salute, di un gruppo tecnico riprendeva il cammino per l’attuazione del decreto legislativo 230/1999.

Con la legge finanziaria 2008 – art. 2, commi 283 e 284 – si confermava il definitivo transito in questione da attuarsi mediante l’emanazione di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri per la definizione delle modalità e dei criteri per il trasferimento dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale di tutte le funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali, afferenti alla sanità penitenziaria.

In data 1 aprile 2008 veniva emanato il suddetto decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri corredato dalle linee di indirizzo per interventi negli ospedali psichiatrici giudiziari (O.P.G.) e nella case di cura e custodia e dalle linee di indirizzo per gli interventi del Servizio sanitario nazionale a tutela della salute dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari, e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale.

Al fine di avviare i percorsi indicati dal D.P.C.M., è stato costituito, fin dal mese di aprile 2008, a Roma, presso il Coordinamento commissione salute della Conferenza delle Regioni e Province autonome (struttura associativa interregionale), un gruppo tecnico di rappresentanti delle Regioni al quale sono stati invitati a partecipare, delegati del Ministero della Salute e del Ministero della Giustizia.

Nell’ambito della Conferenza Unificata è stato, inoltre, costituito con atto n. 81CU del 31 luglio 2008 un tavolo di consultazione permanente, con l’obiettivo di garantire l’uniformità nell’intero territorio nazionale degli interventi e delle prestazioni sanitarie e trattamentali nei confronti dei detenuti, degli internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale, e un Comitato paritetico interistituzionale con funzioni di attuazione delle linee guida per gli interventi negli Ospedali psichiatrici giudiziari e nelle case di cura e custodia di cui all’allegato C del D.P.C.M.

Il 2 febbraio 2009 la Regione Toscana, coordinatrice interregionale in materia di sanità, ha inviato una prima bozza di uno schema di convenzione tipo per l’utilizzo da parte delle aziende sanitarie locali (nel cui territorio sono ubicati gli istituti ed i servizi sanitari di riferimento) di locali adibiti all’esercizio delle funzioni sanitarie. Dopo l’esame, nel corso di alcune riunioni del tavolo di consultazione permanente, la versione definitiva dello schema è stata approvata dalla Conferenza Unificata il 29 aprile 2009.

Cosa è cambiato con la riforma

Tutte le funzioni sanitarie svolte dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Dipartimento della Giustizia Minorile sono state trasferite al Servizio sanitario nazionale, comprese quelle concernenti il rimborso alle comunità terapeutiche, sia per i tossicodipendenti e per i minori affetti da disturbi psichici, delle spese sostenute per il mantenimento, la cura e l’assistenza medica dei detenuti di cui all’articolo 96, commi 6 e 6 bis, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni, nonché per il collocamento, disposto dall’autorità giudiziaria, nelle comunità terapeutiche per minorenni e per giovani adulti di cui all’articolo 24 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272. Le Regioni garantiscono l’espletamento delle funzioni trasferite attraverso le aziende sanitarie locali nel cui ambito di competenza sono ubicati gli istituti e servizi penitenziari e i servizi minorili di riferimento.

I principi di riferimento della riforma

I principi di riferimento della riforma possono così sintetizzarsi:

§ il riconoscimento della piena parità di trattamento, in tema di assistenza sanitaria, degli individui liberi e degli individui detenuti ed internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale;

§ la necessità di una piena e leale collaborazione interistituzionale;

§ la complementarietà degli interventi a tutela della salute, con gli interventi mirati al recupero sociale del soggetto sottoposto a limitazione della libertà personale;

§ la garanzia, compatibilmente con le misure di sicurezza, di condizioni ambientali e di vita rispondenti ai criteri di rispetto della dignità della persona;

§ la Garanzia della continuità terapeutica per l’efficacia degli interventi di cura dal momento dell’ingresso in carcere e/o in una struttura minorile e dopo la scarcerazione e immissione in libertà.

Gli obiettivi di salute e i livelli essenziali di assistenza

Altri concetti cardine sono:

§ promozione della salute, anche all’interno dei programmi di medicina preventiva e di educazione sanitaria, mirata all’assunzione di responsabilità attiva nei confronti della propria salute;

§ promozione della salubrità degli ambienti e di condizioni di vita salutari, pur in considerazione delle esigenze detentive e limitative della libertà;

§ prevenzione primaria, secondaria e terziaria, con progetti specifici per patologie e target differenziati di popolazione, in rapporto all’età, al genere e alle caratteristiche socioculturali, con riferimento anche alla popolazione degli immigrati;

§ promozione dello sviluppo psico-fisico dei soggetti minorenni sottoposti a provvedimento penale;

§ riduzione dei suicidi e dei tentativi di suicidio, attraverso l’individuazione dei fattori di rischio.

Il Personale della c.d. Presidio Sanitario Locale Penitenziario

Il personale sanitario operante negli istituti penitenziari è costituito da più figure professionali.

La realtà del Presidio Sanitario Locale Penitenziario costituisce un chiaro esempio della mancanza, in subiecta materia, di una visione sinergica e d’insieme delle varie professionalità esistenti a fronte di una disciplina per comparti creatasi nel tempo. Gran parte della situazione attuale è da imputarsi, infatti, a scelte legislative che hanno spiegato i loro effetti in termini di frammentarietà e disorganicità della disciplina del servizio sanitario.

Il personale medico e paramedico

Si è visto, come nell’organizzazione delle strutture penitenziarie, si potesse individuare prima un’area sanitaria mentre oggi un Presidio Sanitario Locale Penitenziario.

Al Presidio Sanitario Locale Penitenziario, quale dirigente, viene normalmente preposto un responsabile sanitario.

All’interno dell’area esplicano la loro attività, tuttora, vari operatori e principalmente: medici di guardia, medici specialisti, infermieri professionali e generici.

7. CONCLUSIONI

Il legislatore prevede esplicitamente che per attuare un trattamento ispirato ad umanità e pienamente rispondente alle finalità costituzionali debbano esservi delle condizioni minime che devono, appunto, sussistere affinché i reclusi possano interagire al meglio con gli operatori nel perseguimento degli obiettivi istituzionali.

In tal senso, come abbiamo detto, il legislatore ha dettagliatamente disciplinato, nel capo II della legge n. 354/75, le condizioni generali di trattamento. Purtroppo, in molte occasioni le previsioni normative rimangono, invece, inattuate atteso che il sovraffollamento endemico e la scarsità di risorse economiche da destinare alle strutture penitenziarie determinano continue criticità che gli operatori sono chiamati a risolvere, alla meglio, ricorrendo alla propria professionalità[40].

Sarebbe, quindi, opportuno che quanto prima il legislatore adotti provvedimenti finalizzati a incidere anche e soprattutto sulle cause strutturali della degenerazione dello stato delle carceri come sostenuto, peraltro, con forza, anche dal Presidente della Repubblica.

[1] Dirigente penitenziario – curatore della Rivista on-line Diritto & Civiltà, presente all’indirizzo www.dirittopenitenziario.it.

[2] C. BRUNETTI – M. ZICCONE, Diritto Penitenziario, Simone editore, Napoli, 2010.

[3] Cfr. G. DI GENNARO - R. BREDA - G. LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1997, 61 e ss.

[4] Per edilizia si intende l’insieme dei procedimenti e delle tecniche che hanno come scopo la realizzazione di strutture architettoniche.

[5] L’espressione “edilizia penitenziaria” va usata con esclusivo riferimento alle costruzioni appositamente nate per l’esplicazione della funzione penitenziaria. Gli albori di una vera e propria edilizia penitenziaria risalgono al XVIII secolo e sono contestuali al sorgere della nuova concezione del carcere come luogo ove si scontano le pene. Per mera notizia storica va rilevato che il partito architettonico del monastero, costituito da una serie di celle singole in uno spazio comune ricoperto, deve legittimamente considerarsi l’archetipo di quello carcerario.

[6] Il tema dell’edilizia penitenziaria ha, infatti, un valore emblematico, poiché le strutture degli edifici carcerari sono da sempre la testimonianza più evidente della funzione retributiva svolta storicamente dal sistema penale.

[7] Con la sentenza del 16 luglio 2009, la CEDU, nel caso SULEJMANOVIC c. Italia (ricorso n. 22635/03), dove il ricorrente lamentava le condizioni della propria detenzione nel carcere di Rebibbia a Roma, ha accertato la violazione dell’art. 3 della Convenzione per sovraffollamento carcerario. Questo è il primo caso di accertamento di una simile violazione nei confronti dell’Italia. Il caso è emblematico e di grande attualità in considerazione della grave situazione di sovraffollamento attualmente esistente nelle carceri italiane.

[8] Non è sinonimo di trattamento individuale.

[9] Le disposizioni dell’art. 6 legge penitenziaria riflettono anche nella forma le analoghe previsioni contenute nelle Regole Minime dell’O.N.U. (nn. 9 – 14) e del Consiglio di Europa (nn. 8 – 13). Si deve però rilevare che i parametri di riferimento per determinare le caratteristiche dei locali non sono quantificati. Essi si richiamano a criteri di normalità desumibili dall’avanzamento dei livelli di vita raggiunti dalla società esterna (DI GENNARO).

[10] L’edificio carcerario e tutto il complesso dovrà essere la risultante dell’articolazione dei diversi settori che compongono il carcere stesso, studiato nella dinamica della vita carceraria per cui, sarà l’analisi dei servizi e dei percorsi e della funzionalità degli stessi ad indicare i volumi di sviluppo (MASTRANTUONO).

[11] Ad es. schemi lineari, poligonali, stellari, ad Y, a croce e doppia croce, a palo telegrafico.

[12] Il superamento dei modelli edilizi che sono all’origine della storia dell’architettura penitenziaria ha comportato, infatti, come si è già osservato, l’abbandono del rigido criterio di collocare ciascun detenuto in un locale singolo (cella o cubicolo) (DI GENNARO). L’esperienza, però, ha dimostrato che in molti casi è conveniente disporre dell’alternativa fra locali singoli e locali pluriposto. Ciascuno di essi ha una sua funzione che si specifica in relazione al tipo di trattamento da attuare ed in relazione alle diverse esigenze psicologiche dei soggetti. Conseguentemente particolare cura dovrà, secondo quanto stabilito dal legislatore ed in conformità a quanto previsto dalle Regole minime del Consiglio d’Europa e a quelle dell’O.N.U., essere impiegata nella scelta di quei soggetti che sono da collocarsi in camere a più posti.

[13] Naturalmente il richiamo alla tinta del tessuto ed alla foggia decorosa assumono significato in rapporto alla lontana tradizione che prevedeva l’abito a strisce. Cfr. M. PASTOUREAU, La stoffa del diavolo, ed. Il Melangolo, 1993.

[14] La differenza fra l’abito fornito agli imputati e quello fornito ai condannati e agli internati è una derivazione del principio costituzionale che vieta ogni assimilazione fra gli imputati e gli altri reclusi.

[15] L’organizzazione di un servizio di lavanderia risponde, infatti, ad una concreta e comprensibile esigenza dei detenuti e garantisce, inoltre, la diminuzione dei pacchi in entrata ed in uscita dagli istituti con conseguente economia nell’utilizzazione del personale di Polizia penitenziaria adibito ai relativi controlli.

[16] Igiene (gr. Hygidinein, essere in buona salute) è una branca della medicina che studia i mezzi atti a mantenere e migliorare la salute individuale e collettiva. Per adempiere ai suoi compiti l’azione della igiene si esplica secondo tre direttrici principali: attuazione della normativa che tenda a migliorare l’organismo e a renderlo meno sensibile alle offese ambientali (igiene individuale); miglioramento delle condizioni ambientali di vita e di lavoro, cercando di modificarle per renderle più favorevoli all’organismo (igiene dell’ambiente e del lavoro); ricerca e scoperta delle cause morbigene esogene e dei metodi per neutralizzarle e prevenirle (igiene pubblica e sociale).

[17] L’inserimento della doccia nell’ambito del vano dei servizi annesso alle singole camere presenta un indubbio vantaggio nella promozione dell’igiene individuale, indispensabile in comunità numerose e con le caratteristiche degli istituti penitenziari. Non vanno, inoltre, trascurati anche i vantaggi di gestione di questa previsione: si eliminano, infatti, i problemi e le tensioni connesse alle limitazioni all’accesso alle docce e alla difficoltà di soddisfare le esigenze di tutti in sezioni talvolta molto numerose. Si superano, infine, anche le difficoltà tecniche, manifestatesi molto frequentemente in passato, circa la manutenzione dei locali doccia in stato di efficienza accettabile, quando l’uso collettivo degli stessi fosse stato particolarmente intenso.

[18] L’uso eccezionale di schermature dovrà, quindi, rispondere a dimostrate ragioni di sicurezza e le schermature stesse dovranno presentare determinate caratteristiche enunciate nel comma stesso.

[19] I detenuti e gli internati, che siano in condizioni fisiche e psichiche che lo consentano, provvedono direttamente alla pulizia delle loro camere e dei relativi servizi igienici. Per la pulizia delle camere nelle quali si trovano soggetti impossibilitati a provvedervi, l’Amministrazione si avvale, a volte, dell’opera retribuita di detenuti e internati.

[20] Può essere consentito, nei locali di pernottamento, l’uso del rasoio elettrico autoalimentato. Tale previsione legislativa ha evidente sostanza regolamentare e tende ad ovviare al problema dell’uso non controllato della corrente elettrica.

[21] Il rispetto della dignità della persona sottoposta a pena detentiva, sancito dall’art. 1, comma 1, O.P. fa sì che i reclusi non possano essere obbligati ad adeguarsi a modelli estetici predeterminati dall’Amministrazione penitenziaria. In tal senso, il taglio dei capelli e della barba non si configura più come una imposizione (art. 69 Regolamento del 1931) ma come un normale servizio offerto ai detenuti (art. 8, commi 2 e 4, reg. esec.) salvo quando sia funzionale alla tutela di interessi aventi carattere igienico–sanitario.

[22] L’art. 12 reg. esec., rubricato “Controllo sul trattamento alimentare e sui prezzi dei generi venduti nell’istituto”, prevede in particolare che:

“1. La rappresentanza dei detenuti e degli internati prevista dal sesto comma dell’articolo 9 della legge è composta di tre persone.

2. Negli istituti in cui la preparazione del vitto è effettuata in più cucine, è costituita una rappresentanza per ciascuna cucina.

3. I rappresentanti dei detenuti e degli internati assistono al prelievo dei generi vittuari, ne controllano la qualità e la quantità, verificano che i generi prelevati siano interamente usati per la confezione del vitto.

4. Ai detenuti e agli internati lavoratori o studenti, facenti parte della rappresentanza, sono concessi permessi di assenza dal lavoro o dalla scuola per rendere possibile lo svolgimento del loro compito; per i detenuti e gli internati che lavorano per l’Amministrazione penitenziaria tali permessi orari sono retribuiti.

5. La rappresentanza suddetta e il delegato del direttore, indicato nel settimo comma dell’articolo 9 della legge, presentano, congiuntamente o disgiuntamente, le loro osservazioni al direttore.

6. La direzione assume mensilmente informazioni dall’autorità comunale sui prezzi correnti all’esterno relativi ai generi corrispondenti a quelli in vendita da parte dello spaccio o assume informazioni sui prezzi praticati negli esercizi della grande distribuzione più vicini all’istituto. I prezzi dei generi in vendita nello spaccio, che sono comunicati anche alla rappresentanza dei detenuti e degli internati, devono adeguarsi a quelli esterni risultanti dalle informazioni predette”.

[23] Per alcuni studiosi si tratterebbe di una vera e propria commissione; v. in tal senso D. PATETE, Manuale…, cit., 332; v. anche C. BRUNETTI – M. ZICCONE, Diritto penitenziario, Simone, 2010.

[24] Quest’ultima è oggi l’ipotesi di gran lunga più ricorrente.

[25] Si coglieva, quindi, anche nella denominazione, il residuo di una concezione remota, secondo cui ai detenuti era concesso di uscire dalle celle solo per passeggiare in file ordinate e in silenzio.

[26] Il provvedimento del direttore dell’istituto viene comunicato al Provveditore regionale ed al magistrato di sorveglianza ex art. 16, comma 3, reg. esec..

[27] L’art. 10 O.P. prevede al primo comma che: “Ai soggetti che non prestano lavoro all’aperto è consentito di permanere almeno per due ore al giorno all’aria aperta. Tale periodo di tempo può essere ridotto a non meno di un’ora al giorno soltanto per motivi eccezionali”.

[28] Sul sito intitolato “L’altro diritto, Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità” all’indirizzo: http://dex1.tsd.unifi.it/altrodir/index.htm cfr. P. POIDOMANI, La revoca delle misure alternative alla detenzione: l’attività del Tribunale di Sorveglianza di Firenze; cfr. anche la ricerca di R. ANDREANO, Tutela della salute e organizzazione sanitaria nelle carceri: profili normativi e sociologici, sul sito intitolato “L’altro diritto, Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità” all’indirizzo: http://dex1.tsd.unifi.it/altrodir/index.htm.

[29] Cfr. la ricerca di R. ANDREANO, Tutela della salute e organizzazione sanitaria nelle carceri: profili normativi e sociologici, sul sito intitolato “L’altro diritto, Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità” all’indirizzo: http://dex1.tsd.unifi.it/altrodir/index.htm.

[30] Numerose, infatti, sono le discipline che se ne occupano: la medicina, la politica, il diritto, la sociologia, l’economia, la psicologia. Nell’ambito giuridico, ad esempio, la tutela della salute viene in considerazione non solo nel diritto costituzionale e penale ma anche nel diritto amministrativo, in quello internazionale e nella legislazione del lavoro.

[31] A tale riguardo, le stesse direttive fondamentali stabilite dalla Conferenza internazionale della Sanità (New York, 1946) e fatte proprie dalla Organizzazione Mondiale della Sanità prevedono che: “La sanità è uno stato di completo benessere fisico, mentale, sociale e non consiste soltanto nell’assenza di malattie o infermità. Il possesso del migliore stato di sanità che si possa raggiungere costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun essere umano, qualunque sia la sua razza, la sua religione, le sue opinioni politiche, la sua condizione economica e sociale. I Governi hanno la responsabilità della sanità dei loro popoli”.

[32] V. Corte costituzionale 26.7.1979, n. 88. Si tratta, dunque, di una situazione soggettiva assoluta il cui contenuto è dato dalla protezione contro ogni aggressione ad opera di terzi (Cassazione, Sezioni unite, 6.10.1979, n. 5172).

[33] Cassazione, Sezioni unite, 9.3.1979, n. 1463.

[34] Cassazione, Sezioni unite, 9.4.1973, n. 999; 21.3.1974, n. 796; 6.10.1975, n. 3164.

[35] La Corte di cassazione, in tal senso, ha enunciato il principio della risarcibilità del c.d. “danno biologico” in quanto lesivo del diritto alla salute (sentenza 6.6.1981, n. 3675).

[36] V. Corte costituzionale, sentenze n. 175/82 e n. 142/82.

[37] V. Corte costituzionale, sentenza n. 455/90.

[38] La disciplina sui ricoveri, sull’incompatibilità e sull’applicazione di misure alternative verso il recluso-malato ne sono testimonianza.

[39] Sul sito intitolato “L’altro diritto, Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità” all’indirizzo: http://dex1.tsd.unifi.it/altrodir/index.htm cfr. P. POIDOMANI, La revoca delle misure alternative alla detenzione: l’attività del Tribunale di Sorveglianza di Firenze.

[40] V. C. BRUNETTI, Pedagogia penitenziaria, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli.

1. PREMESSA

Possono definirsi condizioni generali, nell’ambito dell’ordinamento penitenziario, l’insieme di condizioni minime che devono sussistere affinché i reclusi possano interagire al meglio con gli operatori nel perseguimento degli obiettivi istituzionali[2].

Il legislatore ha dettagliatamente disciplinato, nel capo II della legge n. 354/75, le condizioni generali di trattamento individuandole, in particolare, nei seguenti aspetti:

§ le caratteristiche degli edifici penitenziari;

§ i locali di soggiorno e di pernottamento;

§ il vestiario e corredo;

§ l’igiene personale;

§ l’alimentazione;

§ la permanenza all’aperto;

§ il servizio sanitario;

§ le attrezzature per attività di lavoro, di istruzione e di ricreazione.

2. L’EDILIZIA PENITENZIARIA ED I LOCALI DI SOGGIORNO E DI PERNOTTAMENTO

Tra le condizioni generali[3] del trattamento l’edilizia[4] penitenziaria è quella a cui la normativa attribuisce maggiore importanza (art. 5 O.P.)[5].

Il modello di edilizia penitenziaria è sempre stato funzionale al raggiungimento degli obiettivi che il legislatore ha inteso assegnare alla pena[6].

Per quanto concerne la situazione attuale, l’esistenza di edifici penitenziari idonei non solo ad assicurare la custodia dei detenuti ma anche a prepararli ad un sistema di vita risocializzante risulta essere la premessa essenziale per un’efficace opera di rieducazione del condannato.

In tal senso l’art. 5 della legge penitenziaria stabilisce, al primo comma, che gli istituti penitenziari devono essere realizzati in modo da accogliere un numero non elevato di detenuti ed internati e ciò sia per ragioni di trattamento sia per ragioni di politica finanziaria.

Ai sensi, poi, del secondo comma dell’art. 5 O.P., i predetti istituti devono essere dotati oltre che di locali per le esigenze della vita individuale anche di locali per lo svolgimento della vita in comune[7].

In particolare, per esigenze di vita individuale devono intendersi non solo quelle del pernottamento o della sistemazione durante il tempo non dedicato ad una qualunque attività, ma anche quelle che più opportunamente possono essere assolte al di fuori dell’altrui presenza (DI GENNARO).

La seconda previsione, invece, trova giustificazione nel fatto che trattamento individualizzato[8] non è sinonimo di trattamento in isolamento. Sarebbe, d’altra parte, quanto meno anomalo che l’istituto penitenziario, concepito come luogo di preparazione per il definitivo reinserimento sociale, non prevedesse già, al suo interno, lo sviluppo di relazioni interpersonali.

L’art. 6 dell’ordinamento penitenziario[9] prevede, poi, al primo comma, che in particolare i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente[10], illuminati con luce naturale ed artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; aerati, riscaldati, ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale. I detti locali devono essere, inoltre, tenuti in buono stato di conservazione e di pulizia.

Nel vigente regolamento di esecuzione, nonostante importanti novità siano state introdotte con gli artt. 6, 7 e 8 che specificano nel dettaglio i criteri da seguire per quanto concerne le condizioni igieniche, l’illuminazione dei locali ed i servizi igienici, non si rinvengono indicazioni in ordine agli impianti planimetrici degli istituti da costruirsi[11], nonché in ordine agli eventuali rifacimenti e ammodernamenti di quelli esistenti.

Per quanto concerne, in particolare, i locali destinati a pernottamento essi consistono in camere dotate di uno o più posti[12].

In linea di massima è previsto che agli imputati sia garantito il pernottamento in camere a un posto, almeno che la situazione particolare dell’istituto non lo consenta (art. 6, comma 4, O.P.). Tale previsione trova la propria ragione d’essere nella eventuale esigenza di isolamento giudiziario e, contemporaneamente, nella intenzione di agevolare il presunto desiderio dell’imputato di pernottare da solo (DI GENNARO). Poiché la norma è dettata in funzione di garanzia per il singolo, non è escluso che l’imputato, se lo desideri, possa essere collocato assieme agli altri.

Per quanto la normativa non lo preveda specificatamente, i nuovi stabilimenti (e quelli esistenti da riadattare) dovrebbero assicurare la creazione di strutture integrate nell’ambiente circostante, cioè dovrebbero trovarsi in una situazione di interconnessione con altri servizi infrastrutturali urbani e territoriali di completamento.

Gli istituti penitenziari dovrebbero, altresì, presentare caratteristiche di adattabilità al mutamento ed all’avanzamento dei programmi di trattamento, cioè dovrebbero avere flessibilità d’uso.

La struttura edilizia dovrebbe, inoltre, necessariamente contribuire a contrastare gli effetti deterioranti della deprivazione sensoriale.

In tal senso, gli ambienti dovrebbero comunque essere differenziati al fine di evitare l’uniformità di strutture e permettere varietà di esperienza visiva.

Negli istituti dovrebbero essere sempre inclusi spazi verdi.

Naturalmente, il rapporto funzionale esistente fra struttura edilizia e servizio penitenziario comporta che la prima contemperi i problemi legati alla gestione dei programmi di trattamento con quelli della custodia e della sicurezza.

3. LE CONDIZIONI IGIENICO–SANITARIE

Premessa

Altra importantissima condizione del trattamento è da rinvenirsi nel corretto esercizio dell’onere posto a carico dell’Amministrazione di assicurare soddisfacenti condizioni igienico-sanitarie nell’ambito degli istituti penitenziari (artt. 7 – 11 O.P.; artt. 6 – 20 reg. esec.), mediante l’attuazione di tutte quelle misure di prevenzione e protezione sanitaria atte a salvaguardare lo stato di benessere fisico e psichico di coloro che vi sono ristretti.

Vestiario e corredo

Secondo quanto previsto dall’art. 7 O.P. l’Amministrazione penitenziaria ha il compito di provvedere a fornire ad ogni detenuto biancheria, vestiario ed effetti d’uso in quantità sufficiente, in buono stato di conservazione e di pulizia e tali da assicurare la soddisfazione delle normali esigenze di vita. Curerà, inoltre, che gli effetti di uso abbiano caratteristiche adeguate al variare delle stagioni e alle particolari condizioni climatiche delle zone in cui gli istituti sono ubicati (art. 9, comma 2, reg. esec.).

L’art. 7 O.P. prevede, poi, che l’abito sia di tessuto in tinta unita e di foggia decorosa[13].

In realtà, i detenuti sono autorizzati ad indossare abiti di loro proprietà purché puliti e convenienti, cosa che normalmente accade.

Può essere, semmai, concesso l’abito da lavoro quando ciò sia reso necessario dall’attività svolta.

Il legislatore del ’75 precisa, inoltre, che l’abito fornito agli imputati deve essere comunque diverso da quello dei condannati e degli internati[14] e che i minorenni vestono in ogni caso abiti di foggia civile.

L’ultimo comma dell’art. 7 O.P., secondo il quale “i detenuti e gli internati possono essere ammessi a far uso di corredo di loro proprietà e di oggetti che abbiano particolare valore morale o affettivo”, è motivato dall’esigenza di riconoscere il valore psicologico e morale rivestito dal possesso e dall’uso di oggetti di proprietà personale.

Gli articoli 9 e 10 del regolamento di esecuzione dettagliano la disciplina in materia meglio di quanto accadesse in passato.

Ciascun detenuto e internato dispone di adeguato corredo per il proprio letto. Gli oggetti che costituiscono il corredo del letto, i capi di vestiario e la biancheria personale, nonché gli altri effetti di uso che l’Amministrazione è tenuta a corrispondere ai detenuti e agli internati, sono indicati, con specifico riferimento alla loro qualità, in tabelle, distinte per uomini e donne, stabilite con decreto ministeriale (art. 9, comma 1, reg. esec.).

Per ciascun capo o effetto deve essere prevista la durata d’uso (art. 9, comma 3, reg. esec.).

L’Amministrazione sostituisce, anche prima della scadenza del termine di durata, i capi e gli effetti deteriorati. Se, però, l’anticipato deterioramento è imputabile al detenuto o all’internato, questi è tenuto a risarcire il danno (art. 9, comma 4, reg. esec.).

Il sanitario dell’istituto può prescrivere variazioni qualitative e quantitative del corredo del letto, dei capi di biancheria e di vestiario in relazione a particolari bisogni dei singoli soggetti (art. 9, comma 5, reg. esec.).

È prevista, poi, la possibilità per l’Amministrazione di provvedere a fornire abiti civili ai dimittendi, qualora essi non siano in condizioni di provvedervi a loro spese (art. 9, comma 10, reg. esec.).

Il regolamento di esecuzione al comma 2 dell’art. 10 prevede, peraltro, che gli istituti siano dotati di un servizio di lavanderia[15].

Il terzo comma dell’art. 10 reg. esec., infine, ribadisce che è ammesso il possesso di oggetti di particolare valore morale o affettivo qualora, però, non abbiano un consistente valore economico e non siano incompatibili con l’ordinato svolgimento della vita nell’istituto (ad es. la fede).

Igiene personale e dei locali di pernottamento

L’igiene fa parte delle condizioni basilari di vita, il cui rispetto realizza il precetto dell’umanizzazione ed è condizione non secondaria perché si possano raggiungere gli obiettivi del trattamento[16] (DI GENNARO).

In tal senso, le innovazioni delle previsioni attuali in materia di igiene personale corrispondono, peraltro, ad un preciso dettato delle Regole Penitenziarie Europee (artt. 17 e 18) che raccomandano di rendere possibile ai detenuti una completa autonomia in relazione alle necessità fisiologiche ed alla pulizia. Rispetto alle previsioni contenute nella legge e nel primo regolamento di esecuzione (D.P.R. n. 431/76) è necessario porre in evidenza le importanti novità introdotte dal nuovo regolamento di esecuzione.

Secondo il vecchio regolamento esecutivo l’adeguatezza e la sufficienza dell’igiene personale dei detenuti e degli internati dovevano essere determinate dal regolamento interno, il quale, pertanto, prevedeva i tempi e le modalità di accesso ai servizi di bagno e di doccia, di barbiere e di parrucchiere.

Il nuovo regolamento esecutivo, pur mantenendo il rinvio al regolamento interno per la previsione dei tempi e delle modalità di accesso ai servizi di barbiere e di parrucchiere e confermando che l’obbligo della doccia può essere imposto per motivi igienico-sanitari (art. 8, comma 5, reg. esec.), ha riconosciuto al detenuto il diritto di gestire autonomamente la propria igiene personale.

Il detenuto, infatti, deve poter disporre di un vano annesso alla camera nel quale devono essere predisposti servizi igienici dotati di lavabo e di doccia (negli istituti femminili anche di bidè) e forniti d’acqua corrente, dei quali il detenuto può usufruire liberamente quando e come ritenga opportuno (art. 7, commi 1 e 2, reg. esec.). Il solo limite a tale libertà è costituito dall’utilizzazione dell’acqua calda, per la quale il detenuto dovrà attenersi agli orari stabiliti dal regolamento interno (art. 8, comma 4, reg. esec.)[17]. Il primo comma dell’art. 6 reg. esec. prescrive che i locali in cui si svolge la vita dei detenuti siano igienicamente adeguati.

Il secondo comma dello stesso articolo stabilisce che le finestre dei locali devono consentire il passaggio di aria e luce naturali[18].

I commi 3 e 4 sempre dell’art. 6 reg. esec. prevedono che le fonti di luce artificiale siano gestite dai detenuti e dagli internati, compatibilmente con un adeguato regime di controlli.

L’Amministrazione penitenziaria deve, poi, provvedere a mettere a disposizione di ogni detenuto gli oggetti e gli strumenti necessari alla pulizia della propria persona e della propria camera[19] (art. 6, comma 5, reg. esec.).

In ciascun istituto sono assicurati i servizi per il periodico taglio dei capelli e la rasatura della barba[20], per le donne è organizzato il servizio di parrucchiere. Di tali servizi si può usufruire periodicamente secondo le necessità (art. 8, comma 2, reg. esec.)[21].

L’art. 6, comma 7, reg. esec. prevede, infine, che se le condizioni logistiche lo consentono siano assicurati reparti per non fumatori.

4. L’ALIMENTAZIONE

L’alimentazione, ancor più dell’igiene personale e degli oggetti di vestiario e di corredo, ha sempre costituito un tema centrale di quanti hanno mosso critiche alle istituzioni penitenziarie.

Il legislatore del ’75, con la previsione dell’art. 9, ha cercato, quindi, di evitare che il detenuto possa subire pregiudizio in questo suo diritto a causa di deficienze organizzative dell’Amministrazione.

L’art. 9 della legge penitenziaria prevede, infatti, che:

“Ai detenuti e agli internati è assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima.

Il vitto è somministrato, di regola, in locali all’uopo destinati.

I detenuti e gli internati devono avere sempre a disposizione acqua potabile.

La quantità e la qualità del vitto giornaliero sono determinate da apposite tabelle approvate con decreto ministeriale.

Il servizio di vettovagliamento è di regola gestito direttamente dall’amministrazione penitenziaria.

Una rappresentanza dei detenuti o degli internati designata mensilmente per sorteggio[22], controlla l’applicazione delle tabelle e la preparazione del vitto.

Ai detenuti e agli internati è consentito l’acquisto, a proprie spese, di generi alimentari e di conforto, entro i limiti fissati dal regolamento. La vendita dei generi alimentari o di conforto deve essere affidata di regola a spacci gestiti direttamente dall’amministrazione carceraria o da imprese che esercitano la vendita a prezzi controllati dall’autorità comunale. I prezzi non possono essere superiori a quelli comunemente praticati nel luogo in cui è sito l’istituto. La rappresentanza indicata nel precedente comma, integrata da un delegato del direttore, scelto tra il personale civile dell’istituto, controlla qualità e prezzi dei generi venduti nell’istituto”.

Anche il vigente regolamento di esecuzione ha introdotto rilevanti novità in materia.

Sono lontani, infatti, i tempi in cui le limitazioni alimentari venivano previste dal legislatore come sanzioni disciplinari per mantenere l’ordine e la sicurezza all’interno dell’istituto penitenziario (artt. 153 e 154 Regolamento del 1931).

Ai detenuti ed agli internati il vitto giornaliero è assicurato incondizionatamente, senza alcuna possibilità di deroga.

La quantità e la qualità del vitto possono variare solo a causa delle specifiche esigenze legate all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro dei ristretti o alla fede religiosa (art. 11, comma 4, reg. esec.), ma mai per ragioni punitive. Al fattore età è dovuta, per esempio, la più intensa frequenza dei pasti prevista per i minorenni (quattro al giorno anziché tre: art. 11, comma 3, reg. esec.). Il legislatore ha tentato di garantire la reale osservanza del diritto in questione attraverso la previsione di apposite tabelle approvate con decreto ministeriale, in conformità del parere dell’Istituto superiore della nutrizione (art. 11, comma 4, reg. esec.).

In questo senso, a dimostrazione di quanto il legislatore della riforma penitenziaria si sia voluto appunto discostare dall’esperienza precedente ha istituito un secondo e, forse, più efficace, sistema di controllo. Si è previsto, infatti, che i detenuti e gli internati tramite una rappresentanza[23] designata per sorteggio e rinnovata quadrimestralmente (art. 67, comma 2, reg. esec.) controllino sia la rispondenza della qualità e della quantità dei cibi a ciò che è stabilito nelle tabelle ministeriali sia le operazioni di prelievo e di utilizzazione dei generi vittuari (art. 12, comma 3, reg. esec.).

Analoga garanzia è prevista anche per il c.d. sopravvitto, cioè, per l’acquisto a spese dei detenuti e degli internati che ne facciano richiesta di generi alimentari e di conforto ulteriori rispetto a quelli ordinariamente forniti dall’Amministrazione per il mantenimento dei ristretti.

Gli stessi generi alimentari ed oggetti possono, poi, esser ricevuti dall’esterno previo controllo all’atto della consegna (art. 14, commi 1 e 5, reg. esec.). Per tali acquisti e ricezioni il regolamento esecutivo fissa, in applicazione del principio di parità di condizioni di vita fra i detenuti, limiti quantitativi e qualitativi, i quali, però, non sono applicabili alle detenute madri per il fabbisogno dei bambini che hanno con sé (art. 14, comma 10, reg. esec.).

Il legislatore precisa anche che il detenuto o l’internato non possono accumulare il cibo in quantità eccedente il proprio fabbisogno settimanale (art. 14, comma 9, reg. esec.).

Tanto il servizio di vitto quanto quello di sopravvitto possono essere gestiti o direttamente dall’Amministrazione penitenziaria o, a seguito di gara di appalto, da imprese esterne[24].

5. PERMANENZA ALL’APERTO

Nel Regolamento del 1931 anziché di permanenza all’aria aperta si parlava di passeggio nei cortili[25].

Oggi la situazione è diversa.

Far trascorrere, infatti, ai soggetti ristretti all’interno dell’istituto penitenziario parte della loro giornata all’aperto risponde, prima di tutto, ad esigenze umanitarie.

È noto, altresì, che la prolungata custodia in ambienti chiusi può provocare sui detenuti, a causa della intensa deprivazione sensoriale, che essi subiscono, effetti psicologici molto negativi ed il rischio di danni irreversibili alle capacità visive.

Da tali preoccupazioni sembra muovere l’art. 16, comma 2, reg. esec., secondo cui la permanenza all’aperto deve avvenire, se possibile, in spazi non interclusi fra fabbricati e deve essere assicurata per periodi adeguati, anche attraverso le valutazioni dei servizi sanitario e psicologico, come strumento di contenimento degli effetti negativi della privazione della libertà personale.

Del diritto all’aria aperta, perciò, l’Amministrazione penitenziaria non può disporre in alcun modo (salva la possibilità di attenuarlo, a non meno di un’ora al giorno, per motivi eccezionali, con provvedimento motivato del direttore dell’istituto[26] ex art. 16, comma 3, reg. esec.), neanche ove si tratti di soggetti in isolamento per ragioni sanitarie, disciplinari o investigative.

Per gli isolati cambiano, invece, le modalità di esercizio del diritto (non più in gruppo ma individualmente).

L’art. 10 O.P. non si limita a proporre la permanenza all’aperto come condizione necessaria per una detenzione accettabile, ma promuove quest’ultima al rango di potenziale elemento del trattamento[27]. Tale considerazione la si evince dall’esplicito invito, rivolto ai direttori di istituto, ad utilizzare la permanenza facendo svolgere ai detenuti esercizi fisici, evitando inutili e monotone passeggiate senza meta.

Il concetto è, d’altra parte, ripreso anche dal regolamento esecutivo, secondo il quale il tempo di permanenza all’aperto è utilizzato, oltre che per le finalità di cui all’art. 10 O.P., per lo svolgimento di attività trattamentali e, in particolare, per attività sportive, ricreative e culturali, secondo i programmi predisposti dalla direzione (art. 16, comma 1, reg. esec.).

6. SERVIZIO SANITARIO[28]

La tutela della salute, il dettato costituzionale e la posizione del detenuto

La tutela della salute[29] rappresenta una tematica non facilmente riconducibile ad un sistema dogmatico omogeneo[30].

La stessa nozione giuridica di tutela della salute non è, peraltro, stata ancora definita in maniera univoca. Infatti, il problema è stato avvertito con differente intensità nei vari momenti storici e nei diversi ordinamenti.

Le definizioni che nel corso del tempo si sono alternate testimoniano come il passaggio da una nozione individuale (necessità del singolo di essere curato) ad una collettiva (interesse della comunità ad avere individui sani) abbia significato un diverso atteggiamento delle istituzioni verso la questione sanitaria.

Il ruolo dello Stato è mutato. Mentre fino al XIX secolo gli interventi statuali erano di tipo assistenziale oggi, invece, lo Stato si è assunto la piena gestione della sanità[31].

La sanità consiste nell’efficienza psico-fisica dell’individuo quale presupposto indispensabile per una completa espressione della sua personalità e socialità. La tutela della salute si esprime nell’azione dello Stato diretta a prevenire e reprimere quelle situazioni che, causando la malattia, impediscono al soggetto una vita piena e dignitosa (POIDOMANI).

La stessa Carta Costituzionale italiana ha fatto propri i principi della Conferenza internazionale della Sanità. Il primo comma dell’art. 32 Cost. afferma:

“la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

In tale previsione diritto ed interesse non sono contrapposti ma reciprocamente integrati: lo stato di salute non riguarda solo il singolo individuo, ma si riflette sulla collettività stessa.

Da questa configurazione discende una duplicità di piani di tutela: difesa della persona dalla malattia e difesa della collettività da tutti quegli elementi ambientali o individuali che possono ostacolare un pieno godimento del diritto. Nemmeno le condizioni economiche del singolo possono costituire un ostacolo alla realizzazione di una piena tutela. In tal senso, la seconda parte del primo comma dell’art. 32 Cost. prevede, in forza dei principi di solidarietà e di partecipazione, la gratuità delle prestazioni sanitarie a favore di chi versi in stato di indigenza.

Il secondo comma dell’art. 32 Cost. stabilisce: “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

La prima parte della disposizione contiene una riserva di legge e pone un preciso vincolo alla pubblica amministrazione nel consentire determinati trattamenti in vista di superiori interessi pubblici, che sono i soli che possono giustificare la compressione del diritto di libertà individuale; la seconda parte della disposizione, diretta allo stesso legislatore, impone, in ogni caso, il rispetto della persona.

Naturalmente la tutela della salute, nelle sue implicazioni costituzionali, non si esaurisce in questi soli profili.

Il diritto alla salute, si è detto, non si riduce solo alla difesa dello stato biopsichico, ma comprende, altresì, il bisogno di personalità e socialità dell’individuo.

L’art. 32 Cost., letto in rapporto agli artt. 2 e 3 Cost., si sostanzia, infatti, in una serie di principi che possono così riassumersi:

a) il diritto alla salute è un fondamentale diritto erga omnes[32]. Tale connotazione ha consentito, peraltro, l’estensione del diritto alla salute sino alla configurazione di un diritto alla salubrità dell’ambiente in cui opera l’individuo[33] e, sul piano processuale, la possibilità di impugnazione dei provvedimenti della pubblica amministrazione ritenuti lesivi avanti al giudice ordinario[34];

b) la salute è un fondamentale diritto verso lo Stato, chiamato non solo a predisporre strutture e mezzi idonei ad assicurare una condizione ottimale di sanità individuale ma anche ad attuare una politica efficace di prevenzione, di cura, di riabilitazione e di intervento sulle possibili cause di turbativa dell’equilibrio psico-fisico della popolazione. In tal modo il diritto alla salute si atteggia quale “diritto sociale” che attua nel settore sanitario il principio di eguaglianza fra i cittadini;

c) la tutela della salute è, alla luce dell’art. 3, secondo comma, Cost., uno strumento di elevazione della dignità sociale dell’individuo e, pertanto, costituisce interesse della collettività;

d) la tutela della salute, per il richiamo dell’art. 3 al rispetto della persona umana, assume un carattere personalistico cosicché il mancato riconoscimento di idonei mezzi di tutela per singoli aspetti specifici di protezione viola la previsione costituzionale relativamente alla persona[35].

La giurisprudenza costituzionale ha, tuttavia, precisato che, pur essendo il diritto alla salute compreso tra le posizioni soggettive direttamente garantite dalla Costituzione, la tutela riconosciuta dal precetto costituzionale può incontrare dei limiti oggettivi sia nella stessa organizzazione dei servizi sanitari sia nelle esigenze di concomitante tutela di altri interessi.

Le connaturali esigenze di sicurezza che sono il presupposto della detenzione possono, quindi, condurre ad un affievolimento della tutela della salute in quegli aspetti che, limitando fortemente la volizione dell’individuo, non consentono una normale fruizione dell’assistenza sanitaria.

In tal senso, la caratteristica che distingue la posizione del recluso dalla totalità dei cittadini, consiste appunto nella mancanza di autodeterminazione alle prestazioni mediche che si sostanzia nella:

a) impossibilità di scegliere il luogo di cura: mentre, infatti, il libero cittadino ha il diritto di scegliersi il luogo di cura, la scelta, per il detenuto, è, invece, effettuata dall’Amministrazione penitenziaria e dall’autorità giudiziaria sulla base delle prevalenti esigenze di sicurezza e dell’adeguatezza del servizio sanitario penitenziario[36];

b) limitazione del diritto alla scelta del medico curante: mentre il libero cittadino gode, al riguardo, di un pieno diritto fondato sul rapporto fiduciario che si viene a creare tra utente del servizio e sanitario, tanto da poter scegliere un altro medico senza fornire alcuna giustificazione qualora venga meno tale rapporto fiduciario, il detenuto, invece, fruisce dell’opera dei medici penitenziari e la possibilità di avere un proprio medico di fiducia è normalmente subordinata alla sua disponibilità economica (art. 17 reg. esec.).

I predetti aspetti, tuttavia, non esauriscono tutti i profili in cui si sostanzia la tutela.

Infatti, come abbiamo già detto, diritto alla salute è concetto che esprime la garanzia di una pluralità di situazioni soggettive assai differenziate tra cui[37]: il diritto alla propria integrità psico fisica; il diritto alla salubrità dell’ambiente; il diritto degli indigenti alle cure gratuite; il diritto all’informazione sul proprio stato di salute e sui trattamenti che il medico vuole effettuare; il diritto alla partecipazione; il diritto di accesso alle strutture; il diritto del malato di comunicare con i propri congiunti.

Pare opportuno, poi, rammentare l’aspetto che costituisce il risvolto negativo della tutela della salute: il diritto di non essere curato.

La configurabilità di tale ultima situazione soggettiva è controversa dal punto di vista costituzionale.

L’argomento rileva ancora una volta il delicato rapporto che lega il diritto alla salute alla tutela della libertà individuale ed alle esigenze collettive.

Infatti, il diritto a non farsi curare, ad essere malato come espressione di libertà, viene ad essere superato nel momento in cui la situazione patologica del singolo mette in pericolo la salute della collettività. In tal caso la legge prevede la possibilità di interventi sanitari obbligatori e coattivi (c.d. T.S.O.) con il solo limite del rispetto della dignità umana (art. 32 Cost).

Se è dato delineare la valenza del diritto alla salute nel nostro ordinamento quale è garantita al cittadino e connotare in negativo la posizione del detenuto, appare imprescindibile osservare come tale connotazione non esaurisca interamente tutte le problematiche esistenti in subiecta materia.

Singolarmente, infatti, la tutela della salute della persona reclusa assume una valenza particolarmente rilevante in relazione a quella che è la concezione della pena riconosciuta nella nostra Costituzione all’art. 27, comma 3, che recita:

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Tale norma costituzionale impone una concezione della pena non meramente retributiva o preventiva ma attenta ai bisogni umani del condannato in vista del suo possibile reinserimento sociale. È naturale osservare come, allora, l’umanizzazione della pena e la rieducazione del detenuto postuli necessariamente la tutela del suo diritto alla salute. La condizione di benessere psico-fisico diviene, infatti, condizione imprescindibile per l’attività volta al recupero sociale dell’individuo. La stessa esecuzione della pena nei suoi caratteri sanzionatori e disciplinari deve cedere pertanto il passo di fronte alla malattia[38].

La tutela del diritto alla salute e l’organizzazione sanitaria in ambito penitenziario[39]

La Costituzione italiana, come si è detto, considera la salute come una condizione indispensabile per il più completo svolgimento ed integrazione della personalità.

La salute è un bene primario non solo del singolo individuo ma anche della società ed è, dunque, doveroso un intervento dello Stato volto a realizzare un’organizzazione sanitaria adeguata alle necessità dei cittadini come singoli e come parte della collettività.

È compito del legislatore assicurare il conseguimento dei fini predetti attraverso la predisposizione di mezzi e l’individuazione di strutture.

In tal senso, l’organizzazione sanitaria per l’erogazione delle prestazioni a favore del cittadino è stata disegnata compiutamente dalla legge n. 833/78 che ha istituito il servizio sanitario nazionale.

Nel settore penitenziario, invece, l’intervento del legislatore in materia di assistenza e organizzazione sanitaria è stato alquanto frammentario ed episodico.

Nel Regolamento del 1931, infatti, non vi era una regolamentazione organica dell’assistenza sanitaria erogata ai detenuti.

Nella legge n. 354/75, che rappresenta il tentativo di attuazione del dettato costituzionale in materia di esecuzione della pena, solo pochi articoli trattano specificamente dell’organizzazione sanitaria. In particolare, l’art. 11 O.P., rubricato “Servizio sanitario”, e composto da ben 13 commi, prevede, in maniera disorganica, una disciplina a larghe maglie.

Al di fuori di tale disposizione vi sono una serie di norme che, pur riguardando la tutela della salute, in quanto dirette in sostanza a regolare il rapporto di compatibilità dello stato di malattia con la detenzione, non attengono all’aspetto organizzativo.

Nonostante i numerosi interventi che hanno apportato nel tempo diverse modifiche alla normativa penitenziaria e prescindendo dal D.P.R. n. 309/90 si può notare come la materia sanitaria sia stata solo marginalmente interessata da mutamenti normativi che hanno riguardato settori connessi, per quanto secondari, al profilo organizzativo.

L’Amministrazione penitenziaria ha tentato di risolvere gli urgenti problemi di omogeneizzazione e razionalizzazione della funzione sanitaria emanando un notevole numero di circolari fino ad arrivare alla riforma del Servizio sanitario penitenziario.

La riforma della medicina penitenziaria

ll trasferimento delle funzioni sanitarie nei confronti dei detenuti e degli internati dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale, è l’atto conclusivo di un lungo processo di riflessione e di ricerca che ha visto progressivamente coinvolti organi politici, studiosi e addetti ai lavori di questo settore.

Nel 1998 la legge n. 419, all’art. 5 aveva affidato ad appositi decreti legislativi il “riordino della medicina penitenziaria”. Mediante la realizzazione di forme progressive d’inserimento all’interno del Servizio sanitario nazionale di personale e di strutture sanitarie dell’Amministrazione penitenziaria, il legislatore intese comprendere l’avvio di tale riordino nell’ambito di un più vasto intervento riformatore riguardante l’intero assetto del sistema assistenziale pubblico.

In attuazione di queste disposizioni, il d.lgs. 22 giugno 1999, n. 230 inseriva tale settore nel Sistema sanitario nazionale, definendo gli ambiti di intervento degli enti interessati – Regioni, Ministero della Salute e Ministero della Giustizia. All’azienda sanitaria locale veniva assegnata la funzione di erogare le prestazioni sanitarie, mentre l’Amministrazione penitenziaria manteveva compiti relativi alla sicurezza.

Lo stesso decreto legislativo 230/1999 disponeva il transito immediato, a decorrere dall’1 gennaio 2000, delle funzioni relative alla prevenzione e all’assistenza e cura dei detenuti tossicodipendenti e prevedeva il trasferimento delle altre funzioni sanitarie al termine di un periodo di sperimentazione da realizzarsi presso alcune Regioni.

Nel 2002 con un decreto interministeriale giustizia-salute, presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, veniva costituita una Commissione mista di studio per il rinnovamento del Servizio sanitario penitenziario con l’obiettivo di definire nuovi modelli organizzativi in materia di tutela della salute della popolazione detenuta, fondati sul principio di assicurare la medicina di base con medici dell’Amministrazione penitenziaria, affidando al Servizio sanitario nazionale la medicina specialistica. La Commissione ha elaborato un ventaglio di proposte che hanno costituito la base anche per una bozza di disegno di legge.

Nel mese di maggio 2007 con la costituzione, presso il Ministero della salute, di un gruppo tecnico riprendeva il cammino per l’attuazione del decreto legislativo 230/1999.

Con la legge finanziaria 2008 – art. 2, commi 283 e 284 – si confermava il definitivo transito in questione da attuarsi mediante l’emanazione di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri per la definizione delle modalità e dei criteri per il trasferimento dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale di tutte le funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali, afferenti alla sanità penitenziaria.

In data 1 aprile 2008 veniva emanato il suddetto decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri corredato dalle linee di indirizzo per interventi negli ospedali psichiatrici giudiziari (O.P.G.) e nella case di cura e custodia e dalle linee di indirizzo per gli interventi del Servizio sanitario nazionale a tutela della salute dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari, e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale.

Al fine di avviare i percorsi indicati dal D.P.C.M., è stato costituito, fin dal mese di aprile 2008, a Roma, presso il Coordinamento commissione salute della Conferenza delle Regioni e Province autonome (struttura associativa interregionale), un gruppo tecnico di rappresentanti delle Regioni al quale sono stati invitati a partecipare, delegati del Ministero della Salute e del Ministero della Giustizia.

Nell’ambito della Conferenza Unificata è stato, inoltre, costituito con atto n. 81CU del 31 luglio 2008 un tavolo di consultazione permanente, con l’obiettivo di garantire l’uniformità nell’intero territorio nazionale degli interventi e delle prestazioni sanitarie e trattamentali nei confronti dei detenuti, degli internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale, e un Comitato paritetico interistituzionale con funzioni di attuazione delle linee guida per gli interventi negli Ospedali psichiatrici giudiziari e nelle case di cura e custodia di cui all’allegato C del D.P.C.M.

Il 2 febbraio 2009 la Regione Toscana, coordinatrice interregionale in materia di sanità, ha inviato una prima bozza di uno schema di convenzione tipo per l’utilizzo da parte delle aziende sanitarie locali (nel cui territorio sono ubicati gli istituti ed i servizi sanitari di riferimento) di locali adibiti all’esercizio delle funzioni sanitarie. Dopo l’esame, nel corso di alcune riunioni del tavolo di consultazione permanente, la versione definitiva dello schema è stata approvata dalla Conferenza Unificata il 29 aprile 2009.

Cosa è cambiato con la riforma

Tutte le funzioni sanitarie svolte dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Dipartimento della Giustizia Minorile sono state trasferite al Servizio sanitario nazionale, comprese quelle concernenti il rimborso alle comunità terapeutiche, sia per i tossicodipendenti e per i minori affetti da disturbi psichici, delle spese sostenute per il mantenimento, la cura e l’assistenza medica dei detenuti di cui all’articolo 96, commi 6 e 6 bis, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni, nonché per il collocamento, disposto dall’autorità giudiziaria, nelle comunità terapeutiche per minorenni e per giovani adulti di cui all’articolo 24 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272. Le Regioni garantiscono l’espletamento delle funzioni trasferite attraverso le aziende sanitarie locali nel cui ambito di competenza sono ubicati gli istituti e servizi penitenziari e i servizi minorili di riferimento.

I principi di riferimento della riforma

I principi di riferimento della riforma possono così sintetizzarsi:

§ il riconoscimento della piena parità di trattamento, in tema di assistenza sanitaria, degli individui liberi e degli individui detenuti ed internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale;

§ la necessità di una piena e leale collaborazione interistituzionale;

§ la complementarietà degli interventi a tutela della salute, con gli interventi mirati al recupero sociale del soggetto sottoposto a limitazione della libertà personale;

§ la garanzia, compatibilmente con le misure di sicurezza, di condizioni ambientali e di vita rispondenti ai criteri di rispetto della dignità della persona;

§ la Garanzia della continuità terapeutica per l’efficacia degli interventi di cura dal momento dell’ingresso in carcere e/o in una struttura minorile e dopo la scarcerazione e immissione in libertà.

Gli obiettivi di salute e i livelli essenziali di assistenza

Altri concetti cardine sono:

§ promozione della salute, anche all’interno dei programmi di medicina preventiva e di educazione sanitaria, mirata all’assunzione di responsabilità attiva nei confronti della propria salute;

§ promozione della salubrità degli ambienti e di condizioni di vita salutari, pur in considerazione delle esigenze detentive e limitative della libertà;

§ prevenzione primaria, secondaria e terziaria, con progetti specifici per patologie e target differenziati di popolazione, in rapporto all’età, al genere e alle caratteristiche socioculturali, con riferimento anche alla popolazione degli immigrati;

§ promozione dello sviluppo psico-fisico dei soggetti minorenni sottoposti a provvedimento penale;

§ riduzione dei suicidi e dei tentativi di suicidio, attraverso l’individuazione dei fattori di rischio.

Il Personale della c.d. Presidio Sanitario Locale Penitenziario

Il personale sanitario operante negli istituti penitenziari è costituito da più figure professionali.

La realtà del Presidio Sanitario Locale Penitenziario costituisce un chiaro esempio della mancanza, in subiecta materia, di una visione sinergica e d’insieme delle varie professionalità esistenti a fronte di una disciplina per comparti creatasi nel tempo. Gran parte della situazione attuale è da imputarsi, infatti, a scelte legislative che hanno spiegato i loro effetti in termini di frammentarietà e disorganicità della disciplina del servizio sanitario.

Il personale medico e paramedico

Si è visto, come nell’organizzazione delle strutture penitenziarie, si potesse individuare prima un’area sanitaria mentre oggi un Presidio Sanitario Locale Penitenziario.

Al Presidio Sanitario Locale Penitenziario, quale dirigente, viene normalmente preposto un responsabile sanitario.

All’interno dell’area esplicano la loro attività, tuttora, vari operatori e principalmente: medici di guardia, medici specialisti, infermieri professionali e generici.

7. CONCLUSIONI

Il legislatore prevede esplicitamente che per attuare un trattamento ispirato ad umanità e pienamente rispondente alle finalità costituzionali debbano esservi delle condizioni minime che devono, appunto, sussistere affinché i reclusi possano interagire al meglio con gli operatori nel perseguimento degli obiettivi istituzionali.

In tal senso, come abbiamo detto, il legislatore ha dettagliatamente disciplinato, nel capo II della legge n. 354/75, le condizioni generali di trattamento. Purtroppo, in molte occasioni le previsioni normative rimangono, invece, inattuate atteso che il sovraffollamento endemico e la scarsità di risorse economiche da destinare alle strutture penitenziarie determinano continue criticità che gli operatori sono chiamati a risolvere, alla meglio, ricorrendo alla propria professionalità[40].

Sarebbe, quindi, opportuno che quanto prima il legislatore adotti provvedimenti finalizzati a incidere anche e soprattutto sulle cause strutturali della degenerazione dello stato delle carceri come sostenuto, peraltro, con forza, anche dal Presidente della Repubblica.

[1] Dirigente penitenziario – curatore della Rivista on-line Diritto & Civiltà, presente all’indirizzo www.dirittopenitenziario.it.

[2] C. BRUNETTI – M. ZICCONE, Diritto Penitenziario, Simone editore, Napoli, 2010.

[3] Cfr. G. DI GENNARO - R. BREDA - G. LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1997, 61 e ss.

[4] Per edilizia si intende l’insieme dei procedimenti e delle tecniche che hanno come scopo la realizzazione di strutture architettoniche.

[5] L’espressione “edilizia penitenziaria” va usata con esclusivo riferimento alle costruzioni appositamente nate per l’esplicazione della funzione penitenziaria. Gli albori di una vera e propria edilizia penitenziaria risalgono al XVIII secolo e sono contestuali al sorgere della nuova concezione del carcere come luogo ove si scontano le pene. Per mera notizia storica va rilevato che il partito architettonico del monastero, costituito da una serie di celle singole in uno spazio comune ricoperto, deve legittimamente considerarsi l’archetipo di quello carcerario.

[6] Il tema dell’edilizia penitenziaria ha, infatti, un valore emblematico, poiché le strutture degli edifici carcerari sono da sempre la testimonianza più evidente della funzione retributiva svolta storicamente dal sistema penale.

[7] Con la sentenza del 16 luglio 2009, la CEDU, nel caso SULEJMANOVIC c. Italia (ricorso n. 22635/03), dove il ricorrente lamentava le condizioni della propria detenzione nel carcere di Rebibbia a Roma, ha accertato la violazione dell’art. 3 della Convenzione per sovraffollamento carcerario. Questo è il primo caso di accertamento di una simile violazione nei confronti dell’Italia. Il caso è emblematico e di grande attualità in considerazione della grave situazione di sovraffollamento attualmente esistente nelle carceri italiane.

[8] Non è sinonimo di trattamento individuale.

[9] Le disposizioni dell’art. 6 legge penitenziaria riflettono anche nella forma le analoghe previsioni contenute nelle Regole Minime dell’O.N.U. (nn. 9 – 14) e del Consiglio di Europa (nn. 8 – 13). Si deve però rilevare che i parametri di riferimento per determinare le caratteristiche dei locali non sono quantificati. Essi si richiamano a criteri di normalità desumibili dall’avanzamento dei livelli di vita raggiunti dalla società esterna (DI GENNARO).

[10] L’edificio carcerario e tutto il complesso dovrà essere la risultante dell’articolazione dei diversi settori che compongono il carcere stesso, studiato nella dinamica della vita carceraria per cui, sarà l’analisi dei servizi e dei percorsi e della funzionalità degli stessi ad indicare i volumi di sviluppo (MASTRANTUONO).

[11] Ad es. schemi lineari, poligonali, stellari, ad Y, a croce e doppia croce, a palo telegrafico.

[12] Il superamento dei modelli edilizi che sono all’origine della storia dell’architettura penitenziaria ha comportato, infatti, come si è già osservato, l’abbandono del rigido criterio di collocare ciascun detenuto in un locale singolo (cella o cubicolo) (DI GENNARO). L’esperienza, però, ha dimostrato che in molti casi è conveniente disporre dell’alternativa fra locali singoli e locali pluriposto. Ciascuno di essi ha una sua funzione che si specifica in relazione al tipo di trattamento da attuare ed in relazione alle diverse esigenze psicologiche dei soggetti. Conseguentemente particolare cura dovrà, secondo quanto stabilito dal legislatore ed in conformità a quanto previsto dalle Regole minime del Consiglio d’Europa e a quelle dell’O.N.U., essere impiegata nella scelta di quei soggetti che sono da collocarsi in camere a più posti.

[13] Naturalmente il richiamo alla tinta del tessuto ed alla foggia decorosa assumono significato in rapporto alla lontana tradizione che prevedeva l’abito a strisce. Cfr. M. PASTOUREAU, La stoffa del diavolo, ed. Il Melangolo, 1993.

[14] La differenza fra l’abito fornito agli imputati e quello fornito ai condannati e agli internati è una derivazione del principio costituzionale che vieta ogni assimilazione fra gli imputati e gli altri reclusi.

[15] L’organizzazione di un servizio di lavanderia risponde, infatti, ad una concreta e comprensibile esigenza dei detenuti e garantisce, inoltre, la diminuzione dei pacchi in entrata ed in uscita dagli istituti con conseguente economia nell’utilizzazione del personale di Polizia penitenziaria adibito ai relativi controlli.

[16] Igiene (gr. Hygidinein, essere in buona salute) è una branca della medicina che studia i mezzi atti a mantenere e migliorare la salute individuale e collettiva. Per adempiere ai suoi compiti l’azione della igiene si esplica secondo tre direttrici principali: attuazione della normativa che tenda a migliorare l’organismo e a renderlo meno sensibile alle offese ambientali (igiene individuale); miglioramento delle condizioni ambientali di vita e di lavoro, cercando di modificarle per renderle più favorevoli all’organismo (igiene dell’ambiente e del lavoro); ricerca e scoperta delle cause morbigene esogene e dei metodi per neutralizzarle e prevenirle (igiene pubblica e sociale).

[17] L’inserimento della doccia nell’ambito del vano dei servizi annesso alle singole camere presenta un indubbio vantaggio nella promozione dell’igiene individuale, indispensabile in comunità numerose e con le caratteristiche degli istituti penitenziari. Non vanno, inoltre, trascurati anche i vantaggi di gestione di questa previsione: si eliminano, infatti, i problemi e le tensioni connesse alle limitazioni all’accesso alle docce e alla difficoltà di soddisfare le esigenze di tutti in sezioni talvolta molto numerose. Si superano, infine, anche le difficoltà tecniche, manifestatesi molto frequentemente in passato, circa la manutenzione dei locali doccia in stato di efficienza accettabile, quando l’uso collettivo degli stessi fosse stato particolarmente intenso.

[18] L’uso eccezionale di schermature dovrà, quindi, rispondere a dimostrate ragioni di sicurezza e le schermature stesse dovranno presentare determinate caratteristiche enunciate nel comma stesso.

[19] I detenuti e gli internati, che siano in condizioni fisiche e psichiche che lo consentano, provvedono direttamente alla pulizia delle loro camere e dei relativi servizi igienici. Per la pulizia delle camere nelle quali si trovano soggetti impossibilitati a provvedervi, l’Amministrazione si avvale, a volte, dell’opera retribuita di detenuti e internati.

[20] Può essere consentito, nei locali di pernottamento, l’uso del rasoio elettrico autoalimentato. Tale previsione legislativa ha evidente sostanza regolamentare e tende ad ovviare al problema dell’uso non controllato della corrente elettrica.

[21] Il rispetto della dignità della persona sottoposta a pena detentiva, sancito dall’art. 1, comma 1, O.P. fa sì che i reclusi non possano essere obbligati ad adeguarsi a modelli estetici predeterminati dall’Amministrazione penitenziaria. In tal senso, il taglio dei capelli e della barba non si configura più come una imposizione (art. 69 Regolamento del 1931) ma come un normale servizio offerto ai detenuti (art. 8, commi 2 e 4, reg. esec.) salvo quando sia funzionale alla tutela di interessi aventi carattere igienico–sanitario.

[22] L’art. 12 reg. esec., rubricato “Controllo sul trattamento alimentare e sui prezzi dei generi venduti nell’istituto”, prevede in particolare che:

“1. La rappresentanza dei detenuti e degli internati prevista dal sesto comma dell’articolo 9 della legge è composta di tre persone.

2. Negli istituti in cui la preparazione del vitto è effettuata in più cucine, è costituita una rappresentanza per ciascuna cucina.

3. I rappresentanti dei detenuti e degli internati assistono al prelievo dei generi vittuari, ne controllano la qualità e la quantità, verificano che i generi prelevati siano interamente usati per la confezione del vitto.

4. Ai detenuti e agli internati lavoratori o studenti, facenti parte della rappresentanza, sono concessi permessi di assenza dal lavoro o dalla scuola per rendere possibile lo svolgimento del loro compito; per i detenuti e gli internati che lavorano per l’Amministrazione penitenziaria tali permessi orari sono retribuiti.

5. La rappresentanza suddetta e il delegato del direttore, indicato nel settimo comma dell’articolo 9 della legge, presentano, congiuntamente o disgiuntamente, le loro osservazioni al direttore.

6. La direzione assume mensilmente informazioni dall’autorità comunale sui prezzi correnti all’esterno relativi ai generi corrispondenti a quelli in vendita da parte dello spaccio o assume informazioni sui prezzi praticati negli esercizi della grande distribuzione più vicini all’istituto. I prezzi dei generi in vendita nello spaccio, che sono comunicati anche alla rappresentanza dei detenuti e degli internati, devono adeguarsi a quelli esterni risultanti dalle informazioni predette”.

[23] Per alcuni studiosi si tratterebbe di una vera e propria commissione; v. in tal senso D. PATETE, Manuale…, cit., 332; v. anche C. BRUNETTI – M. ZICCONE, Diritto penitenziario, Simone, 2010.

[24] Quest’ultima è oggi l’ipotesi di gran lunga più ricorrente.

[25] Si coglieva, quindi, anche nella denominazione, il residuo di una concezione remota, secondo cui ai detenuti era concesso di uscire dalle celle solo per passeggiare in file ordinate e in silenzio.

[26] Il provvedimento del direttore dell’istituto viene comunicato al Provveditore regionale ed al magistrato di sorveglianza ex art. 16, comma 3, reg. esec..

[27] L’art. 10 O.P. prevede al primo comma che: “Ai soggetti che non prestano lavoro all’aperto è consentito di permanere almeno per due ore al giorno all’aria aperta. Tale periodo di tempo può essere ridotto a non meno di un’ora al giorno soltanto per motivi eccezionali”.

[28] Sul sito intitolato “L’altro diritto, Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità” all’indirizzo: http://dex1.tsd.unifi.it/altrodir/index.htm cfr. P. POIDOMANI, La revoca delle misure alternative alla detenzione: l’attività del Tribunale di Sorveglianza di Firenze; cfr. anche la ricerca di R. ANDREANO, Tutela della salute e organizzazione sanitaria nelle carceri: profili normativi e sociologici, sul sito intitolato “L’altro diritto, Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità” all’indirizzo: http://dex1.tsd.unifi.it/altrodir/index.htm.

[29] Cfr. la ricerca di R. ANDREANO, Tutela della salute e organizzazione sanitaria nelle carceri: profili normativi e sociologici, sul sito intitolato “L’altro diritto, Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità” all’indirizzo: http://dex1.tsd.unifi.it/altrodir/index.htm.

[30] Numerose, infatti, sono le discipline che se ne occupano: la medicina, la politica, il diritto, la sociologia, l’economia, la psicologia. Nell’ambito giuridico, ad esempio, la tutela della salute viene in considerazione non solo nel diritto costituzionale e penale ma anche nel diritto amministrativo, in quello internazionale e nella legislazione del lavoro.

[31] A tale riguardo, le stesse direttive fondamentali stabilite dalla Conferenza internazionale della Sanità (New York, 1946) e fatte proprie dalla Organizzazione Mondiale della Sanità prevedono che: “La sanità è uno stato di completo benessere fisico, mentale, sociale e non consiste soltanto nell’assenza di malattie o infermità. Il possesso del migliore stato di sanità che si possa raggiungere costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun essere umano, qualunque sia la sua razza, la sua religione, le sue opinioni politiche, la sua condizione economica e sociale. I Governi hanno la responsabilità della sanità dei loro popoli”.

[32] V. Corte costituzionale 26.7.1979, n. 88. Si tratta, dunque, di una situazione soggettiva assoluta il cui contenuto è dato dalla protezione contro ogni aggressione ad opera di terzi (Cassazione, Sezioni unite, 6.10.1979, n. 5172).

[33] Cassazione, Sezioni unite, 9.3.1979, n. 1463.

[34] Cassazione, Sezioni unite, 9.4.1973, n. 999; 21.3.1974, n. 796; 6.10.1975, n. 3164.

[35] La Corte di cassazione, in tal senso, ha enunciato il principio della risarcibilità del c.d. “danno biologico” in quanto lesivo del diritto alla salute (sentenza 6.6.1981, n. 3675).

[36] V. Corte costituzionale, sentenze n. 175/82 e n. 142/82.

[37] V. Corte costituzionale, sentenza n. 455/90.

[38] La disciplina sui ricoveri, sull’incompatibilità e sull’applicazione di misure alternative verso il recluso-malato ne sono testimonianza.

[39] Sul sito intitolato “L’altro diritto, Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità” all’indirizzo: http://dex1.tsd.unifi.it/altrodir/index.htm cfr. P. POIDOMANI, La revoca delle misure alternative alla detenzione: l’attività del Tribunale di Sorveglianza di Firenze.

[40] V. C. BRUNETTI, Pedagogia penitenziaria, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli.